C’è in Portogallo una realtà musicale che è un piccolo gioiello. Sarà perché l’auditorium che la ospita ha la forma di un diamante, ma La Casa da Música di Porto in pochi anni, dalla sua fondazione, è diventata un punto di riferimento per la città e anche uno dei centri culturali più importanti in Europa. Ideata nel 2001, l’anno in cui Porto è stata capitale culturale europea, è stata progettata dall’architetto olandese Rem Koolhaas, che ha ideato un edificio a forma di poliedro di colore bianco, con molte superfici di vetro, costruito nell’area della Rotonda da Boavista, vicino al centro storico di Porto. Uno spazio compatto e polivalente, che comprende quattro sale da concerto (la più grande, cioè la Sala Suggia – intitolata alla grande violoncellista portoghese Guilhermina Suggia – può accogliere oltre mille spettatori), oltre a ristorante, bar, parcheggio, biblioteca.
Molto fitta, e varia, è anche la sua programmazione musicale, che tocca generi diversi, dal fado all’elettronica, offre numerosi progetti didattici, ospita sistematicamente solisti, ensemble, orchestre internazionali, ma sfrutta soprattutto i quattro gruppi musicali residenti, tutti di eccellente qualità: l’Orquestra Sinfónica do Porto, il Remix Ensemble votato alla musica moderna e contemporanea (e diretto da Peter Rundel), l’Orquestra Barroca (diretta dall’inglese Laurence Cummings), il Coro Casa da Música. Un aspetto molto interessante della programmazione, ideata da un direttore artistico aggiornato e competente come António Jorge Pacheco, è che tutti i concerti sono ordinati in cicli tematici, e ogni stagione è dedicata a un Paese diverso, creando così ogni anno un intenso scambio con musicisti, interpreti, compositori, istituzioni di quel Paese.
L’anno dell’Italia
Dopo la Spagna, i paesi Scandinavi, il Brasile, l’Austria, gli Stati Uniti e la Francia, quest’anno è stata la volta dell’Italia, con un ricco cartellone dedicato al repertorio musicale italiano, dalla musica rinascimentale a quella contemporanea, da Gesualdo da Venosa (di cui si celebrano i 400 anni dalla morte) a quella di Luciano Berio (decimo anno dalla morte), passando attraverso Goffredo Petrassi, Luigi Dallapiccola, Franco Donatoni, Salvatore Sciarrino, Giorgio Battistelli, Luca Francesconi. Tra i vari cicli tematici, come «Música e Revolução», «Novas Músicas», «À Volta do Barroco», spiccava quello intitolato «Futurismus», che esplorava il rapporto tra suono e rumore, tra musica e macchina, attraverso un’ampia panoramica storica che prendeva le mosse da alcuni pionieristici lavori del primo Novecento. L’ensemble di percussioni Drumming, diretto da Georges-Elie Octors, ha eseguito ad esempio alcuni dei capostipiti della musica per percussioni sole, come l’Interludio dell’opera il Naso di Shostakovich (del 1928), Ionisation di Edgar Varèse (del 1931), Ostinato Pianissimo di Henry Cowell (del 1934). Nello stesso concerto anche il geniale Scratch Data (2002), pezzo per percussioni e elettronica del “saturazionista” Raphaël Cendo, dove i suoni delle percussioni vengono ibridati da “perturbazioni” elettroniche, che creano l’effetto di uno specchio deformante; e il celebre Ballet Mécanique di Georges Antheil, eseguito insieme all’Ensemble Ictus, e con la proiezione del film di Fernand Léger. Anche l’ensemble Remix, diretto da Peter Rundel, ha rivolto uno sguardo al presente e uno al passato, eseguendo due prime mondiali per ensemble e elettronica, commissionate dalla Casa da Música (Permeability di Oscar Bianchi e Spiccato di Wolfgang Mitterer, pezzo che chiamava in causa anche sei chitarre elettriche), e due pezzi storici come Decret n.2: an die Armee der Künstler di Stefan Wolpe, su testo di Vladimir Majakovskij, e una versione per ensemble del celebre poema sinfonico Zadov (fonderie di acciaio) di Alexander Mosolov. Questo lavoro del 1926, vero e proprio manifesto delle macchine in musica, è stato eseguito anche nella sua versione originaria per orchestra, in un bel concerto dell’Orquestra Sinfónica diretta ancora da Peter Rundel. Primo esempio del futurismo musicale sovietico – il compositore ucraino, allievo di Mjaskovskij e di Prokof’ev, lo aveva composto originariamente come parte del balletto Stal (acciaio), andato perduto -, è una partitura dalla forza lavica che sembra sprizzare le scintille di un altoforno, una musica di grande irruenza fonica, basata su strutture ritmiche ripetute in maniera ossessiva, su masse timbriche compatte usate come ruote di ingranaggi, ma restituita con una lettura di estrema nitidezza timbrica e ritmica.
Il respiro di una macchina
La stessa precisione si coglieva in un altro storico lavoro storico associato al mondo delle macchine, Pacific 231 (1924) di Arthur Honegger: l’interpretazione di Rundel e dell’orchestra di Porto esaltava l’energia motoria, il gioco degli ottoni, metteva in risalto le accelerazioni, le decelerazioni, i sibili e gli sbuffi di questo poema sinfonico dedicato a una locomotiva («Ho sempre amato le locomotive con passione – dice il compositore -; per me sono esseri viventi, e le amo come altri possono amare le donne o i cavalli. Nel “Pacific” quello che ho cercato di fare non è l’imitazione dei rumori della locomotiva ma la traduzione d’un’impressione visiva e di un godimento fisico in una costruzione musicale. La composizione parte da una contemplazione oggettiva: il respiro tranquillo della macchina in riposo, lo sforzo dell’avviamento, e poi il progressivo aumento della velocità finché si arriva allo stadio lirico o patetico di un treno di trecento tonnellate lanciato in piena notte a 120 all’ora. Ho scelto a oggetto della composizione la locomotiva di tipo “Pacific n. 231” per i convogli pesanti dalle grandi velocità»). Molto azzeccato anche l’inserimento, nello stesso concerto, della suite dal balletto Le Pas d’acier Prokof’ev (scritto nel 1927 per i Balletti russi di Diaghilev e per la coreografia di Leonide Massine, su soggetto dell’artista costruttivista Georgi Yakulov) che tentava di descrivere la vita contemporanea in Unione Sovietica, tra fabbriche, mercati e stazioni. Decisamente meno “futuristi” erano gli altri due lavori che completavano il programma del concerto, Atmosphères di György Ligeti e Reflections/Reflets di Tristan Murail. Quest’ultimo era un lavoro nuovo, decisamente riuscito, nato da una co-commissione tra la Casa da Música e la BBC Symphony Orchestra, composto da due ampi movimenti dal carattere assai diverso tra loro, ma entrambi basati su un chiaro impianto spettrale (che prevedeva la scordatura di un quarto di tono di sei strumenti dell’orchestra) e pieni di rimandi al passato, come riflessi di due partiture di Debussy: il primo pannello, Spleen/Quand le ciel bas et lourd…, si ispirava all’omonima poesia di Baudelaire e a Nuages di Debussy (da cui prendeva in prestito diversi elementi, tra i quali una melodia dei legni, trasformata in una progressione di accordi), creando una sostanza sonora sospesa, ipnotica, fatta di avvolgenti spire armoniche, interrotte da scampanii e improvvise fiammate; il secondo movimento, High Voltage/Haute tension, si ispirava invece ai Feu d’artifice di Debussy e Stravinskij, con trilli, ritmi percussivi, figure rapidissime che generavano una materia magmatica, caleidoscopica, dall’orchestrazione raffinatissima.
Knosso e il labirinto di suoni
György Ligeti ritornava anche nel concerto del Coro Casa da Música (diretto da Paul Hillier) con una bella esecuzione di Lux Aeterna, accanto a una nuova composizione per coro, voce recitante e elettronica di Carlos Caires, compositore portoghese nato nel 1968, formatosi in Portogallo e poi a Parigi, con un dottorato di composizione sotto la guida di Horacio Vaggione, e con studi di informatica musicale che lo hanno portato a sviluppare un originale programma di micromontaggio sonoro. Canto o presente, e também o passado e o futuro si basava su frammenti tratti dal Manifesto Anti-Dantas (1916) di José de Almada-Negreiros (che insieme a Fernando Pessoa, è stato uno dei padri del modernismo portoghese) e dall’Arte dei Rumori di Luigi Russolo. Sulla trama elettronica di rumori secchi e legnosi, echi popolari, chiacchiericci in lontananza, effetti meccanici, turbolenze gravi, si innestavano alcune soavi armonie del coro e begli effetti di spazializzazione ottenuti attraverso un sofisticato sistema di altoparlanti. Unica nota stonata era la presenza della voce recitante, che rendeva prosaico, inutilmente didascalico, questo poetico intreccio di suoni. Nello stesso concerto si sono sentiti due lavori dell’eclettico Luiz Henrique Yudo (1962), brasiliano ma di origini giapponesi e naturalizzato olandese, formatosi come architetto all’Università di São Paulo, come videomaker ad Amsterdam, come compositore sotto la guida di Damiano Cozzella e Tom Johnson. Molte sue composizioni sono ricavate da strutture visive, da geometrie astratte, da immagini di labirinti, come The Maze of Knossos (2007) pezzo per quattro voci maschili che cantavano brevi cellule reiterate, che descrivevano la forma di un labirinto ricopiato da un’antica moneta d’argento (trovata a Knosso e risalente al 350 a.C.); lavoro più scabro, concepito come un’originale mix di elementi cantati e di Sprechgesang era A Ramos de Azevedo (2011) per quartetto, basato su un sonetto di Glauco Mattoso, e dedicato all’omonimo, celebre architetto brasiliano. Completavano il concerto tre pezzi di Pelle Gudmundsen-Holmgreen, compositore danese nato nel 1932 (figlio dello scultore Jørgen Gudmundsen-Holmgreen), allievo tra gli altri di Vagn Holmboe. Paul Hillier, grande sostenitore della sua musica (ha anche inciso per Da Capo un cd dedicato alla sua produzione corale, intitolato «The Natural World of Pelle Gudmundsen-Holmgreen», con l’ensemble Ars Nova Copenhagen, e nominato ai Grammy Awards del 2012 come migliore esecuzione di repertorio corale), è sempre stato affascinato dalla capacità del compositore danese di trasformare, attraverso meccanismi elementari, il testo poetico in una musica laconica e provocatoria, volutamente infantile, ma capace di confrontarsi con la filosofia di Kierkegaard, e con la dimensione dell’assurdo di Beckett. Uno dei primi esempi di questo stile, venuto dopo una breve fase seriale negli anni Sessanta, è stato Konstateringer (constatazioni), pezzo del 1969 per coro femminile, basato su una poesia di Hans-Jørgen Nielsen, che ricompone in ogni verso le stesse parole in maniera sempre diversa. Gudmundsen-Holmgreen ne ha ricavato una struttura musicale “oggettiva”, quasi dadaista, che associa ogni parola ad una nota, creando una lunga linea melodica, punteggiata da sillabe parlate, come break improvvisi, da delicate stratificazioni armoniche, conclusa, emblematicamente, con i versi «io constato, questo è tutto». Il coro ha poi eseguito altri due lavori per quartetto del compositore danese, Song (2010) e Sounds (2011), entrambi basati sulla melodia di Lachrimae di John Dowland, e giocati su un sapiente mix di echi madrigalistici, effetti dissonanti e espressivi, incastri ritmici di fonemi, effetti gutturali e soffi.