La tematica della attuale (e reale) sovranità degli Stati può essere declinata sotto diversi aspetti.
È ormai quasi un luogo comune quello in base al quale, al giorno d’oggi, il potere effettivo non è detenuto dagli apparati pubblici ma da (alcuni) soggetti economici in grado di condizionare la stessa politica nazionale e internazionale, imponendo scelte strategiche, non solo in campo strettamente economico (es. in tema di fonti energetiche o di strumenti di comunicazione), ma anche con riferimento a questioni squisitamente politiche, in esse incluse eventuali opzioni militari.
Quello della lotta contro lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” (SIM) fu, d’altra parte, come tutti ricorderanno, uno dei cavalli di battaglia dei movimenti eversivi degli anni ’70.
Esagerazioni e arbitrarie interpretazioni pan-complottistiche della variegatissima realtà politica, sociale ed economica del mondo moderno, si dirà.
E con ragione.
La realtà, appunto, nella sua multiforme epifania, è piuttosto refrattaria a lasciarsi inquadrare in schemi rigidi e generalissimi. O meglio: ogni affermazione di carattere generale deve trovare riscontro, per essere valida, o almeno accettabile, in dati fattuali (che certo, a loro volta, necessitano di interpretazione).
E però tali dati dovrebbero essere disponibili e, nonostante si viva ormai nell’epoca di internet, non sempre lo sono o, comunque, non sempre sono adeguatamente diffusi. I blog sono invasi da notizie insulse, irrilevanti, futili e, per ciò solo, fuorvianti.
Ebbene, un dato “interessante” (per la tematica che vogliamo trattare) è stato, invece, diffuso, alcuni mesi fa, dalla rivista “Internazionale” (n. 1048, 24/30 aprile 2014). A pag. 38 ss. è infatti pubblicato un articolo (“La legge delle multinazionali” di K. Kohlenberg, P. Pinzler, W. Uchatius, ripubblicazione di un “pezzo” apparso su Die Zeit), che si sofferma sulla attività, la funzione e le prospettive dell’ICSID: International Centre for the Settlement of the Investment Disputes.
Gli autori ci ricordano come il “Centro Internazionale per il Regolamento delle Controversie Relative agli Investimenti” svolga ormai una vera e propria funzione di giustizia parallela e molto riservata, una giustizia sostanzialmente funzionale agli interessi delle multinazionali, nella loro contrapposizione agli Stati nazionali.
Si tratta sostanzialmente di una giurisdizione arbitrale, emanazione della Banca Mondiale, con sede a Washington.
E, fin qui, nulla di strano o di sconvolgente. È noto che non poche controversie vengono risolte (in genere soddisfacentemente) dagli arbitri, piuttosto che dai giudici.
Il fatto è, ci spiegano i giornalisti, che la competenza dell’ICSID, pensata per dirimere le controversie tra multinazionali e Stati, nel caso di espropriazione dei beni (patrimoniali e strumentali) delle prime, si è progressivamente estesa alla valutazione delle pretese risarcitorie delle grosse aziende nel caso in cui lo Stato in cui operano emani provvedimenti legislativi contrari ai loro interessi.
Vengono fatti numerosi esempi (cioè ricordati numerosi “casi”) in cui l’interesse generale – di cui era interprete un provvedimento legislativo – si poneva in contrasto con l’interesse particolare di una multinazionale (abbandono della opzione nucleare, moratoria nella pratica del fracking, ecc). Ebbene, in tali casi, le multinazionali, in genere, hanno “avuto soddisfazione”, spuntando cospicui risarcimenti, ovvero – cosa, a nostro parere, ancora più grave – ottenendo modifiche legislative favorevoli ai loro interessi (e dannose, nei casi sopra indicati, per l’ambiente).
E dunque perché mai gli Stati (oltre 150 si apprende dall’articolo) hanno deciso di sottostare a tale anomala giurisdizione? La risposta – a una domanda così ingenua – è ovvia: perché questa era la condicio sine qua le multinazionali non avrebbero investito in quello Stato, ma ne avrebbero scelto uno più malleabile. E dunque: niente investimenti, niente produzione, niente posti di lavoro, niente “sviluppo”. Si tratta, a ben vedere, della “mondializzazione” del modello Taranto: lavoro contro benessere, sviluppo contro tutela dell’ambiente, salario contro salute.
Insomma, le grosse aziende investono fondi solo in quegli Stati che riconoscono la giurisdizione dell’ICSID, le cui procedure non sono pubbliche e le cui decisioni sono inappellabili.
Così stando le cose, il condizionamento della politica è evidente (e innegabile). Siamo di fronte a una contraddizione macroscopica: i rappresentanti del popolo sono costretti (forse non sempre a malincuore) a fare gli interessi di chi non li ha eletti. O meglio: per coltivare alcuni interessi degli elettori (lavoro, livelli salariali) devono pregiudicarne altri (salute, ambiente ecc.). E tuttavia tale bilanciamento di interessi e di valori – connaturato a ogni tipo di scelta politico-legislativa – è eterodiretto o, comunque, fortemente influenzato, non da questa o da quella lobby, ma da un sistema lobbistico, istituzionalizzato, riconosciuto e ”benedetto” dalle sue stesse vittime.
Dobbiamo allora ammettere che siamo di fronte alla espropriazione, non solo della funzione (statuale) dello jus dicere, ma anche della funzione politica del legiferare, perché il prodotto legislativo non rappresenta più (solo) la sintesi e la composizione delle diverse (e, a volte, contrapposte) tensioni di ideali e di interessi dei cittadini, che le esprimono attraverso (più o meno) spontanee aggregazioni politiche, ma sottostà al ricatto di soggetti che non hanno né titolo, né legittimazione a influire sui processi di formazione delle norme, cioè di quelle direttrici nel rispetto delle quali tutti i consociati devono vivere ed operare.
La sistematica “esternalizzazione” della funzione giurisdizionale in settori così rilevanti non può invero non determinare la compromissione del procedimento di produzione normativa. La tradizionale separazione dei poteri, infatti, non comporta certamente la incomunicabilità tra gli stessi. Una attività legislativa che non tenesse conto delle ricadute giurisdizionali sarebbe certamente inutiliter data, ma è altrettanto vero che la produzione giurisprudenziale orienta l’attività del legislatore. Nel caso illustrato, tuttavia, vi è un quid pluris, perché non di orientamento si tratta, ma, come si diceva, di ricatto, nel quale, tuttavia, l’attività di pressione non si sostanzia nel lodo arbitrale, ma nella (estorta) clausola compromissoria.
Quanto la nostra classe politica sia consapevole di ciò e in che misura sia disposta a porvi rimedio rappresenta un’ottima questione, che meriterebbe, a nostro avviso, un po’ più di attenzione da parte dei media.
Anzi: la “direzione” che hanno preso alcuni provvedimenti legislativi degli ultimi decenni ci sembra alquanto allarmante, perché sostanzialmente in consonanza con il processo di privatizzazione della giustizia e di inquinamento esterno della attività legislativa. Criteri di esternalizzazione (appunto), soggettivizzazione e relativizzazione della funzione normativa e giurisdizionale ci sembrano, infatti, ispirare alcuni testi di legge.
Si consideri, ad esempio, la disciplina della responsabilità dell’ente per i reati commessi dai suoi vertici, ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni, anche prive di personalità giuridica).
Essa rappresenta una evidente novità/anomalia nel nostro ordinamento.
Invero, questa responsabilità non trova certamente fondamento nel fatto che l’ente non abbia concretamente impedito la commissione del reato (ai sensi del comma secondo dell’art. 40 cod.pen.). Il ricorso, ad esempio, a uno schema di giudizio come quello previsto per il delitto (colposo) di cui all’art. 57 cod.pen. (tanto per fare riferimento a una ipotesi con la quale tutti abbiamo familiarità) sarebbe del tutto improprio. Non si tratta, infatti, di mettere a fuoco una nuova figura di atteggiamento psicologico improntato a colpa (una sorta di culpa in ordinando o componendo, sottospecie ipotetica –probabilmente – della già nota culpa in vigilando), ma di valutare la adeguatezza del modello auto-organizzativo che deve essere approntato per impedire che i vertici dell’azienda – individuati ai sensi dell’art. 5 comma primo, lett. a) del citato decreto legislativo – commettano determinati reati.
Il giudice allora non è chiamato a valutare una condotta umana, ma il “frutto” di tale condotta, vale a dire l’apparato normativo-disciplinare prodotto, in piena autonomia, in ambito aziendale. Il giudizio, dunque, deve prescindere da qualsiasi apprezzamento di atteggiamenti psicologici (per altro, impossibile in riferimento alla volontà di un ente), e va a sostanziarsi in una valutazione del modello concretamente adottato dall’azienda, in un’ottica di conformità/adeguatezza del predetto modello rispetto agli scopi che esso si propone di raggiungere. Questione non da poco.
Orbene, il terzo comma dell’art. 6 del ricordato decreto legislativo stabilisce che i modelli organizzativi e gestionali possono essere adottati sulla scorta dei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative. Ma, così disponendo, il legislatore finisce quasi per operare una delega disciplinare a tali associazioni e un rinvio per relationem a tali codici.
Siamo dunque in presenza di un tendenziale riferimento a un ipse dixit aziendale, in piena congruenza con una prospettiva di progressiva privatizzazione della fonte normativa.
Ora è evidente che il rischio di una simile impostazione consiste nella “tentazione” di ritenere che l’approntamento di un modello sia, di per sé, condizione sufficiente per esimere il soggetto societario da responsabilità amministrativa; così ovviamente non può essere, essendo, viceversa, necessaria anche la istituzione di una funzione di penetrante vigilanza sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli, vigilanza che, per essere effettiva, andrebbe attribuita a un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo. Ciò, d’altra parte, è quel che sembra timidamente suggerire il ricordato art. 6 del decreto legislativo 231/2001 al punto b) del comma primo. Ma – questo è il punto nodale – perché iniziativa e, principalmente, controllo, siano effettivi e non meramente cartolari, si deve presupporre la non subordinazione del controllore al controllato.
Orbene, è certamente vero che il comma secondo del medesimo articolo prevede (sub d) obblighi di informazione nei confronti dell’organo di vigilanza, evidentemente per consentire l’esercizio “autonomo” del potere (di vigilanza, appunto), nonché (sub e) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello (ovviamente per rendere “credibile” il potere di controllo), ma è pur sempre da chiedersi se, in una struttura aziendale, necessariamente caratterizzata da un’organizzazione piramidale e gerarchica, sia realmente concepibile un effettivo, autonomo e indipendente, potere di controllo (tutto interno all’azienda stessa), atteso che il controllore è comunque un dipendente della struttura produttiva, al cui vertice si trova il controllando.
La posizione di terzietà (che deve caratterizzare il giudicante, ma anche il “controllante”), a nostro parere, è scarsamente compatibile con la funzione di chi opera e “produce”, se entrambi i soggetti fanno capo alla medesima struttura. La separazione dei poteri (di controllo e di azione) non è un pregiudizio illuministico, ma una reale esigenza funzionale, se il controllo deve essere operato tanto nell’interesse dell’azienda, quanto della intera compagine sociale.
Invero, se il titolare della funzione di controllo è interno alla struttura produttiva, egli non potrà mai entrare in reale rotta di collisione con gli interessi della produzione, perché è nel buon esito della produzione stessa che il controllore vede il fondamento, la causa e la ragione del suo stesso esistere come organo.
Ma questo è l’effetto – ineliminabile – della abdicazione del potere pubblico a favore degli interessi privati. L’aziendalizzazione del diritto, potrebbe dirsi, genera mostri.
L’autonomia e l’autodichia non possono essere poteri privi di (reale) controllo; meno che mai se sono affidati ai privati.
Così come gli Stati non dovrebbero farsi giudicare, nelle controversie che li oppongono alle aziende, da “semplici” cittadini (tali sono i componenti dei collegi arbitrali dell’ICSID), i meccanismi aziendali di controllo interno dovrebbero rimanere tali e non essere elevati, tramite il riconoscimento legislativo, a strumenti di garanzia tendenzialmente operativi erga omnes.
La responsabilizzazione del cittadino-produttore non può (non dovrebbe) compromettere o prevaricare i diritti del cittadino-elettore, che ha delegato ai suoi giudici e ai suoi parlamenti – e non certo a una o più corporation – tanto lo jus dicere, quanto lo jus condere.
Ne va, a nostro parere (e non temiamo di esagerare), dello stesso fondamento –effettivo – della democrazia rappresentativa.