Qualche anno fa ci occupammo di un caso che stava divenendo frequente nelle aule di giustizia, lamentando come la Cassazione avallasse i tentativi di alcuni facoltosi mariti di eliminare il mantenimento dovuto alla moglie, pur priva di ogni sostentamento e talvolta abbandonata in favore di una nuova giovane compagna, ricorrendo allo stratagemma di rivolgersi al Giudice canonico richiedendo artatamente l’annullamento del matrimonio.

Il sistema sostanzialmente operava grazie ad una certa facilità di alcuni Tribunali ecclesiastici nell’annullare i matrimoni religiosi basandosi su asserite riserve mentali del marito, il quale dichiarava che, al momento del matrimonio non aveva la consapevolezza di contrarre gli impegni che derivavano dal vincolo religioso (in genere il “grave difetto di discrezione di giudizio”) oppure eccepiva una preesistente riserva mentale (finalizzata ad escludere i bona matrimoni) ed in tal maniera ottenendo l’agognato annullamento.
Reso esecutivo il provvedimento della Signatura Apostolica, con il sistema della delibazione, vale a dire con la procedura con la quale lo Stato Italiano riconosce nel proprio territorio l’efficacia di una sentenza di uno Stato straniero e quindi anche del Vaticano, la sentenza diveniva valida ad ogni effetto.
Una volta dichiarato nullo il matrimonio per la legge italiana, vengono  meno automaticamente tutti i diritti-doveri derivanti dal matrimonio e conseguentemente anche l’obbligo al mantenimento in favore del coniuge, e cosa ancora più grave, poiché la sentenza viene trasmessa all’anagrafe, anche il diritto per la donna a percepire l’eventuale pensione di reversibilità.
Come si è detto in altre occasioni, nella migliore delle ipotesi, l’art. 129 del codice civile, in ipotesi di annullamento del  matrimonio prevede in favore del coniuge in buona fede, soltanto il diritto a percepire un mantenimento per un periodo non superiore a tre anni.
Con questo sistema, mariti molto facoltosi  che sarebbero tenuti a versare cifre rilevanti periodicamente alla moglie, si trovano liberati dal  vincolo, ignorando ovviamente ogni criterio di giustizia sostanziale.

UN RIPENSAMENTO DELLA CASSAZIONE

Da qualche tempo tuttavia la Corte Suprema sta mutando orientamento e annoveriamo in tal senso di recente anche la sentenza della Cassazione n. 11401 del Maggio 2014, con la quale si è confermato il rifiuto di delibare la sentenza canonica.

IL CASO PROPOSTO ALLA CORTE D’APPELLO DI NAPOLI

La questione era sorta in quanto il marito, come si  è detto, si era rivolto nel 2009 al Tribunale Interdiocesano di Benevento, richiedendo l’annullamento del proprio matrimonio, annullamento poi confermato dal Collegio di Appello Ecclesiastico Campano, reso esecutivo dal Tribunale della Signatura Apostolica con provvedimento del 17/11/2011.
Quindi come da copione, aveva depositato immediatamente ricorso alla Corte d’Appello Civile di Napoli richiedendo di delibare la sentenza, cioè di renderla esecutiva nel territorio italiano.
Tuttavia la Corte territoriale non accoglieva la domanda rilevando, che la sentenza ecclesiastica, era basata sull’esclusione unilaterale del bonum sacramenti da parte del marito.
Tale riserva mentale del marito, del tutto sconosciuta alla moglie, non poteva essere la base dell’annullamento del matrimonio, in quanto diversamente la moglie incolpevole ne sarebbe rimasta ingiustamente danneggiata.

LA SENTENZA ECCLESIASTICA

Leggendo infatti la sentenza emessa dal Tribunale canonico, si evinceva che il marito (il quale peraltro era un dipendente della famiglia della moglie con disagio e ostilità da parte di questa nei suoi confronti) dichiarava di aver contratto effettivamente matrimonio, ma che in verità  non credeva né nell’indissolubilità del  vincolo, né aveva alcun desiderio di procreare figli.
Per tali motivi, il Giudice ecclesiastico, sulla base, dobbiamo ritenere di  dichiarazioni testimoniali ad hoc, annullava il matrimonio.
La Corte d’Appello civile invece non si prestava alla manovra posta in essere e rifiutava di delibare la sentenza, in quanto riteneva che i principi  posti alla base dell’annullamento del matrimonio, non fossero conformi ai principi di diritto sostanziale, civile e processuale   italiani.

IL RICORSO ALLA CASSAZIONE

Avverso tale sentenza, il marito, il quale evidentemente aveva sostenuto tutti gli oneri del processo canonico e poi della delibazione, ma senza risultato, ricorreva in Cassazione, lamentando che la Corte d’Appello, del resto così come era avvenuto in molti casi precedenti, non poteva entrare nel merito della questione, laddove in forza del Concordato lateranense dell’11/02/1929 stipulato fra il Regno d’Italia e la Santa Sede, e poi successivamente dell’accordo con Protocollo addizionale firmato a Roma il 18/02/1984 (cosiddetto accordo Craxi/Vaticano), era precluso al giudice di appello entrare nel merito della questione.
A ciò andava aggiunto che, anche l’art. 4 punto B, punto 3 del Protocollo addizionale all’accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 1984 di revisione del concordato dispone che “..In ogni caso non si procederà al riesame del merito” del procedimento di nullità matrimoniale.
Conseguentemente la Corte d’Appello non avrebbe dovuto esaminare la questione di merito, ma semplicemente delibare la sentenza, senza ritenere invalide, inaffidabili, inattendibili o comunque irrilevanti per i principi dei diritti italiani, le dichiarazioni del marito.

LA PRESUNTA CONOSCENZA DELLA MOGLIE DELLE RISERVE MENTALI

Inoltre eccepiva il marito che la moglie era perfettamente a conoscenza delle proprie riserve mentali contrariamente a quanto da questa dichiarato, in quanto nell’ambito dei rapporti sessuali della coppia, egli aveva sempre posto in essere “modalità protette di consumazioni nei rapporti intimi tra i due coniugi” talché questa non poteva non essere a conoscenza di tali presunte riserve mentali.

IL RIGETTO DELLA CASSAZIONE

La Corte di Cassazione perseguendo il nuovo orientamento dettato anche della pressione degli addetti alla materia, che avevano fatto rilevare nel corso degli anni l’assurdità di simili pretese che finivano con il privare le moglie con un artato stratagemma, dei propri diritti,rigettava il ricorso e rilevava che l’esclusione da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei “bona matrimonii” postula che una divergenza unilaterale della volontà non necessariamente sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero sia stata conosciuta in qualche  modo dalla moglie.
Per il principio fondamentale di tutela della buonafede, sostanzialmente il Giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza e l’oggettiva conoscibilità di tale riserva mentale da parte dell’altro coniuge.
Se tale prova non viene data, non può essere dichiarata la nullità del matrimonio in sede civile, evitando così di precludere i diritti basilari di tutela e protezione del coniuge più debole.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *