La Corte di Cassazione con la sentenza n. 44/628 depositata il 5 novembre 2013, nel solco innovativo tracciato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, ha ammesso l’applicazione della sola multa al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile o di mantenimento stabilito dal giudice civile.
Dopo anni di diverso parere, la Cassazione, probabilmente anche a causa dell’elevatissimo numero di processi a carico dei mariti che si sottraggono all’obbligo del versamento di quanto statuito dal giudice della separazione o del divorzio, ha ridotto il timore di una condanna penale, modificando il pregresso consolidato orientamento.
IL FENOMENO DELL’INADEMPIMENTO DEI MARITI SEPARATI O DIVORZIATI
Come è noto sia il provvedimento provvisorio presidenziale che attribuisce il mantenimento alla moglie ed ai figli, sia la sentenza definitiva, costituiscono titolo esecutivo, mediante il quale il coniuge avente diritto può procedere nei confronti dell’inadempiente, con le tutele civilistiche, dando corso all’esecuzione forzata e con gli istituti tipici del diritto di famiglia, (chiedendo per esempio il pagamento diretto al datore di lavoro, richiedendo il sequestro sui beni del coniuge obbligato, mediante l’iscrizione di ipoteca, ecc.).
Il problema si pone allorché il marito, o per reale incapacità economica o perché fraudolentemente si spoglia di ogni bene, di fatto faccia diventare il credito della moglie e dei figli inesigibile.
Poiché il fenomeno è divenuto estremamente diffuso, il legislatore rimetteva mano alla questione con una serie di normative.
Peraltro la necessità di tutelare il coniuge più debole ed i figli, fuoriesce dall’interesse privatistico ma coinvolge l’interesse dello stesso Stato, tant’è che negli Stati Uniti per esempio, il Presidente Clinton, all’epoca, introdusse una normativa specifica istituendo un ufficio ispettivo a tutela degli aventi diritto.
LA NORMATIVA ITALIANA
Per arginare il fenomeno di chi si sottrae all’obbligo di mantenimento, dopo la legge divorzile, n° 498 del 1970, il Parlamento rimetteva mano alla materia nel 1987 con la legge n. 74 statuendo che “al coniuge che si sottrae dall’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli art.li 5 e 6 della presente legge (assegno divorzile e mantenimento per i figli) si applicano le pene previste dall’art. 570 c.p.”
Ad evitare dubbi sull’applicabilità di tale principio anche in tema di separazione, con le disposizioni legislative che introducevano l’istituto dell’affidamento condiviso dei figli, (legge 14/02/2006 n. 54) veniva previsto espressamente all’art. 3 della normativa che “in caso di violazione degli obblighi di natura economica si applica l’art. 12 sexies della legge 1/12/1970 n. 498”.
Dunque il reato per chi si sottrae al pagamento, si configura sia nella separazione dei coniugi che nel divorzio.
SCARSA CHIAREZZA DELLA NORMA
Apparentemente dunque nulla quaestio sull’esistenza dell’illecito penale in caso di mancato versamento dell’assegno stabilito dal giudice civile.
Il problema si poneva però sulla genericità del richiamo, laddove l’art. 570 del Codice Penale, prevede due fattispecie differenti.
Il comma primo statuisce che “Chiunque abbandoni il domicilio domestico o comunque osservando una condotta contraria all’ordine della morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino ad un anno o con una multa da € 103,00 fino ad € 1.033,00”.
Il secondo comma, viceversa punisce con la reclusione e con la multa congiuntamente “Chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, il coniuge …..”
Dopo varie sentenze contrastanti la giurisprudenza arrivava alla conclusione per cui la fattispecie penale di cui all’art. 12 sexies della legge n. 898/70 sul divorzio, poi richiamata anche dalla normativa sulle separazioni, costituiva una ipotesi di reato autonoma che non coincideva con la fattispecie di cui all’art. 570 del codice penale ed il riferimento a tale norma, riguardava solo l’applicabilità della pena.
SCELTA DELLA SANZIONE
A tal fine, non essendo chiaro se il richiamo delle normative civilistiche al reato di cui all’art. 570 c.p. riguardasse soltanto il primo comma (multa in alternativa alla reclusione), ovvero il secondo comma (che invece prevedeva sia la multa che la reclusione), la questione veniva rimessa alla Corte Costituzionale, la quale tuttavia non ravvisava alcuna illegittimità costituzionale per indeterminatezza, ma rimetteva la decisione al giudice del merito.
La Corte di Cassazione, a questo punto assumendo un orientamento piuttosto costante, affermava che il rinvio all’art. 570 c.p. operato dalle normative civilistiche, doveva intendersi riferito sicuramente alle pene previste dal 2° comma, e non a quelle del 1°, in quanto il citato art. 12 sexies della disciplina divorzile, aveva ad oggetto la violazione dell’obbligo di natura economica e non la violazione dell’assistenza morale.
Quindi la volontà del legislatore non poteva che essere quella di riportarsi al 2° comma dell’art. 570 c.p. che appunto prevede la fattispecie “di chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti ed al coniuge” e conseguentemente la pena da considerare era quella della reclusione e della multa congiunta.
IL RIPENSAMENTO DELLE SEZIONI UNITE
La questione è stata rivista tuttavia con il nuovo orientamento della Sezioni Unite della Cassazione che con sentenza n. 23866 del 2013, poi seguita dalla sentenza alla quale oggi ci richiamiamo, n. 44628 depositata il 5/11/2013, ha mutato le tesi pregresse, ritenendo che il mancato pagamento del mantenimento, sanzionato dall’art. 12 sexies della legge divorzile 898/70 e della legge n. 54/06 sull’affidamento congiunto, non dovesse più intendersi come richiamo quoad poenam all’ipotesi di cui al 2° comma dell’art. 570 “mancanza dei mezzi di sussistenza ai discendenti o al coniuge” punito con la sanzione economica unita a quella detentiva, ma dovesse rapportarsi esclusivamente al 1° comma dell’art. 570 c.p. “sottrazione agli obblighi di assistenza” punita con la mera sanzione della multa (ovvero solo nei casi più gravi con la reclusione).
La fattispecie portata all’attenzione della Suprema Corte era data dalla condanna del Tribunale di Milano alla pena di 8 mesi di reclusione e 800 euro di multa, a carico del marito che si era sottratto agli obblighi di assistenza inerenti la qualità genitoriale, avendo omesso di versare il contributo mensile di 2mila euro per il mantenimento della moglie e della figlia minore.
La Cassazione viceversa annullava la condanna rilevando, che i giudici di primo e secondo grado non avevano contestato all’imputato di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza alla moglie ed alla figlia minore (2° comma dell’art. 570 c.p.), bensì solo di essersi sottratto all’obbligo di assistenza inerente alla qualità genitoriale ai sensi della legge n. 54/06 in tema di separazione ed affidamento condiviso.
Dunque la Suprema Corte reiterava l’orientamento delle Sezioni Unite nel senso che la condotta sanzionata dell’art. 570 comma 2° n. 2 c.p. presupponeva che l’omessa assistenza avesse comportato effettivamente l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, i quali comprendono quanto necessario per la sopravvivenza.
Tale situazione non si verificava affatto invece con la sola omissione dell’obbligo di mantenimento stabilito dal giudice civile.
In tal senso la violazione dei doveri di assistenza materiale in favore del coniuge previsti dalla disciplina civile (mancato versamento del mantenimento), ricorrendo tutti gli altri elementi della fattispecie, va punito solo con la sanzione prevista dell’art. 570 comma 1° c.p. e non comma 2°.
Da ciò deriva, secondo la Cassazione che, la violazione formale dell’obbligo di corrispondere l’assegno di divorzio, ed ora anche quello di separazione ai sensi della legge n. 54/06, non integra più il reato di cui l’art. 570 comma 2° n. 2 c.p., bensì costituisca un generico rinvio quoad poenam dell’art. 570 c.p. e debba intendersi riferito al comma 1° della stessa norma (applicazione della sola multa alternata alla reclusione).
ASSEGNO DIVORZILE E MEZZI DI SOSTENTAMENTO
Va detto per completezza che la giurisprudenza, in realtà, non sempre è univoca. L’unico punto indiscusso è che distingue con chiarezza tra l’assegno stabilito dal giudice civile in sede di processo di separazione dei coniugi o di divorzio e l’omissione dei mezzi di sussistenza previsti dall’art. 570 c.p. 2° comma.
Secondo la Suprema Corte, la nozione dei “mezzi di sussistenza” a differenza dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice civile, comprende solo ciò che è necessario per la sopravvivenza dei familiari dell’obbligato e nel momento storico in cui il fatto avviene.
Quindi, di caso in caso, il giudice penale deve accertare se la fattispecie riguarda la mera violazione dell’obbligo di mantenimento stabilito dal giudice civile, punibile quoad penam con la multa alternata alla pena detentiva, ovvero se si tratta di mancanza dei mezzi di sussistenza, ipotesi nella quale viceversa, ai sensi del 2° comma dell’art. 570 c.p. andrà comminata la pena detentiva unita a quella pecuniaria, sempreché siano venuti a mancare effettivamente tali mezzi, previa verifica dello stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione.
Sul tema la giurisprudenza di legittimità e di merito, come detto, mostra comunque molte oscillazioni.
Innanzitutto alcune sentenze della Cassazione hanno precisato che la sottrazione all’obbligo del mantenimento disposto in sede di separazione integra il reato soltanto per ciò che riguarda i provvedimenti riguardanti il mantenimento dei figli, e non il coniuge separato (Cass. pen. N. 3587/11 e Cass. n. 36263 del 22/09/2011).
In secondo luogo allorché viceversa venga in esame la previsione del 2° comma dell’art. 570 c.p. (privazione dei mezzi di sussistenza) deve accertarsi in concreto, se per effetto della condotta, siano venuti a mancare effettivamente i mezzi di sussistenza, e cioè va verificato lo stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione e la capacità economica dell’obbligato a fornirli, (in senso analogo per es. Cass. Pen. n. 26808/12 e n. 49501/09).
Con questa ultima sentenza anzi, la Suprema Corte ha escluso la condanna, laddove pur non ricevendo il coniuge quanto statuito dal giudice civile, tuttavia la moglie conservava il diritto al godimento della casa intestata al marito e di una piccola pensione da parte dell’Inps.
In genere è conforme la giurisprudenza nell’escludere la responsabilità del marito allorché questi dimostri il proprio stato di indigenza che tuttavia deve essere provato in modo ineccepibile.
In tal senso Cass. pen. n. 47019/09 (ex multis) ha precisato che integra comunque il reato di cui all’art. 570 c.p. la condotta del coniuge, piccolo imprenditore, che versa sporadicamente il contributo in favore della moglie, laddove lo stato di crisi della propria impresa non è comunque tale da comprovare uno stato di vera e propria indigenza per il titolare.
Per escludere la responsabilità penale deve rilevarsi infatti una situazione incolpevole di indisponibilità e cioè di mancanza incolpevole di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze degli aventi diritto.
Né il pignoramento di una quota mensile dello stipendio del coniuge obbligato, fa venir meno l’illecito penale allorché la somma sottoposta all’esecuzione non sia sufficiente ad assicurare il sostentamento mensile dei figli minori (Corte di Appello Caltanissetta 8/05/2008).