E’ considerato uno dei volti più particolari e interessanti del cinema italiano. Corrado Solari è nato a Rimini, ma vive da molti anni a Roma. Nella sua lunga carriera da attore, iniziata nella prima metà degli anni Settanta, ha sempre interpretato ruoli impegnativi ed è riuscito a farsi apprezzare dal pubblico e dalla critica per la sua unicità espressiva.
Recentemente ha lavorato nel film “Questione di Karma” diretto da Edoardo Falcone, insieme a Elio Germano e Fabio De Luigi. Tra i film più noti che lo hanno visto protagonista ricordiamo: “Giù la testa” diretto da Sergio Leone, “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri, “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio, tre film con Tomas Milian, sceneggiati e fiction per la TV. Inoltre “Ma che colpa abbiamo noi”, “L’amore è eterno finché dura” regia di Carlo Verdone, “L’uomo delle stelle” regia di Giuseppe Tornatore. Nel cinema è stato diretto anche da: Pietro Germi, Elio Petri, Damiano Damiani, Steno, Carlo Carunchio, Marco Bellocchio, Umberto Lenzi, Stelvio Massi, Sergio Castellitto, Michele Placido, e tanti altri. Lo incontriamo per un’intervista.
Corrado Solari, come ricorda il suo esordio da attore?
“Nacqui a Rimini. Dopo vicissitudini da giramondo per mari e sogni, i più azzardati, anche ‘impossibili’, sentii di sbarcare ad una Scuola dell’attore a Trieste, città che artisticamente bolle sotto. Avevo 18 anni. Dopo il triennio con promettenti soddisfazioni mi avviai nell’unica direzione possibile per un giovanissimo attore: Roma. Era il 1969. E lì le cose, i fatti, i personaggi, le vicende politiche, in quel periodo tutto era esasperato, saturo, spregiudicato, possibile, innamorabile. Ci accampammo a piazza Sonnino a Roma in casa di un regista, autore e impresario che ci ospitò in cambio della nostra partecipazione ai suoi testi. E fondammo il ‘Teatro la Paglia’ in via della Paglia a Santa Maria in Trastevere…ora sparito; anche se spesso vado a recuperare qualche memoria, ma non c’è proprio più. Facemmo diversi testi con discreto successo. I posti disponibili erano sempre esauriti: in quegli anni era il momento dei teatri dì avanguardia: Ricci, Carmelo Bene, Teatro Camion, Beat 72, La Fede. Ecco, esiliai con vigoroso andare verso il teatro ‘La Fede’, in uno di quei suggestivi magazzini a Porta Portese, compagnia di Manuela Kustermann e Giancarlo Nanni. E fu cosa bella e grandiosa. Eravamo in nove. Un pensiero intenso lo dedico a Fiammetta Baralla, Giancarlo Nanni che ci lasciarono pochi anni fa e a Meme’ Perlini che ci ha lasciato il 4 aprile 2017”.
Nella sua lunga carriera ha lavorato con i grandi registi del cinema italiano: Sergio Leone, Giuseppe Tornatore, Steno, Marco Bellocchio, Michele Placido, Carlo Verdone, Pupi Avati, per citarne alcuni. Che cosa si porta umanamente e professionalmente di tutte queste importanti collaborazioni?
“Non vorrei si dimenticasse un ‘incredibilmente’ primo regista Pietro Germi ne ‘Le Castagne sono buone’ con Gianni Morandi, Nicoletta Macchiavelli, Stefania Casini. Germi che ci vide a teatro e ci scritturò tutti, perchè affiatatissimi e duttili come gruppo. Dovevamo essere come teatro il luogo di trasgressione della Macchiavelli, fuorviata dai vizietti e ‘fumi’ della gioventù hippy di quel tempo. Germi era come il suo ‘Il ferroviere’: severo, concentrato, rispettoso, orso. Grazie a quei quattro giorni di lavoro con lui avevamo finalmente due lire. Gioia infinita, pienezza. E arrivò Sergio Leone sovrano nella sua lucida pacatezza, saggia , profonda e di acume ineguagliato. Quanto amore per i suoi eroi: ti faceva entrare nel suo sogno come fosse casa sua e tu, mai stanco nonostante il caldo e i deserti, ne uscivi appagato. Amava i ‘triestini’, perché diceva che erano tutti molto bravi…io compreso. Mi promise una grande parte nel suo imminente ‘C’era una volta l’America’, ma un grosso problema familiare mi impedì di presentarmi alla preparazione. Dopo ‘Giù la testa’ grazie a Claudio Mancini, uno dei piu importanti uomini di cinema, spesso insostituibile, che opera dietro le quinte muovendo progetti, soluzioni e masse. Grazie a lui arrivai a Elio Petri nella sua ‘La Classe operaia va in Paradiso’ con il versatilissimo Gian maria Volontè. Petri era un raffinato politico con una fascinosa ironia, sapiente e maliziosa. Avvolgente verso gli attori che abbracciava, portandoseli in disparte, elargendo consigli e suggerimenti. Questo suo modo di considerarti ti faceva sentire importante e responsabile. Esemplare il suo legame ideologico e artistico con Volontè: simbiosi pura e perfetta. Bellocchio invece ne ‘Sbatti il mostro in prima pagina’ a film iniziato dovette sostituire Donati ed intervenne come un incisore di volti e caratteri a creare giorno per giorno una sceneggiatura che non gli corrispondeva, poichè al contrario dei suoi film precedenti molto psichici, ora aveva a che fare con un film prettamente politico. Il suo aggirarsi per il set in continuo stato di trance immaginativa gli creava intorno un alone di rispettosissimo silenzio, per agitarsi all’improvviso a sorprendere la sua idea, la sua ispirazione…e tutti dietro condotti alla conquista di un’altra scena. Sempre la migliore…Ricorderei inoltre la decisa istintività di Placido con cui ho partecipato a due scene del suo bellissimo ‘Vallanzasca’. Placido, come recita così dirige: istintivo e fintamente calmo ma teso e intenso nell’anima. Carlo Verdone invece, attentissimo ad ogni sfumatura di tono, battuta, intenzione. Pignoleria d’arte la sua che spazia, invade, come ruota creante. Pupi Avati poi, con cui ho partecipato in piccole parti a tre sue cose, è un poeta donato al cinema, delicatissimo essere pur se ‘gridante’. Attentissimo alle inquadrature e alla verità dei suoi attori. Un Maestro inquieto a cui non si è ancora fatta giustizia artistica. Fuori dai giochi di mercato o politici o di potere, ogni suo film è un parto abbastanza doloroso che grida soddisfatta vittoria fin dal suo primo ciak. Mi trovo ad amare la sua umanità.”
Da poco è venuto a mancare Tomas Milian. Che cosa ha significato per lei lavorare al suo fianco?
“Dopo anni aumentava in me la coscienza di essere stato ‘gomito a gomito’, meglio battuta a battuta insomma, con un personaggio che cresceva film dopo film nella simpatia dei romani. Nel 1976 feci con lui ‘La banda del trucido’ per la regia di Stelvio Massi, nome in cartellone. Poiseguì ‘Il trucido e lo sbirro’ sempre con Tomas Milian, regia di Lenzi, con cui esordii nel ‘Cittadino della strada fa giusitizia’: due scene con la Paluzzi. Partecipai quindi a ‘Roma a mano armata’ con Tomas e regia di Lenzi. Mi trovai , ora, ad essere riconosciuto e un po’ famoso per averlo a volte affiancato come ‘Albino’ e altri ruoli. Milian era attore molto serio, professionale, puntuale e all’inizio della giornata di lavoro, spariva nella sua roulotte con le scene del giorno e ne usciva praticamente con un altro film, diverso, modificato, arricchito e soprattutto ‘romanizzato’. Uno spasso assistere al suo processo di revisione scene, fraseggi, battute, gags in cui coinvolgeva tutto il set. Era suo scopo primario divertire se stesso come garanzia e certezza del gradimento del pubblico di cui conosceva la romanità in tutti i suoi piegàmi, sfacciati e di pubblica irriverenza: da sotto a sopra, da dentro a fuori. Rispettoso, ironico , ‘giocone’, sempre pronto a provocare, capire e copiare i gerghi, i moti, gli ‘apostrofi’romaneschi. Spesso nelle pause, quando non spariva, mi fissava per capire ‘che pesce ero’ visto che per lui essere di Rimini significava: “ma di che borgata sei?”. Amabile, umile e instancabile, deciso a studiare o ripetere pur piccoli particolari di battute che a lui avrebbero assicurato non solo la ‘rotondità’ e certa sonorità del gergo, quindi il suo successo personale, ma di tutta la scena, attori compresi. Impossibile non amarne la mansueta e operosa duttilità con cui si offriva al costante perfezionamentodel suo amatissimo personaggio. Roma e non solo continuerà ad aspettarlo per il gran ‘Ritorno del Monnezza’”.
Come sta cambiando il cinema italiano? Secondo lei è in grado di competere con le produzioni internazionali?
“Io umile lavoratore dello spettacolo, poco frequentatore di sale, non potrei stilare nomi e storie che stanno facendo il cinema italiano. Potrei dire che i soggetti italiani sono prevalentemente di costume e forse poco interessano l’estero. Noi siamo un po’ magici, siamo stati fortemente ‘realisti’. Ed abbiamo insegnato molto al mondo. Dicevamo magici, perché noi saremmo geniali se ascoltassimo il nostro animo, che è specchio di tutti gli animi del mondo. Ma non abbiamo il coraggio, non siamo aiutati o facilitati ad esprimerci, se non attraverso concessioni politiche di sinistra o destra”.
E’ nel cast del film “Questione di Karma” diretto da Edoardo Falcone. Come si è trovato nel ruolo di antiquario?
“L’esperienza con Edoardo Falcone pur se breve è stata intensa per un feeling che da solo scorreva fra i nostri diversi saperi. Spesso si incrociavano per similitudini su medesimi concetti: karma, reincarnazione e pure altri. Ho ‘attraccato’ a una piccola parte del suo progetto per convocazione, si dice in gergo cinematografico. Ero molto curioso di sapere su quale strada avrebbe percorso questo karma e a cosa mirasse come tematica. Quindi mi presentai in fase preparatoria per leggerci vicendevolmente le mie due scene e capire bene quale fosse il suo intendimento e come intendeva affrontarlo. Capii subito che si trattava di una commedia leggera, sobriamente comica, dai contenuti nuovi e un po’ azzardati per le aspettative del pubblico: una di quelle storie oltre il credibile in cui è però molto piacevole tuffarsi per vedere l’effetto che fa. Il mio ruolo di arcigno prestasoldi non aveva nulla di sobrio, anzi ero un cattivissimo cinico, direi ienico. Mi ci trovai bene, molto bene nel ruolo, perché molto aiutato dalla mia ‘maschera’ e questo mi fa gioco per una serie di ruoli molto caratterizzati. Falcone veniva da un trionfo del suo precedente film, quindi ora era atteso alla conferma del suo taglio filmico, per le sue genialità e perfezionismi intellettuali e tecnici. “Questione di karma” ha mantenuto il buon livello della sua ‘opera prima’ : a me Edoardo ha insegnato una certa eleganza di essere regista, schivo e riflessivo, soggetto a silenziosi raptus e dolcissimo nel predisporre gli attori alla ‘prova’ del ciak. Mi ha indubbiamente lasciato parecchio di sè , diciamo che in un tempo relativamente breve è riuscito ad incidere in me come il vignaiolo fa dei suoi preziosi innesti. Ecco, ora dopo Falcone ho la sfrontatezza di sentirmi un buon vino”.
Ingmar Bergman disse: “Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. Una sua riflessione.
“Il cinema indubbiamente è un’ arte che più di ogni altra ti immobilizza ad essere guardata. Ti immette nelle vite degli altri e ti fa vivere ciò che non puoi, che non sai, che vorresti…e nessuno sa cosa tu sei nell’oscurità, vivi di nascosto dagli altri. Sembra quasi non rispettare la tua libertà, poiché ti vincola e a tutti i costi ti vuole comunicare qualcosa: non puoi opporti, ed è un piacere non farlo, perché lo scorrere di immagini non ti dà tregua, esige da te una magnifica passività; la più bella forse. Il cinema è una delle miglior bevande per l’anima: certo la più inebriante.”