Il 20 novembre 2012 un ragazzo di 15 anni, Andrea Spezzacatena, noto come il “ ragazzo dai pantaloni rosa” si toglie la vita impiccandosi con una sciarpa. La storia è stata al centro di infuocate polemiche incentrate sulla questione “omofobia”, “bullismo” e “cyber bullismo”. Per il caso è stata aperta un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio e omessa vigilanza da parte della preside della scuola, il liceo Cavour, frequentata dal ragazzo. Due giorni fa il pubblico ministero ne ha chiesto l’archiviazione. Tre settimane prima del tragico evento Andrea aveva già tentato di suicidarsi, con una cintura, ma senza successo.
Abbiamo saputo sia dalla madre che da altre testimonianze, che era innamorato – non corrisposto – di una sua compagna di scuola. Anche i compagni hanno sempre affermato che Andrea non fosse gay. Tuttavia gli “insulti” apparsi sulla pagine facebook, o in una scritta sul muro davanti la scuola erano legati alla “accusa” di omosessualità.
Si sono così organizzate marce e fiaccolate, ore interminabili di trasmissioni televisive senza sapere/potere ma soprattutto volere indagare di più nella vita del quindicenne e nelle complesse pieghe della sua esistenza. Era deciso: Andrea doveva essere vittima dell’omofobia. Doveva aver sofferto “quella esclusione” per forza.
Quando uscì la notizia e stavano tutti rincorrendo il colpevole tra compagni di classe e insegnanti, Golem ha intervistato la psicoterapeuta e criminologa Luana De Vita, che aveva dato altri punti di vista sulla questione, esortando a una visione più cauta e accurata dell’avvenimento.
A distanza di un anno, le chiediamo cosa è accaduto:
“Innanzitutto è gravissimo come i media abbiano manipolato e affrontato la cosa pensando di risolvere casi di cronaca nera creando fazioni e preconcetti. Da criminologa mi sento di sottolineare che non si deve sposare una teoria e poi difenderla costruendoci sopra illazioni. Una volta i cronisti erano più investigatori degli investigatori, cercavano riscontri. La cosa sconcertante è l’assenza di indagine su cosa avesse alle spalle il ragazzo. Alcuni articoli che ho letto parlano di una separazione dei genitori e addirittura di affido al padre, situazione non frequente. Anzi spesso i padri lamentano la poca frequentazione dei figli in caso di separazione.
Ora, nel 70 % dei casi di suicidio di adolescenti ci sono eventi stressanti che lo precedono, e sono presenti disturbi di tipo psicopatologico spesso non diagnosticati. Così come va detto che il 50% delle volte sono presenti problematiche dell’assetto familiare. Sempre importante dire, circa il profilo dell’adolescente a rischio, che spesso c’è una malattia depressiva non riconosciuta. Sono fattori di rischio la separazione o la perdita dei genitori, la violenza fisica subìta, le problematiche familiari, e una comunicazione intrafamiliare povera. Però attenzione, un fattore di rischio non implica di per sé un suicidio. Una violenza subìta, ad esempio, o lo scherno subìto ripetutamente, non possono da soli motivare la scelta di togliersi la vita perché altrimenti saremmo pieni di suicidi. Non si deve in realtà trovare un nesso causale a un gesto simile: è volgare e semplicistico. Sia per un adolescente sia se si tratta di un adulto.
Il suicidio è la seconda o terza causa di morte tra i giovani fra i 14 e i 25 anni, è un problema serissimo, ma non è mai l’ultimo capitolo di un libro che spiega una causa, è invece il concomitare di una serie di eventi diversi. Gli adolescenti suicidi spesso hanno alle spalle storie di tentativi di togliersi la vita falliti: un tentativo non deve mai essere sottostimato, per quanto possa essere teatrale e infantile”.
In che modo la famiglia può sostenere un evento del genere?
“Una mamma che ha perso il figlio in circostanze tragiche è senza dubbio la persona di cui avere clinicamente più cura, una persona da seguire e proteggere con idonei interventi psicologici ed eventualmente psichiatrici. Certo è che questa madre, che non sapeva che il figlio aveva avuto un pregresso tentativo suicidario, sembrerebbe confermare quel fattore di rischio cui abbiamo accennato, cioè una comunicazione intrafamiliare povera! Ho letto in qualche articolo che risiedeva in un’ altra città rispetto al padre, pertanto non siamo in grado di valutare la qualità delle relazioni all’interno di quel nucleo familiare in cui collocare questo tragico evento. Né i media sono stati d’aiuto fin qui avendo stabilito superficialmente quali fossero le cause.
E gli amici e gli insegnanti come possono vivere l’esperienza?
L’impatto del suicidio sulla famiglia e sulla comunità è devastante e le persone più vulnerabili sono proprio le madri. Voglio però anche sottolineare che gli amichetti di un adolescente che si suicida hanno un rischio sei volte maggiore dei loro coetanei di andare incontro a un episodio depressivo o di sviluppare disturbi di interesse psichiatrico. Il caso specifico di Andrea è gravissimo perché oltre al trauma reale del compagno che decide di farla finita, i ragazzi hanno subìto una gogna mediatica costruita ad hoc da giornalisti e movimenti gay che non pagheranno mai per il danno causato.Se fossi la madre di uno dei compagni di classe di Andrea indagati per istigazione al suicidio e sbattuti in prima pagina come mostri, trattati come criminali nei contenitori televisivi di pseudo intrattenimento pomeridiano, mi chiederei se questa non è persecuzione e chi dovrebbe assumersi la responsabilità. Gli editori? Gli autori degli articoli? Gli opinion maker? Nessuno tra di loro ha pensato che stavano sbranando mediaticamente dei ragazzini e delle ragazzine di 15 anni senza preoccuparsi di stabilire la verità. Anzi, stavano accanendosi contro un gruppo di adolescenti “inventando” non solo le persecuzioni omofobiche, perfino l’omosessualità di Andrea, il giovane suicida, che omosessuale non era.
E questo discorso vale anche per gli insegnanti coinvolti, l’impatto drammatico è altrettanto prevedibile sugli insegnanti dell’adolescente suicida in ragione del tipo di rapporto e vicinanza che hanno avuto. Potrebbero percepirsi inadeguati, incapaci di cogliere dei segnali importanti o di averli trascurati o sottovalutati. E anche loro sono stati trattati come criminali dai media, come conniventi della presunta persecuzione omofobica dei compagni di classe! Questa vicenda non è solo tragica per la morte di Andrea è anche drammaticamente emblematica del livello grottesco e surreale cui è sprofondata l’informazione in Italia.
Tuttavia i media hanno sempre riportato ma condannandole duramente le presunte “cause” del suicidio di Andrea…
Mai sentito parlare dell’effetto Werther? Quando nell’ 800 uscì il romanzo “ I dolori del giovane Werther” che parlava di un ragazzo che si era ucciso a seguito di un rifiuto amoroso, seguì una catena di suicidi, anche nei paesi in cui venne tradotto, Italia inclusa. Il problema dell’influenza dei mezzi di comunicazione sul rischio di suicidio è stato studiato numerose volte dagli psichiatri e dai criminologi a livello internazionale. Ridurre un comportamento così complesso e multifattoriale ad una spiegazione semplice “era gay, indossava pantaloni rosa, lo deridevano: si uccide” significa offrire ai lettori di un giornale un spiegazione fuorviante e superficiale. E anche pericolosa se tale spiegazione tende a mobilitare reazioni di “glorificazione” del suicida.
L’ identificazione con il suicida può avvenire a seconda del modo in cui la notizia viene veicolata dai media enfatizzando probabili o improbabili nessi causali tra la nostra eventuale “diversità” e la “scelta di togliersi la vita” , tacendo di eventuali disturbi psichiatrici, di contesto familiare difficile, insomma senza tenere conto che un gesto simile, come qualsiasi comportamento umano, deve essere osservato da un punto di vista biologico, di personalità e di ambiente.
Io accuso i media italiani e anche la comunità gay di alimentare questo sillogismo e di renderlo emulabile: non è vero che ci si toglie la vita semplicemente perché ci sentiamo diversi o siamo diversi dagli altri”.
Si è detto che si è tolto la vita proprio perché deriso per la sua diversità..
La “diversità” può essere una grandissima risorsa a patto che la personalità sia sana e che attinga a questa sua differenza per sostenere l’urto delle critiche della maggioranza “normale”.
Il suicidio di un adolescente, che come in questo caso viene addebitato a un’ inesistente persecuzione omofobica (il che non significa ovviamente che in questo paese non esista omofobia, il punto è che non esiste in questo caso), o i suicidi dovuti ad esempio alla crisi economica, non tengono conto di tutti quegli elementi che concorrono a scegliere il suicidio come “soluzione” alla propria sofferenza: psicologica, di personalità e di contesto familiare e sociale. Insomma, costituire un unico nesso causale che sia un naso grosso, l’altezza, il sovrappeso, la scelta sessuale, la razza, o l’etnia con il suicidio è un atto gravemente irresponsabile se prodotto dagli organi di informazione. Non esiste “una ragione” del suicidio. Le ragioni non possono essere risolte come un’equazione elementare. Ogni volta che semplifichiamo in questo modo ci rendiamo ridicoli” .