Un susamiello è meglio di una grande meringa. Questa è una delle certezze che offre il racconto… evangelico che Daniela Carelli ha pubblicato per Sensoinverso Edizioni.
“Vado a Napoli e poi… muoio!” è un libro anomalo. (www.vadoanapoli.com) E dunque anche la recensione non può che essere anomala: è un’occasione per tentare di capire non tanto cosa è Napoli, ma cosa vuol dire Napoli. L’obiettivo di Daniela infatti non è raccontare Napoli, ma il modo di affrontare la vita di un napoletano, l’unico che consente di vivere a Napoli, luogo tra i più meravigliosi, complessi e disastrosi del mondo, dove più di duemila anni di storia si sono stratificati in un groviglio di difficoltà. Ed è attraverso la lente della napoletanità quotidiana che Daniela Carelli racconta Napoli. Riuscendo così in un’operazione aristotelica: definire Napoli attraverso la sua essenza, la napoletanità.
Ecco perché “Vado a Napoli e poi… muoio!” è un libro evangelico: perché punta alla conversione dei non napoletani. E ci riesce, almeno con Fabrizio: io narrante e apparente protagonista del libro. E qui è un’altra anomalia: non è frequente che un libro che racconti della napoletanità abbia come io narrante un milanese. Perché Fabrizio è di Milano (varesotto di nascita, per la precisione) e, per giunta, di famiglia leghista.
Appare protagonista, Fabrizio-io narrante, e invece a guardar bene è un deuteragonista. E forse, a tratti, perfino un antagonista. La protagonista è Linda, napoletana a Milano, che tuttavia a sua volta è la personificazione della spirito napoletano. Che è il vero dominus del racconto, al quale non ci si può sottrarre.
Le anomalie proseguono con il profilo dell’autrice: Daniela Carelli è una napoletana multitasking, come ama definirsi, che a Napoli vorrebbe dire – in omaggio a tradizioni populiste più che popolari – “saccio fa’ nu poco ‘e tutto” (trad: affronto con intraprendenza sebbene un po’ superficialmente qualunque incarico mi vogliate affidare) e che invece a Milano, dove Daniela vive da quattordici anni, vuol dire versatile e intelligente.
La chiave narrativa di “Vado a Napoli e poi… muoio!” (che non a caso evoca l’osservazione di Goethe dopo il suo viaggio napoletano “vedi Napoli e poi muori”) è semplice, come si addice a un buon racconto: Linda, napoletana a Milano, viene assunta dalla società dove lavora Fabrizio. Allo sconcerto e al sospetto inziale, in Fabrizio poco alla volta si fa strada la curiosità. Tanto da convincersi a seguire Linda in un viaggio a Napoli. Un viaggio che si rivelerà per quello che dovrebbe sempre essere un viaggio in una delle più antiche città del mondo ancora vitali e non, invece, trasformate in scavi archeologici: un viaggio intorno all’Uomo, homo neapolitanus.
E proprio come il più classico dei “Grand Tour”, quell’istituzione che erano diventati i viaggi “umanistici” che dal sedicesimo al diciottesimo secolo inserirono l’Italia tra le loro mete preferite, anche il libro di Daniela Carelli è completo di itinerari, percorsi e luoghi da non perdere, con tanto di mappe, cartine e indicazioni.
Fabrizio, guidato da Linda come fosse un Goethe del secondo millennio, scopre che Napoli non sempre corrisponde all’icona dell’immaginario collettivo, soprattutto milanese (anche “milanese”, prima di essere un aggettivo… geografico è un luogo dello spirito, e indica genericamente – e superficialmente – tutto il nord così come “napoletano”, spesso, indica tutto il sud, Sicilia esclusa). E’, invece, molto di più. Di più terribile, di più meraviglioso, di più speciale, di più antico, di più unico. Di più napoletano.
Linda non lo sa, perché “Vado a Napoli e poi… muoio!” non è un libro celebrativo della napoletanitudine (che è cosa assai diversa dalla napoletanità, aristotelica essenza dell’ “essere napoli”) – ma lo sa Daniela Carelli che prima di essere scrittrice per caso (o per necessità: la necessità di raccontare anzitutto a se stessa), è art director, cantautrice e vocal coach, e perciò è multitasking – Linda non lo sa, dicevamo, ma mai come in questo caso ci stanno bene alcune considerazioni sulla napoletanità: “Napoli è un sole amaro, Napoli è odore di mare, Napoli è una carta sporca e nessuno se ne importa e ognuno aspetta il destino… Napoli è una camminata nei vicoli tra la folla, Napoli è tutto un sogno e la conosce tutto il mondo. Ma non sanno la verità”.
In molti, spero, avranno riconosciuto, nonostante la traduzione, i versi della canzone che apriva, nel 1977, l’album di esordio di Pino Daniele: “Terra mia”.
Napule è nu sole amaro
Napule è addore ‘e mare
Napule è ‘na carta sporca
E nisciuno se ne importa
E ognuno aspetta ‘a sciorta
Napule è ‘na camminata
Int’ e viche miezo all’ate
Napule è tutto nu suonno
E ‘a sape tutto o munno
Ma nun sanno ‘a verità.
“Vado a Napoli e poi… muoio!” è dunque un moderno diario di viaggio. Lo stile è piano e tuttavia brillante, spontaneo ma non banale, sorridente ma non scontato. E le mappe con gli itinerari che chiudono il libro possono davvero servire come punto di riferimento per conoscere quella Napoli che, nel corso di due millenni, si è progressivamente nascosta sotto una corteccia di problemi tanto complessi da risultare di difficile analisi per i presunti intellettuali, i sociologi da quattro soldi e gli opinionisti sui quali calza a pennello la fulminante considerazione di Ennio Flajano “oggi il cretino è pieno di idee”, contenuta in un articolo del 31 marzo 1969 sul Corriere della Sera, con il quale commentava – sornionamente criticandola – la riduzione teatrale di “Bouvard et Pécuchet”, il romanzo di Flaubert che voleva essere un’epopea della stupidità culturale.
Prima di passare alla seconda parte di questa recensione (che non a caso ho voluto tenere ben distinta dalla prima così che chi non volesse leggerla non troverebbe difficoltà a chiuderla qui), va rilevato un solo errore, forse figlio dei 14 anni trascorsi da Daniela a Milano: la piazza “San Nazzaro” citata a pagina 174, e inserita nel percorso serale, non celebra un santo di nome Nazzaro. E’ in realtà piazza Sannazaro, con una sola “zeta”, intitolata a Jacopo Sannazaro, poeta umanista, autore dell’Arcadia, vissuto a Napoli a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento.
Uno dei meriti di “Vado a Napoli e poi… muoio!” sta in un’inquietante sensazione che trapela dalle sue pagine: perché, se questa è la napoletanità, Napoli è ridotta come è oggi? Perché Napoli non reagisce? Perché Eduardo andò a vivere a Roma, come Totò? Perché Pino Daniele viveva in Toscana e Luciano De Crescenzo vive a Roma? Perché Daniela Carelli vive a Milano e io stesso vivo a Roma? Perché, si potrebbe anche dire andando un po’ più a fondo, Benedetto Croce è diventato famoso più per la sua “torre d’avorio” (un po’ come Ernesto Calindri con il Cynar) invece che per il suo contributo alla cultura napoletana nel mondo?
Ecco la seconda parte della recensione, che perciò dicevamo all’inizio è una recensione anomala.
Napoli non reagisce: Napoli, e buona parte del Mezzogiorno, ha smesso di reagire nel primo secolo dopo Cristo. Se si ignorano le premesse, le pur flebili e sporadiche indignazioni di oggi sono inutili occasioni da palcoscenico.
Le organizzazioni criminali, o la tendenza della criminalità ad organizzarsi, affondano le radici per così dire culturali in situazioni contingenti assai remote. Situazioni che, storicamente, si sono verificate essenzialmente nel Mezzogiorno d’Italia. Un territorio che per circa mille e 700 anni ha rappresentato il cuore dell’economia e il crocevia degli scambi commerciali e, si direbbe oggi, etnici.
Così, parallelamente all’evoluzione culturale e filosofica (che non ha avuto pari in alcun’altra zone d’Italia), si è evoluto un sistema economico spesso, in certa misura, autogovernatosi a causa della lontananza meramente fisica dei centri amministrativi e politici.
In una prima fase infatti, tramontato il periodo della Magna Grecia caratterizzato da insediamenti relativamente piccoli e improntati all’autogestione soprattutto fiscale e amministrativa (Atene non imponeva alle colonie alcuna tassazione in favore del governo centrale dal momento che tali colonie non erano frutto di campagne di conquista governative ma di emigrazione spontanea sebbene “incentivata” da aruspici politicamente pilotati) e fino al dissolvimento dell’Impero romano (possiamo orientativamente collocare questo periodo tra il I e il IX secolo dopo Cristo), il governo dei territori del Mezzogiorno, pur rappresentando essi il granaio di Roma e dunque una componente essenziale per un’economia basata prevalentemente sull’agricoltura, era affidato a delegati locali, nella maggior parte dei casi dotati di ampia autonomia, attese le difficoltà nei collegamenti tra quei territori e Roma.
In una seconda fase, collocabile tra l’anno Mille fino all’unità d’Italia, i regni Longobardi, quindi Aragonesi, Angioini e infine Borbonici, anch’essi scelsero di concentrare i “centri decisionali” nella capitale, Napoli, nonostante le risorse economiche e umane grazie alle quali l’intero regno si assicurava la forza e la sopravvivenza provenissero da territori decentrati (i contadi, le terre di lavoro, le capitanate). Sia la prima che la seconda fase hanno come ulteriore caratteristica comune, a differenza del periodo greco, la necessità per il governo centrale di imporre anche imposte e tasse. Questa politica, associata alla concentrazione – avutasi essenzialmente dal primo Medioevo in poi – delle terre del Mezzogiorno nelle mani di poche famiglie (spesso discendenti di centurioni, governatore e consoli della Roma imperiale) favorì la progressiva emigrazione degli esponenti di tali famiglie dai territori di loro proprietà (latifondi, dal latino latus= ampio e fundus= podere) alla capitale del regno. La loro presenza “a corte” era infatti strategica affinché potessero trattare costantemente sui privilegi fiscali da ottenere, o da difendere, per tenere in equilibrio l’economia del latifondo e “ammortizzare” gli imprevisti (incidenza delle variazioni climatiche sui raccolti, necessità di riconoscere ai mezzadri e ai coloni una certa tolleranza nei pagamenti di colonìe e mezzadrìe). Tuttavia ciò comportò un sempre maggior ricorso alla delega nel governo locale. Le case regnanti delegavano i latifondisti, questi ultimi man mano emigrati nella capitale del regno per controllare i loro interessi politici, delegavano campieri, esattori e personaggi “carismatici” locali. Si creò così, poco alla volta, un meccanismo sostanzialmente autarchico, nel quale ciascuna componente “giocava le proprie carte” – utilizzava cioè il potere contrattuale di cui disponeva o il potere tout court – per trarre i propri vantaggi. La prima conseguenza di ciò fu la nascita di gruppi organizzati, ciascuno a sostegno dei propri obiettivi. Non sempre leciti. Dove l’impunità dell’illiceità era sufficientemente assicurata dalla lontananza geografica degli eventuali poteri di controllo.
Così da alcune testimonianze storico-archeologiche si ricava che a Pompei, uno dei centri più importanti del commercio fino a pochi anni prima della distruzione per l’eruzione del Vesuvio, tra il 60 e il 75 d.C. era pratica inquietantemente diffusa il pagamento di tangenti in cambio di licenze di commercio nelle strade propizie della città, come via dell’Abbondanza.
Già nei due secoli precedenti il fenomeno delle tangenti versate ai delegati dell’amministrazione locale sia per ottenere ciò cui non si aveva diritto, sia per facilitare il riconoscimento di diritti, crebbe a dismisura. Tanto da costituire un vero e proprio allarme sociale. Le proteste, il malcontento dei territori delle province per le vessazioni dei governatores (spesso ex centurioni) e dei proconsoli che, non va dimenticato, amministravano anche la Sicilia, indussero il Senato nel 149 avanti Cristo all’approvazione della Lex Calpurnia che condannava il reato di concussione. Di questo periodo numerosi sono i resoconti dei processi. Emblematico quello al governatore della Sicilia, senatore Gaio Verre, per il quale nel 70 avanti Cristo viene addirittura istituito un tribunale speciale (che da quel momento si occuperà di tutti i casi di concussione). I “funzionari” rei confessi si difendono affermando che la colpa è dei ricchi. Che sono loro i corruttori e non gli amministratori che obbligano a pagare tangenti (sembra di leggere i verbali della tangentopoli degli anni Novanta). In quegli anni, tra il 130 avanti Cristo e il 60 dopo Cristo, la “società civile” (come la chiameremmo oggi) si ribellò alle continue concussioni inviando sempre più denunce sebbene spesso anonime. Ciò spinse molti governatori a “pentirsi”: cominciarono a confessare. Alcuni accusavano anche altri, ma c’era chi si difendeva affermando di essere vittima di un complotto politico dell’opposizione, a loro volta accusata di “controllare” alcuni praetor, i magistrati provinciali, che – a dire di costoro – facevano politica attraverso l’uso distorto della giustizia (anche qui: chi vi ricorda?).
L’effetto di questa tangentopoli avanti Cristo, dal 90 a.C. in poi, fu il blocco di lavori pubblici e la chiusura di molti cantieri. Gli operai venivano licenziati, le amministrazioni locali erano in crisi e fu necessario trovare una soluzione politica. Il problema si trascinò a lungo, finché Traiano, nel 100 d.C., dispose che le denunce anonime non venissero prese in nessun contro e introdusse una norma che favoriva la collaborazione con la giustizia da parte di funzionari e imprenditori corrotti. A chi parlava, consentendo di spezzare la rete della corruzione, veniva riconosciuto uno sconto di pena fino al 50 per cento e, soprattutto, veniva concesso di tenere la metà delle somme guadagnate illecitamente (ricevute dalle concussioni o dalle corruzioni nel caso dei funzionari, o ottenute grazie agli appalti conquistati in modo irregolare nel caso degli imprenditori). In teoria veniva disposta, come pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per i funzionari e l’esclusione dalle gare d’appalto per gli imprenditori e i commercianti. Tuttavia vi sono alcuni esempi contrari: il costruttore che realizzò il porto romano di Fiumicino, ad esempio, dopo aver collaborato con la giustizia ed aver beneficiato degli sconti previsti da Traiano, dopo appena due anni era tornato nel giro degli appalti avendo ricevuto in concessione importanti lavori pubblici a Roma (e tutto questo non somiglia a ciò che è avvenuto mille e 900 anni dopo?).
Contro questa tendenza vessatoria delle amministrazioni periferiche, l’economia locale tentò di difendersi affidandosi a rappresentanti di categoria. Poco alla volta però da tali rappresentanti finì col dipendere la stessa sopravvivenza di un’attività economica. E ci fu chi, per essere favorito, cominciò a sua volta a pagare i “protettori”. L’organizzazione dei protettori divenne così progressivamente autonoma e finalizzata a se stessa.
Con queste premesse perché Napoli dovrebbe reagire? La reazione è sempre frutto di un confronto, un paragone: questo non ci sta bene perché ci sta meglio quest’altro. In un paragone si paragonano, appunto, due termini. A Napoli dov’è il secondo termine di paragone? Si perde nella notte dei tempi e non se ne ha memoria. Credere possibile una reazione sarebbe come ritenere che gli abitanti della Tortuga avessero la possibilità culturale di reagire contro i pirati. La Tortuga viveva grazie ai pirati, non malgrado i pirati. E Napoli vive grazie all’illegalità, non malgrado l’illegalità. Se improvvisamente tutti i commercianti non facessero lavorare minorenni che evadono l’obbligo scolastico o manodopera più o meno specializzata ma in nero, se tutti gli ambulanti dovessero pagare la concessione del suolo pubblico, se tutti gli imputati venissero condannati nei tempi adeguati e andassero in galera (soltanto per fare alcuni esempi a caso), l’economia locale non potrebbe permettersi di pagare un pranzo al ristorante, di acquistare prodotti più o meno essenziali a prezzi dimezzati rispetto ad altre zone d’Italia, e lo Stato non saprebbe dove mettere i detenuti.
E’ evidente – mi auguro – che si tratta di una provocazione: non incito all’illegalità. Piuttosto tento di far capire che la legalità non è un arredo urbano: non si può decidere di punto in bianco di installarla.
Qualcuno si è mai chiesto perché un’officina meccanica a Napoli ripara un’auto con la metà della somma necessaria altrove? Anche tralasciando i ricambi provenienti dalle rapine ai Tir (che pure costituiscono una componente essenziale, tanto che le compagnie di assicurazione non coprono più i carichi diretti più a sud di Frosinone), basti pensare che l’officina media, a Napoli, non paga per lo smaltimento degli oli usati, non paga per lo smaltimento delle batterie, talvolta l’impianto elettrico è alimentato abusivamente con un collegamento a quello stradale pubblico, non paga i contributi a chi lavora, non paga, talvolta, nemmeno l’affitto al proprietario del locale. Eppure, per converso: le officine specializzate, quelle certificate dalle case costruttrici, a Napoli hanno il minor numero di clienti in rapporto al parco auto circolante rispetto a qualunque altra città d’Italia. Insomma: perché pagare 100 euro l’ora una manodopera specializzata (anche se in regola con le norme) quando lo stesso lavoro, anche di buona qualità, può costare un terzo? Ma questa è la stessa logica in omaggio alla quale la Nike costruisce scarpe in Asia utilizzando ragazzini. E allora: cosa c’è di più scioccante in un omicidio a Scampia, o ai Quartieri Spagnoli, o nel centro cittadino rispetto ai tanti documentari sullo sfruttamento della manodopera minorile nei Paesi asiatici?
Eppure chi per questi s’indigna, si sente spesso rispondere che in realtà a quelle latitudini il lavoro minorile è una regola e se le grandi multinazionali smettessero di servirsene sarebbe la morte per intere popolazioni. Non voglio giudicare se si tratta di obiezioni giuste o sbagliate. Dico soltanto che se c’è (e c’è) chi le trova giuste, queste stesse persone non possono pretendere che Napoli reagisca. Se reagisse dovrebbe chiudere.
Perché anche Roberto Saviano, scommetto, se a Napoli pagasse una pizza e una birra 25euro, quanto costa a Milano o a Roma, invece di 8 o al massimo 10, uscirebbe dal ristorante indignato. E, chissà, forse anche i genitori leghisti-milanesi di Fabrizio.
Perché, in fondo, come dice Luciano De Crescenzo: “io certe volte penso che anche se Napoli, quella che dico io, non esiste come città, esiste sicuramente come concetto, come aggettivo. E allora penso che Napoli è la città più Napoli che conosco e che dovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli”.
A chi fosse davvero arrivato fin qui, nella lettura di questa anomala recensione di “Vado a Napoli e poi… muoio!”, spetta un premio: scoprire perché un susamiello è meglio di una grande meringa. La grande meringa, secondo Linda, è il Duomo di Milano. Imponente e lezioso allo stesso tempo. La definizione fa inorridire il milanese Fabrizio. Che però poi si raddolcisce quando Linda ammette che, invece, la sensazione meringosa che si ha dall’esterno, lascia il posto alla meraviglia e all’equilibrio che comunicano i suoi interni. Anche il susamiello, caratteristico dolce napoletano a pasta dura, si presenta, a suo modo, diverso da ciò che è. Fabrizio è “costretto” a mangiarne uno che fa parte della scorta di napoletanità, indispensabile alla sopravvivenza, che Linda si è portata da Napoli, e lo trova meraviglioso. La differenza tra il Duomo di Milano e il susamiello di Napoli sta in questo: il Duomo indulge alla ricchezza delle forme esterne per rivelare poi l’equilibrio dell’arte all’interno; il susamiello si mostra brutto e povero nella forma esterna (proprio come ‘na carta sporca) per rivelare poi la perfezione della storia dell’arte della pasticceria all’interno.
Chissà: forse Napoli e Milano non sono poi tanto diverse.
Daniela Carelli, Vado a Napoli e poi… muoio!, SensoInverso Edizioni, euro 16