Nel nobile spazio della ποίησις (poiesis), molto spesso noi donne e uomini, magari insieme a poeti come Michela Zanarella e Fabio Strinati, vorremmo risalire la china dell’avversità del male, del no sense, evitando di chiedere aiuto ai raggi del sole della logica deduttiva: di frequente impietosa, la ragione è infatti all’altezza di accecare, evidenziando antinomie troppo incombenti. Trapela piuttosto l’idea di seguire, alla luce di una luna nitida e serena, tracce induttive del mistero della vita, sondato, in parte svelato, da una poetica favorevole, se ben indirizzata, a condurre a un epilogo salvifico. In tale orizzonte, è annunciato: «Ci salveremo se vuoi / sporcandoci l’anima di cielo / e facendo rumore con il silenzio».
Accolgo così il coraggio implicito nel suggerire la “esigenza del silenzio” sin dal titolo dell’omonima silloge, e dal momento che sono da sempre convinta nel profondo delle qualità possedute da questa emblematica “sosta” linguistica del messaggio, non individuo empasse inibitorie o disorientamento. Registro, al contrario, una singolare tensione a sfiorare il timore di commentare, ossia parlare, laddove anche io sarebbe il caso rimanessi muta: infatti, sono cosciente di quanto gli intervalli di ogni comunicazione – di solito coincidenti con pause silenziose – in scala propositiva ricoprano, nel mosaico significativo in grado di ospitarli, un ruolo di rilievo e funzionale da rispettare e non profanare.
Dunque l’indagine – consona al giudizio sintetico kantiano di “bello” – del volume L’esigenza del silenzio (edito da Le Mezzelane), già nell’itinerario informativo tipico della decisione tecnico-semantica costruita, sembra inquietante e carica di enigmatiche attrattive: in aggiunta emerge, elemento caratteristico della raccolta, la magia strutturale dell’essere stata elaborata “a quattro mani”, in una scelta di per sé affascinante, nei termini di “esplorazione condivisa dell’anima”. La coppia di autori, Zanarella e Strinati, ha pertanto stabilito «di unire le loro voci e di compiere un percorso di analisi interiore, consapevoli che la scrittura in versi libera emozioni e sentimenti a volte inaspettati».
Per buona sorte, una simile utopia non è disturbata, distraendo il destinatario, da alcuna incursione indiscreta o evasiva: «Respira il vento / che / sui campi di grano ascolta / le nostre voci narrare / di alti campanili e di pianure / chiare come lunghi silenzi. / Parlano / senza una ciglia di luce». Allora, è consentito varcare con il pensiero, in un iter lineare e illuminante, il sistema ermeneutico linguistico di Ludwig Wittgenstein, dove il parlare del silenzio equivarrebbe a inoltrarsi nel linguaggio medesimo: poiché, per manifestare con precisione le entità inesprimibili, dovremmo, per necessità, ricorrere comunque all’utilizzo ponderato di un distinto atto di parole, ovunque sia collocato o appaia, in quid presente, altresì assente.
L’input creativo così avviato offre di conseguenza una visione del mondo legittima sotto ogni profilo pertinente: con un’impronta intellettuale disseminata di sintagmi e paradigmi formulati con libertà, veicoli di dati concreti – essendo immagini provenienti dall’insieme adiacente – sono in cammino a partire da una metafisica astrattiva, eppure tradotta in attualità. Nella prefazione a L’esigenza del silenzio, del resto, Dante Maffia puntualizza di trovarsi di fronte a «un lirismo che non svicola in sfumature astratte, ma che ferma la sua attenzione sui risvolti esistenziali, com’è nella tradizione che va da Leopardi a Goethe a Rilke».
Lo scrittore e docente Jean-Claude Pelli, in uno studio minuzioso e dettagliato su Wittgenstein, argomenta il concetto secondo il quale, per il filosofo austriaco, il movimento deciso a evitare messaggi tout-court dichiarativi, non avrebbe origine, a priori, dall’intento di promuovere un atteggiamento di chiusura: piuttosto, spalancherebbe un orizzonte ontologico progressivo, fautore di ipotesi comunque adatte a esporre codici espressivi rigorosi, mai però oltre le righe di un fluire vitale autentico e da tutti difeso. In un brano della silloge è precisato: «Quante anime abbiamo dentro / cementate a noi / come alle pareti della vita. […] La mia la riconosco appena / perché non so da dove sale la notte / o dove la luce va in preghiera. […] forse è identica ad un cancello / che già ho aperto, / un cancello di nuvole e metallo / che ho lasciato al silenzio / prima di andare altrove».
Sebbene sia celeberrimo l’aforisma del filosofo austriaco incluso nel Tractatus («Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»), l’incapacità per il termine “silenzio” di uscire dagli spazi generativi originari sarebbe solo indice della facoltà favorita di essere altro dal sistema verbale: si identificherebbe insomma con un divenire ulteriore a lato del corpus lessicale, invece “attivo” nella realtà denotativa, connotativa, accertata. Di conseguenza, potrebbe essere idoneo considerare il “trattare” un contesto di lessico e messaggio sperimentato al pari di pregiudizi confusi e sfuggenti (il simbolo del “cancello già aperto”): per altra strada, cerchiamo di convergere in un ambito dove le anime “avvicendate” nel corso della nostra vita siano arricchite della prerogativa di “cementarsi” in uno status esistenziale e spirituale attendibile, ricco di processi cognitivi efficaci.
Il subentrare di un dato silenzio, con la propria aura, è perfetto da inserire nelle strutture semiotiche ospitanti e dinamico in quelle ospitate, comparendo in egual misura soggetto a verifica differenziale, lontano da divagazioni astruse o cabalistiche. Nelle metafore e metonimie della poetessa Michela Zanarella e del collega anche musicista Fabio Strinati, scaturisce così un linguaggio articolato in direzioni analoghe. Possiamo osservare all’opera, nei loro componimenti, sistemi di pertinenza assertori di un margine sostantivale e sintattico non nella veste di simbolo utopico emerso per discernere le aree, referenziali e psicologiche, presunte antagoniste (il concreto sincero e l'”effimero” convenzionale): bensì nel compito di modello distintivo nato all’interno di una pragmatica caratteristica (realistica o immaginata), adeguata a rilevare indizi di conoscenza personale e comunitaria.
Il canto a due voci conferisce, dunque, grande suggestione a un “parlare insieme”, prima o dopo unità separate e frasi costruite. L’ineffabile da cogliere nelle strofe intrecciate da Zanarella e Strinati non coincide tanto con un valore arcano da provare a captare: è semmai situato nell’intimo di un’ampia gamma di possibilità inedite e genuine di enunciati relativi a quello che in effetti noi siamo. Traspare, in un discorso del genere, uno statuto di significante e significato non espresso nel codice imperativo diffuso: al contrario, è svelato e dimostrato dall’uso assennato e confacente di ogni segno-vocabolo, sicché il varco da rintracciare determina un campo associativo e nozionale di elementi non traslati in meccanismi appiattiti su canoni formali e di ordine mentale ramificati e diffusi.
Il dentro e il fuori non solca linee esterne di blocco, installate tra queste zone ideali: nondimeno, il percepire semantico privato o collettivo, affidato a un’intelaiatura di regole stilistiche e della ragione – costitutiva dello sviluppo dell’idioma stesso – continua ad avanzare con emotività intensa e attuale. Ed ecco: «Ci sentiremo figli di un tempo / mai spento negli inganni della vita. / Prenderemo dal sole / una pioggia calda di segreti / e al vuoto degli occhi faremo spazio / allo stupore che diventeremo. / Ci alzeremo tra i giorni / come confini che si esplorano / tolto il buio dal cuore / e la fatica degli amori spinti / troppo in alto».
In una corrispondente Weltanschauung, accade di scorgere qua e là i segnali di influenza tipici dell’unspeakable (eventi «troppo in alto»), ossia emblemi di un immenso distacco semiotico tra mezzo e riferimento, viceversa auspicati “vicini” a noi, al destinatario-interprete («ci sentiremo figli di un tempo / mai spento»).
In sintonia a simili tematiche, Wittgenstein identifica la ragione con una prospettiva linguistica ma, proponendo un tale apparato verbale, non teorizza certo l’attività di un linguaggio di impianto euristico dai toni oscuri e inesplicabili: l’analisi affiorata da una logica e da un’epistemologia progettate secondo i presupposti illustrati non è esercitata se non a scopo di verifica e resa dialettica della dicibilità in quanto fenomeno in sé. L’interlocutore non incontrerebbe quindi ostacoli nel palesarsi, in primis proiettato nell’essenza in nuce del mondo, poi rivelandosi così qual è: il più delle volte contrapponendosi all’esperienza ricavata in un hic et nunc oltremodo diretto.
Nelle poetiche, nelle letterature, nelle avanguardie delle varie epoche, del “silenzio” si sono occupati in molti, anche a lato della specifica sfera tecnico-esecutiva inerente il repertorio musicale: è stato però lasciato volutamente incompiuto il dilemma del ruolo risolutivo ricoperto nei due contesti da dimensioni espressive tangibili e utopie in progress. Già nel tardo Ottocento, l’illustre romanziere Guy de Maupassant così definiva la musica: «La più poetica e la più precisa delle arti, vaga come un sogno ed esatta come l’algebra».
Gli autori
Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Credo (2006), Risvegli (2008), Vita, infinito, paradisi (2009), Sensualità (2011), Meditazioni al femminile (2012), L’estetica dell’oltre, 2013), Le identità del cielo (2013) Tragicamente rosso (2015) Le parole accanto (2017). In Romania è uscita in edizione bilingue la raccolta Imensele coincidente (2015). È inclusa nell’antologia Diramazioni urbane (2016), a cura di Anna Maria Curci. Autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di Periodico italiano Magazine e Laici.it. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi e giapponese. Ha ottenuto il Creativity Prize al Premio Internazionale Naji Naaman’ 2016. È ambasciatrice per la cultura e rappresenta l’Italia in Libano per la Fondazione Naji Naaman. E’ speaker di Radio Doppio Zero. Socio corrispondente dell’Accademia Cosentina, fondata nel 1511 da Aulo Giano Parrasio. Si occupa di relazioni internazionali per EMUI EuroMed University.
Fabio Strinati (poeta, scrittore, compositore) nasce a San Severino Marche il 19 gennaio 1983 e vive ad Esanatoglia, un paesino della provincia di Macerata nelle Marche. Molto importante per la sua formazione, l’incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci. Ottaviucci è conosciuto soprattutto per la sua attività di interprete della musica contemporanea, per le sue prestigiose e durature collaborazioni con maestri del calibro di Markus Stockhausen e Stefano Scodanibbio, per le sue interpretazioni di Scelsi, Stockhausen, Cage, Riley e molti altri ancora. Partecipa a diverse edizioni di “Itinerari D’Ascolto”, manifestazione di musica contemporanea organizzata da Fabrizio Ottaviucci, come interprete e compositore. Strinati è presente in diverse riviste ed antologie letterarie. Da ricordare Il Segnale, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini. La rivista culturale Odissea, diretta da Angelo Gaccione, Il giornale indipendente della letteratura e della cultura nazionale ed Internazionale Contemporary Literary Horizon, la rivista di scrittura d’arte Pioggia Obliqua, la rivista “La Presenza Di Èrato”, la revista Philos de Literatura da Unia Latina, L’EstroVerso, Fucine Letterarie, La Rivista Intelligente, aminAMundi, EreticaMente, Il Filorosso, Diacritica, la rivista Euterpe, Il Foglio Letterario, Versante Ripido.
L’esigenza del silenzio, di Michela Zanarella e Fabio Strinati, Le Mezzelane Casa Editrice, pagg. 152, € 14,90