C’era una volta un cantante che sapeva addolcire i pezzi rock con la poesia: “Il buio arriva, ma non è troppo spietato. C’è qualche stella, è come un disegno spezzato. Qualche lampione, piccolo lume isolato e freddo e perduto” (Bar Mario, album: Ligabue, 1990). Adesso quel cantante ci rende partecipi della straordinarietà della sua esistenza: “C’ero quando sono nato, c’ero quando son cresciuto” (Nel tempo, album: Arrivederci, mostro!, 2010).

C’era una volta un cantante che con un titolo di cinque parole – Marlon Brando è sempre lui – ti raccontava un mondo, una visione di vita, una filosofia, e cioè che Marlon Brando rimarrà sempre Marlon Brando, e tu non lo sarai mai: quindi fattene una ragione, e goditi la tua vita da comune mortale. Adesso quel cantante ci tiene a farci sapere che “tu sei lei fra così tanta gente” (ma non solo: “tu sei lei e lo sei stata sempre”. Semmai avessimo avuto il dubbio che tu in passato potessi essere stata qualcun’altra). 

C’era una volta un cantante che – si dice – ora è diventato troppo commerciale. Ma cosa vuol dire che è diventato troppo commerciale? Forse che quando vai a fare la spesa al Carrefour c’è il 99% di possibilità che la radio trasmetta una sua canzone? Sì. Forse che ormai scrive solo canzoni per attirare adolescenti, pre-adolescenti , post-adolescenti e meta-adolescenti? Anche. Forse che nel 2003 diceva che non sarebbe mai andato al Festival di Sanremo ma che nel 2014 – sai com’è, sono pur sempre 2 o 3mila dischi venduti in più – c’è andato? Pure.

C’era una volta un cantante che in una sola canzone riuscita a mettere San Pietro, i preservativi, Riccardo Ferri, il Giudizio Universale, Fiorello, i serial killer, i merdaioli, la Borsa, la Chiesa e i puttanieri (A che ora è la fine del mondo?, 1994). Adesso quel cantante pare la copia simpatica di Biagio Antonacci (che poi Antonacci non è che sia antipatico. Però poi inizia a cantare).

C’era una volta un cantante che sapeva usare la parola in maniera più che discreta, mischiando grezzo e luce, figure retoriche e aforismi, lirismo e concretezza. Adesso quel cantante è rimasto imprigionato nell’anafora, e non riesce a scappare. Random: ne Il sale della terra (album: Mondovisione, 2013) undici versi iniziano con “Siamo”; in Ora e allora (album: Campovolo 2.011, 2011) quindici versi iniziano con “Un conto”; in Nel tempo (album: Arrivederci, mostro!, 2010) undici versi iniziano con “C’ero”; in Un colpo all’anima (album: Arrivederci, mostro!, 2010) dieci versi iniziano con “Tutto questo” (o “Tutte queste”, o “Tutti questi”); ne Il giorno dei giorni (album: Nome e cognome, 2005) ventidue versi iniziano con ”Femmina”. Eccetera.

C’era una volt… accidenti, siamo finiti anche noi nella trappola dell’anafora.
Ora, pare un po’ scontato sostenere che quel cantante abbia esaurito, o smarrito, la vena creativa. Non c’è niente di male. Magari anche Rino Gaetano, se non fosse morto giovane, avrebbe scritto “Sei già dentro l’happy hour”. Magari anche Jim Morrison, se non fosse morto giovane, avrebbe scritto “Femmina come l’entrata, femmina come l’uscita, femmina come le carte”. Magari anche Kurt Cobain, se non fosse morto giovane, avrebbe scritto “Alla fine non è mai la fine, ma qualche fine dura un po’ di più”.
E però dispiace sempre, quando un artista non è più in grado di produrre arte. È un po’ come vedere Del Piero giocare in Australia, o Beckham giocare negli Stati Uniti, o Cannavaro giocare in Qatar, o Zanetti giocare in Italia. Non c’è niente di male: uno ha già detto tutto quello che aveva da dire e ora produce dischi in catena di montaggio, con lo stampino, in funzione meccanismi di marketing precisi, secondo la logica del “tutto resta uguale affinché tutto cambi”. Va benissimo, è nell’ordine delle cose: lo fa Fabio Volo con i suoi libri, lo fa Pieraccioni con i suoi film, lo fa Caressa con le sue telecronache, lo fa Chiambretti con i suoi programmi, lo fa Severgnini con i suoi articoli.

Se quel cantante ha trovato la formula magica per vendere dischi e riempire gli stadi, è suo diritto, dovere, onere e onore mettere in pratica quella formula magica e regalare emozioni (prestampate, ma pur sempre emozioni) a chi lo segue. E però dispiace: perché quel cantante una volta scriveva “Abituato a morso e fuga, mi sporco di fango catrame e di ruggine: l’istinto mi spinge a un sole che mi asciuga a un metro dalla grandine ” (Figlio d’un cane, album: Ligabue, 1990) adesso scrive “Quante volte sei passata, quante volte passerai, e ogni volta è sempre un colpo all’anima. Quante volte sei mancata, quante volte mancherei un colpo al cerchio ed un colpo all’anima” (Un colpo all’anima, album: Arrivederci, mostro!, 2010). Al confronto, il generatore automatico di slogan di Civati raggiunge picchi creativi mai visti.
C’era una volta un cantante che parlava di sconfitti dalla vita (Walter il mago), sogni di America (Lambrusco e popcorn), mezzi di comunicazione invadenti (A che ora è la fine del mondo?), inquietudini religiose (Il cielo è vuoto o il cielo è pieno), falsi moralismi (Libera nos a malo) e futuri distopici (Anime in plexiglass). Adesso quel cantante dice che tu “ci sei sempre stata”, che “tu sei lei”, che “c’è qualcosa fra te e la vita”, e “quante volte sei passata”, e “quante volte passerai”, e “portami dove mi devi portare”.
Quand’è stato, esattamente, che Luciano Ligabue è diventato Marco Carta?

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