Le Comte Ory è una delle ultime opere di Rossini, e una delle più divertenti e dissacranti, composta su libretto di Scribe e Delestre-Poirson, rappresentata per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1828. È andata in scena alla Scala (in una coproduzione con l’Opéra di Lione), ultimo titolo della stagione (l’ultima firmata da Lissner), e ancora un titolo raro, presentato tra l’altro nell’edizione critica curata da un grande specialista come Damien Colas.
Uno spettacolo insieme raffinato e spassoso, affidato alla regia di Laurent Pelly (che firmava anche scene e costumi), al suo debutto con un’opera rossiniana: «Con Rossini, sentivo un problema legato alla forma: ho sempre avuto paura di un’eccessiva schematicità nella musica. Poi, a poco a poco, ho imparato a servirmi della forma invece di subirla. E le mie regolari incursioni nel belcanto (L’elisir d’amore, La fille du régiment, I puritani) mi hanno condotto spontaneamente verso Rossini. Peraltro Le Comte Ory è un’opera in francese, che permette di accostarsi a Rossini da un’altra prospettiva». Pelly non ha ambientato la vicenda nel medioevo cavalleresco, e un po’ da operetta, immaginato da Scribe, ma in tempi moderni, sfruttando anche alcune suggestioni cinematografiche. Ha voluto rappresentare la borghesia francese di provincia di tanti film di Chabrol, annoiata e ipocrita. Ha trovato spunti in alcuni episodi del Fantasma della libertà di Luis Buñuel, riferendosi «alla scena in cui i monaci si riuniscono in un alberghetto, nel corso di una cena che degenera pericolosamente; o ancora alla scena in cui Jean-Claude Brialy e Monica Vitti guardano alcune foto di famosi monumenti parigini e le trovano una più oscena dell’altra». Ha usato delle scenografie scorrevoli, che gli permettevano di passare tra ambienti diversi come se stesse muovendo una macchina da presa. Il primo atto era ambientato nello spazio deliziosamente kitsch di una palestra, o di una sala parrocchiale, con attrezzature sportive, materassini, sedie di plastica. Il conte Ory, figura di donnaiolo burlone, che si diverte con geniali stratagemmi a sedurre dame virtuose e pellegrine, non si travestiva da eremita, ma da santone indiano. Entrava in scena come un fachiro, scalzo, con barba e lunghi capelli, si sedeva su un lettino nella posizione del loto, distribuiva immaginette, dispensava consigli ai creduli abitanti di quella cittadina, che poi si lasciavano andare a una contagiosa euforia collettiva. Nel secondo atto, il castello di Formoutier si trasformava in una casa borghese, e un po’ cadente (filtrava acqua dal tetto durante il temporale), dove la contessa, donna benestante e malinconica, col suo twin set rosa e un giro di perle (la stessa mise di tutte le sue dame, che le si aggiravano intorno come cloni), faceva le parole crociate, mentre la custode Ragonde lavorava a ferri, aspettando il marito lontano, chiamato «a combattere in Afghanistan o nel Mali». Esilaranti le scene dei compagni di Ory travestiti da suore (moderne, con sandali e zainetti), che banchettavano e brindavano nella cucina e poi scappavano gettandosi dalla finestra al ritorno dei “crociati” in tuta mimetica, e il terzetto finale, tra conte, contessa e paggio, trasformato in un ménage à trois sotto le lenzuola. Sul podio, Donato Renzetti ha dimostrato tutto il suo mestiere, cogliendo bene l’energia e la tensione continua di quest’opera (definita dal critico americano Paul Hume «un’erezione che dura due ore e un quarto»), anche se con mano talvolta un po’ pesante, senza preoccuparsi troppo delle nuances timbriche ed espressive. Le Comte Ory è una delle opere meno eseguite di Rossini, soprattutto a causa delle vertiginose difficoltà vocali. Ma tutto il cast ha superato affrontato la prova brillantemente. Il tenore sudafricano Colin Lee, che sostituiva Juan Diego Flórez indisposto, era un Ory non agilissimo in scena, ma con acuti, agilità, grande energia, bel timbro, e la giusta vis comica, che emergeva benissimo nella brillante cavatina «Que le destins prospères», ma anche nei duetti e in tutti i concertati. Aleksandra Kurzak affrontava la parte impervia della contessa Adèle con una tecnica eccellente, non impeccabile negli acuti, ma raffinata nell’emissione, espressiva nel fraseggio, sottilmente sensuale. Stéphane Degout era un Raimbaud dalla solida voce baritonale, e abile nello stile buffo. José Maria Lo Monaco era un Isolier disinvolto e dalla voce ben timbrata, Marina De Liso una Ragonde piena di spirito, Roberto Tagliavini un Gouverneur dall’eloquio solenne.