Come ogni inizio d’anno che si rispetti, sono iniziati i balletti di cifre sulla crescita economica per il 2014, il famigerato PIL (o meglio la sua variazione percentuale) che gli italiani ormai assimilano di default a un numero inferiore o vicino allo zero, rimanendo incantati quando alcuni promettono mirabolanti tassi superiori all’uno per cento.
I media rimbalzano nuove stime praticamente ogni giorno, essendo le istituzioni che si occupano di previsioni economiche molteplici e variegate. Pur non sapendo assolutamente nulla di economia, è comunque possibile predire il tono delle informazioni in base alla fonte citata. Gli organi internazionali, come il Fondo Monetario o la Commissione Europea, sono sempre pronti a parlare di “sensibile ripresa”, ma poi a ben vedere l’Italia figura sempre tra le ultime posizioni.
I continui richiami al rigore fiscale e alle riforme istituzionali da implementare nel nostro Paese sono ormai svuotati di significato, visti problemi assai più pressanti che attanagliano l’attuale governo: prima la Cancellieri, poi la legge elettorale, poi la De Girolamo. Come si può parlare di cose astratte come la crescita e l’occupazione, quando occorre a tutti i costi tenere in piedi la baracca?
Sul fronte interno, il tono degli addetti ai lavori, ancora narcotizzati dalle feste natalizie e dai conseguenti buoni propositi, è certamente più rassicurante. Il Primo Ministro, forte delle parole generiche e generali del Presidente della Commissione Barroso, secondo cui in Europa «la recessione è alle spalle», si lancia in dichiarazioni fuorvianti, al limite dell’immaginifico, su come il 2014 segnerà una svolta nel pericolo declino odierno. Come sarebbe dovuto essere il 2013. O il 2012, il 2011, fino alla notte dei tempi.
La verità, come molte voci inascoltate vanno ripetendo da tempo immemore, è che i problemi strutturali di questo Paese hanno radici ben più profonde rispetto alla crisi attuale, solamente acuiti dal terremoto finanziario iniziato nel 2008.
L’Italia non cresce oggi come non cresceva nel 2005 o nel 2002, quando le condizioni globali erano di gran lunga migliori di quelle attuali. Diventa dunque lecito chiedersi se la crescita economica non sia diventata un mantra da ripetere urbi et orbi, buono per ogni occasione, nella speranza che si auto-avveri senza alcuna azione concreta.
Questa teoria potrebbe funzionare qualora negli italiani esista ancora un barlume di ottimismo, per cui sentendosi ripetere che le cose andranno meglio inizino a consumare di nuovo, a fare impresa, a rischiare il proprio capitale. Nessuno, tuttavia, è disposto più a credere a queste vuote promesse, mentre lo scetticismo, con una buona dose di ragione, regna sovrano.
C’è poi un punto da chiarire con una certa insistenza, vista la confusione di termini per cui un fatto non certo incoraggiante diventa una bandiera da sventolare come un grande risultato.
La famosa “uscita dalla crisi”, infatti, non coincide tout-court con la ripresa economica, a meno che non si voglia attribuire a queste parole un significato meramente contabile. Il fatto che il PIL potrebbe (forse) crescere di uno zero virgola qualcosa, determinando appunto una “crescita”, non vuol dire che la condizione del cittadino italiano sia destinata a tornare rosea, che i giovani troveranno lavoro, che questo sarà pagato con equità, in rapporto alla preparazione e al costo della vita, che le imprese tornino a produrre a livelli decenti e le famiglie a consumare. Il risultato dipenderà esclusivamente dal mutato scenario internazionale, per cui se il mondo e l’Europa tornano a crescere ne avremo beneficio di riflesso anche noi.
Allo stato attuale, dunque, non esistono meriti del governo o dell’odierna classe dirigente, poiché in sostanza nulla è stato fatto, se non badare al contenimento dei conti pubblici, esercizio peraltro deludente visti i livelli record del debito pubblico.
Attaccarsi alle stime di crescita promosse dalle nostre istituzioni, dal governo a Confindustria, per promuovere un sentimento d’impegno collettivo per il miglioramento è una mossa sterile e soprattutto mendace. Procedere sulla strada dell’immobilismo ci porterà, come sempre, a mettere pezze e rattoppi a dicembre, rilanciando l’idea che le cose cambieranno nell’anno successivo.
Per uscire dall’impasse gli italiani si giocheranno, con tutta probabilità, ancora una volta la carta dell’uomo solo al comando, il salvatore in grado di rimettere in moto gli ingranaggi di un sistema sostanzialmente paralizzato. Matteo Renzi ha già ampiamente predisposto il terreno per prendere in carico questo ruolo così complesso, dove molti hanno tentato e quasi tutti hanno fallito.
Analizzare le intenzioni, specie in campo economico, è particolarmente difficile, poiché i risultati ottenuti attraverso l’adozione di politiche specifiche si vedono alla lunga distanza.
A Berlusconi sono stati concessi diversi tentativi, sarebbe il caso che al toscano ne venga dato almeno uno, sempre che la maggioranza dei cittadini sia disposta ad eleggerlo. Ad ogni modo, i segnali lanciati fino a questo momento sono stati spesso vaghi o inesistenti, specie in materie complesse come le liberalizzazioni, lo sviluppo della concorrenza, la riforma fiscale e quella burocratico/autorizzativa.
Renzi parla a valanga di aumentare gli investimenti produttivi, di incrementare la tassazione delle rendite da capitale riducendo quella per imprese e lavoratori, di ridurre la spesa pubblica in modo significativo attraverso l’applicazione dei costi standard.
Sarà interessante vedere quante di queste cose diventeranno realtà.
L’unica proposta di un certo rilievo riguarda il “Job Act”, che in buona sostanza tende ad “europeizzare” il mercato del lavoro, in un mix tra Tony Blair e Ichino. La non applicazione dell’articolo 18 per i neoassunti è possibile se viene premiata la flessibilità, ovvero qualora il salario percepito tenga conto del rischio di licenziamento.
Mettere in piedi un sistema simile richiede una grande riforma del welfare, dove tra un licenziamento ed il reimpiego venga garantito il reddito. Il reddito minimo garantito sarebbe appunto la soluzione drastica, ma anche un adeguato sussidio di disoccupazione, come avviene nei paesi più avanzati, potrebbe essere un buon sostituto.
Quello che Renzi non vede, tuttavia, è che il problema del lavoro oggi è il salario percepito, non la flessibilità. I giovani, e nemmeno tanto visto che parliamo della fascia fino a 35 anni, che lavorano guadagnano poco rispetto al costo della vita. Con 800 euro al mese puoi sopravvivere (forse), ma non puoi certo consumare, risparmiare o addirittura investire sul futuro. Il mantra della flessibilità, al pari di quello della crescita, si scontra con una realtà che la classe politica ha smesso di osservare.