Pier Paolo Pasolini nella sua casa di via Fontejana a Roma

Come si può non scrivere di Pier Paolo a quarant’anni dalla sua esecuzione per mantenere almeno desto il ricordo di colui che per primo ebbe il coraggio di denunciare il mondo con tutte le sue trame losche, pagandone le conseguenze? Vuole solo essere un ricordo il mio, niente di più! In questi giorni è necessario non dimenticare per far conoscere alle nuove generazioni Pier Paolo Pasolini, ma nessuno ancora ha saputo aggiungere altre indicazioni utili alla definitiva riapertura del dossier che ormai da quarant’anni si apre, si chiude, si apre e si richiude.

Non c’è la volontà né il coraggio vero, di sollecitare la magistratura con nomi certi dei partecipanti all’assassinio, l’attuazione delle analisi del dna di chi indossava quegli oggetti trovati quella notte.

Ma cosa offriamo a Pier Paolo che era sì considerato, un poeta, scrittore, regista, giornalista e quant’altro, ma all’epoca dei fatti gli stessi uomini di cultura e certi politici avevano riserbo a considerarlo proprio amico e compagno, nascondevano a malapena un certo disagio? Possiamo almeno offrirgli da quel 2 novembre del 1975 un unico dono, l’impegno di essere sinceri; la dichiarazione diretta che a quarant’anni dalla negazione della sua presenza non sappiamo trovare dentro di noi parole giustamente accorate, originalmente pulite da dedicargli.

Chi lo piange ancora oggi lo celebrò allora nel disfacimento di un dolore colto al volo, che in modo assurdo manteneva le possibilità di equilibrio con quanti – i gretti maligni, i ghignanti di facili losche ambiguità – fuggono verso il balbettare dell’irrazionale, per incontrollabile inconsulto timore dell’Amore. Tuttavia le preoccupazioni di chi lo apprezza incondizionatamente, tutto questo stesso silenzio di chiusura, apertura e richiusura del caso Pasolini, non possono renderci tranquilli e portarci alla rassegnazione definitiva. E restiamo nelle trame ispide della passione di Pasolini, nel modo di chi si attarda nel freddo per paura dei deliri che una ricostruzione chiusa può evocare. Torniamo così alle cause e non solo all’unico Poeta Civile che l’Italia ebbe – ricordiamo l’orazione funebre di Alberto Moravia – a quel suo essere in perenne critica riflessione verso la Società che stava cambiando.

Pier Paolo, in Alì dagli occhi azzurri, ha anticipato l’evento degli sbarchi dei profughi sulle coste italiane. Il compianto di quanti, in questa ricorrenza, si “spellano” ipocritamente, a dedicargli pagine su pagine includendo qualche suo primo romanzo o dvd con qualche sua ultima intervista e poi la mercificazione nel suo nome, un tempo evitato o relegato in fatti eclatanti dove l’unico opinionista non poteva essere che lui: Pier Paolo Pasolini. Libri su il pensiero di Pasolini. Pasolini e sua madre. La psicologia di Pasolini. Pasolini in nome del padre. L’operaio dei sogni. Le ultime verità nascoste. Pasolini massacro di un poeta. Le domande di Pasolini.

Perché queste formulazioni? È invece in nome degli esclusi e dei diversi. È che nessuno può ricordare l’utilità di misurarsi con le risposte. È che niente è più svanito dell’umanità corrosa nella coscienza da questa organizzazione della società. Pier Paolo Pasolini con i suoi occhi espressivi che si conficcavano nel cervello degli altri, di tutti. Più epidermicamente è che siamo arrabbiati ed è per ciò che più ci sentiamo difesi e forti poiché siamo più ingenerosi verso gli altri! Ma è una considerazione che non può costituire un alibi, il marchingegno di scorta, il coniglio nella manica o nel cappello, è una considerazione per coscienze facili sensibili al prosciutto o alle ostriche francesi o all’ultima Play Station, cui ogni refrigerio è a portata di mano.  

Il suo sguardo ancora ci punta, con il mento appoggiato alle dita nel pugno, immortalato dalla foto di Dino Pedriali per la sua ultima volta. Per gli uccellini eFOTO di Dino Pedriali uccellacci sui quali una sinistra politica sovraccarica di preoccupazioni contingenti limitò il proprio accertamento alla recensione di genere. E non era una favola. E non era un apologo automatico. E non era una storia eccentrica. Era una lente con travestimenti arcani sopra la sfera di cristallo, per cogliere la possibilità di vedere la fine di un’epoca e di un modo di intendere la vita. La fine di una intensa stagione. La fine del desiderio per le idee, per il confronto di tutti i giorni tra la gente di sentimenti elementari e semplici. Una fessura inquietante all’interno dei malesseri che abbiamo riparato nel nostro intimo interesse: l’ingrandimento di uomini che senza incentivi profondi si fissano di considerare la vita una materia plasmabile priva di punti vivi e duri, una macchina soffice dentro la quale rinchiudersi a se stessi e agli altri.

In “Uccellacci e uccellini”, negli occhi del corvo c’era il tramonto della Resistenza ai confini di un paesaggio rado e pronto per la inevitabile cementificazione. C’erano i funerali di un uomo in cui la semplicità coraggiosa di un popolo si rispecchiava e piangeva e salutava con un segno commosso e compatto. E dopo ci sarebbero stati in numero maggiore i dubbi e le incertezze di sempre, con le strade affollate di inconcludenti antropofagi, ridicoli manichini insensibili alle necessità urgenti di una grande città come Roma. Noi siamo e rimaniamo quel punto critico di osservazione che non sa reagire a dovere. Sotto di loro c’è la giustizia che mai potrà emergere se prima non si riesce a comporre un saldo disegno dentro il quale non sia possibile sfacciatamente barare, trapassare indenni o saltare evitando le buche. Pasolini per questo era considerato un nemico dell’ordine precostituito, e come tale è sempre stato considerato e al contempo, avvicinato. Se resta un nemico sarà in grado di ferire a fondo soprattutto quelli che hanno la rubrica soprascritta e trasbordante di ricordi, la bocca impastata dai discorsi scritti da altri e che spendono gli affetti come rapinano i sentimenti della gente. E non voglio fare i nomi. La morte di Pier Paolo Pasolini è diventata la loro esistenza, la materia da strumentalizzare altrimenti nessuno ti ascolta, nessuno ti segue ed inizi a morire dentro in attesa del passo definitivo. È la dittatura del cuore e del cervello, degli occhi e del volto. È la dittatura che sogghigna dentro gli uomini stessi, quanto di contingente e di piatto non riusciamo a cancellare. A vincere. Quanto di agonismo incontrollato e violento conduce al non controllo di se stessi e alla violenza per la violenza e quanto aveva ragione Pasolini il Poeta. Quanto di noi lasciamo scomparire nel buio di un inconscio sfondato dall’uso delle consuetudini, dalla pigrizia dell’intelligenza sempre più necessariamente soggiogata ad internet, sempre più meccanica, sempre più tecnologica, sempre più rotonda, sempre più perversa.

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