Dopo aver raccontato la fine del sogno americano per il ceto più basso, quello dei colletti blu, nel suo primo libro Ruggine americana, Philipp Meyer ha deciso di fare un passo indietro per vedere da dove era venuta l’idea dell’american dream da cui è nata l’epopea familiare di quasi due secoli Il figlio (Einaudi), bestseller nelle classifiche americane, con cui è venuto in Italia, dove sarà protagonista sabato 15 marzo di Libri come, la Festa del Libro e della Lettura all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
“Strada facendo mi sono reso conto che per questo mio secondo libro non si poteva non passare per la storia dei nativi americani, era impossibile lasciarla fuori. Il romanzo sarebbe stato debole, limitato e quindi i 75-100 anni che volevo coprire all’inizio sono diventati quasi due secoli” spiega Meyer, che è stato selezionato dal New Yorker tra i venti migliori scrittori sotto i 40 anni, è originario di Baltimora, ma vive tra Austin, in Texas, e New York. Dalle grandi praterie americane al paesaggio desolato dei campi petroliferi, la storia del Texas occidentale viene raccontata ne Il figlio attraverso quella della famiglia texana dei McCullough, con le voci di tre narratori fra le quali spicca quella di una donna, Jeanne Anne, l’ultima erede a cui spetta il compito più difficile. Lei è la pronipote del capostipite, il colonnello Eli, L’altra voce è quella di Peter, il figlio di Eli che non riesce a essere fedele alla visione paterna e per questo viene chiamato “la grande delusione”. “Jeanne è stato il primo personaggio che mi è venuto in mente. Mi si è imposta. Tutto è partito da qui, anche se la troviamo alla fine del libro”. “Quando si pensa al XX secolo – continua lo scrittore – le persone lo associano alle due guerre mondiali, alla bomba atomica. Io invece credo – dice Meyer – che la cosa più importante sia che, per la prima volta nella storia, l’altra metà della popolazione, le donne, hanno acquisito voce in capitolo sulle cose della politica e della legge. Oggi ci possiamo raccontare che uomini e donne sono uguali. Non è così ma questa è la direzione”. Anche il colonnello Eli ha una grande forza nel romanzo: “Con lui è venuta la narrazione di quei 300 anni di guerra che hanno contrapposto i bianchi americani ai nativi. E’ il più importante conflitto combattuto sul suolo americano e l’unico senza il quale l’America non esisterebbe” racconta Meyer che per scrivere Il figlio ha impiegato cinque anni in cui si è ampiamente documentato. Paragonato a un Cormac McCarthy dai personaggi femminili forti e a un Jonathan Franzen più viscerale, Meyer spiega che per lui “sia gli elogi che le critiche danneggiano allo stesso modo, perché vengono dall’esterno, e preferisco ignorarli. Gli ultimi 50 anni non sono stati un buon periodo per la narrativa americana. Sono stati – spiega lo scrittore – anni deboli, in cui si è rifiutata la corrente dei grandi autori modernisti, da Faulkner a Hemingway e da Joyce alla Woolf. Adesso comincia un buon periodo. Ci sono scrittori come Kevin Powers e il suo Yellow Birds (pubblicato in Italia da Einaudi con il titolo originale) di cui sono diventato amico, ma io non faccio riferimento a nessuno modello”. E soprattutto, spiega Meyer, “non vengo da quella scuola di critica letteraria accademica che ha plasmato quelli che oggi vengono considerati i grandi narratori americani secondo la quale bisogna scrivere tutti come Pynchon. Apprezzo stilisticamente McCarthy, ma la sua cifra stilistica è ripresa da Faulkner, dal punto di vista filosofico mi sembra limitato”. Il figlio sta per essere adattato per farne una serie tv: “Ci stanno lavorando alcuni amici e ci sono trattative in corso con varie tv via cavo. Se va in porto la cosa, sarà la prima volta che uno scrittore di narrativa entra come produttore”. E Meyer, che ama misurarsi con quello che non sa fare, sta già pensando al nuovo libro: “Mi affascina molto una storia simile al realismo magico. Potrebbe essere qualcosa che sta fra Dante, Calvino e Garcìa Màrquez”.
Il figlio
di Philipp Meyer
casa editrice: Einaudi
pagine: 560
prezzo: 20 euro