Culmine di un fecondo periodo creativo, La donna serpente è un lavoro emblematico del linguaggio musicale ironico e antiromantico di Alfredo Casella. Un’«opera-fiaba» (su libretto di Cesare Vico Ludovici) tratta da Carlo Gozzi, dallo stesso racconto cui si era ispirato il giovane Wagner per Die Feen, e che per Casella rappresentava il plot ideale,con il suo stile «grandioso, fantastico, fatto di eroismo barocco, di passioni drammatiche, di tragicità, di comico buffonesco e popolaresco, di vicende varie infine e tutte dinamiche».
La vicenda, popolata di figure fantastiche (maghi, mostri, fate) e di maschere (Pantalone, Truffaldino, Brighella e Tartaglia, con i nomi tramutati nei più esotici Pantùl, Alditrùf, Albrigòr e Tartagìl), punteggiata da sortilegi, metamorfosi, guerre e carestie, racconta della fata Miranda che sposa il mortale Altidòr, re di Téfis. Il padre di lei, il re Demogorgòn, contrario a questo matrimonio, sottopone i due a prove dure e inganni crudeli, come un percorso iniziatico, facendo anche tramutare la figlia in un orrido serpente, anche se alla fine la fedeltà e il coraggio di Altidòr saranno premiati con il ricongiungimento della coppia. L’opera andò in scena a Roma, al Teatro Costanzi, il 17 marzo 1932, senza grande successo. Seguirono poche riprese nel corso del secolo, a Mannheim nel 1934, a Roma nel 1941 e nel 1969, alla Scala nel 1942, a Palermo nel 1982. Nel 2014 La donna serpente è stata messa in scena a Martina Franca, in uno spettacolo firmato da Arturo Cirillo, che è stato riproposto al Regio di Torino, con la direzione musicale di Gianandrea Noseda, all’interno di un ricco festival dedicato al torinese Casella, con diversi appuntamenti, tra opere, concerti, balletti, convegni e mostre.
Noseda, convinto paladino della musica di Casella e della necessità della sua riscoperta, ha diretto l’opera con intensità, energia, precisione, cogliendo la forza ritmica della partitura, la varietà di colori, la complessa, eclettica trama sonora nella quale si intrecciano forme chiuse tipicamente operistiche e forme strumentali. Ha sottolineato bene i momenti cameristici, sospesi e cullanti, le venature rossiniane, barocche, raveliane, lo stretto legame tra ritmo del testo e temi musicali. Anche la scelta del cast è parsa azzeccata, in un’opera con moltissimi personaggi, e dove la voce è usata quasi come uno strumento dell’orchestra. Il tenore Piero Pretti sfoggiava una voce non copiosa ma solida, un fraseggio morbido, e i giusti accenti drammatici e patetici per il suo re Altidòr. Carmela Remigio era una Miranda espressiva e musicalissima, commovente nei suoi grandi ariosi, e nel monologo «Vaghe stelle dell’Orsa». Spiccavano anche Erika Grimaldi, nei panni di Armilla, sorella guerriera di Altidòr dalla voce cristallina, Anna Maria Chiuri (Canzade), Francesca Sassu (Farzana), il possente basso Fabrizio Beggi (Tògrul), le spigliate maschere di Roberto De Candia (Pantùl), Fabrizio Paesano (Tartagìl), Marco Filippo Romano (Albrigòr) e Francesco Marsiglia (Alditrùf), con una verve vocale da vera opera buffa. Peccato che tutti questi personaggi non fossero altrettanto ben caratterizzati sul piano teatrale. Lo spettacolo di Arturo Cirillo era fiabesco, coloratissimo (con le scene modulari come il lego di Dario Gessati, i costumi variopinti di Gianluca Falaschi, l’efficace gioco di luci di Giuseppe Calabrò), pieno di richiami orientaleggianti, ben sincronizzato con il ritmo musicale, con molti episodi movimentati dalle belle, plastiche coreografie di Riccardo Olivier, ma appariva un po’ caotico, irrisolto, sempre in bilico tra la dimensione comica, da commedia (anche con qualche eccesso didascalico), e quella del sogno.