Anni fa ero a cena in un ristorante di Buenos Aires con pochi amici e avevamo finito di mangiare, quando il cameriere si presentò con una bottiglia di grappa. Prese a versare a tutti ma quando arrivò all’ultimo bicchiere, la bottiglia finì; invece di andare a prenderne subito un’altra, l’uomo restò immobile continuando a vuotare le ultime gocce.
Il suo volto era impassibile mentre concentrato prendeva la mira e seguiva la goccia scivolare e poi cadere verso quel bicchiere sotto che il mio amico, un cileno cosmopolita che da anni vive in Italia, aveva in mano aspettando paziente con il braccio proteso.
A colpirmi non fu solo l’immobilità e la serietà ma la normalità che traspariva dal loro comportamento: non era un gioco quello che stavano facendo ma una consuetudine. Il loro atteggiamento e anche la reazione degli altri a tavola lo dimostrava; così riavutomi dalla meraviglia iniziale, mi voltai di scatto per prendere la camera che avevo nella borsa sotto i piedi. Ricordo che, mentre mi affrettavo, dissi di aspettare in modo da poter riprendere la scena con le vere gocce, ma loro mi tranquillizzarono rispondendo che sarebbe durato a lungo, evidentemente già sapendo che quella grappa aveva una lunga scia. E così ripresi la scena che poi montai nel mio ritratto di Buenos Aires, un film che si chiama Stella Loca e che ha come protagonista un’assenza, ovvero una giovane donna italiana che viaggia nella città, perdendosi e ritrovandosi in una ragnatela di suoni e immagini ipnotici, mentre si chiede se deve abbandonare o meno l’Italia.
Qualche tempo dopo ero a Santiago del Cile, all’ultimo piano di un grattacielo. Avevamo viaggiato a lungo ed eravamo molto stanchi ma appena arrivati ci avevano portato in una casa per girare delle interviste.
La casa era molto borghese e ci ritrovammo nel salone con quattro uomini, due anziani e due di mezza età. Erano due padri e due figli. Uno dei figli era stato un militare di Pinochet e comunque si trattava di rappresentanti della borghesia cilena di destra.
Ricordo che la mia stanchezza mi faceva sentire un eroe e, come faceva con tutti gli eroi, aumentava la mia disponibilità verso il mondo. Cominciai a riprendere e a conversare con questi quattro uomini i quali parlando o restando in silenzio emanavano un’intensità non abituale. Perlomeno i due più anziani.
Erano tutti di origine italiana, di un’antica famiglia il cui capostipite era venuto qui alla fine dell’ottocento come ingegnere per costruire la linea ferroviaria cilena.
Dopo poco che ascoltavo e cercavo l’inquadratura spostandomi in quel salotto così immobile, mi accorsi protetto dalla camera che uno dei due anziani che aveva preso a parlare, un uomo magro e dolce con lo sguardo acuto e morbido insieme, mi ricordava mio nonno. Per continuare a lavorare e non a commuovermi, mi concentrai sul silenzio degli altri e sulla luce degli alti palazzi fuori che, come giganti, oltre il vetro del salone, sembravano spiarci o aspettarmi. In fondo, Santiago del Cile era là fuori e la notte sarebbe stata ancora lunga. Nessuna stanchezza avrebbe potuto impedirmi di respirare la meravigliosa sensazione che si ha quando si giunge in una città per la prima volta.
Così l’uomo continuò a parlare e raccontava con calma, soffermandosi a commentare e ad analizzare la sua memoria. Finché cominciò a parlare di cinema e, come del resto era prevedibile, arrivò a Ladri di biciclette di De Sica. In Italia davvero raramente o forse mai ho mai sentito parlare di questo film, ricordando precisamente certe scene o altro, a parte, certo, il fatto di citarlo. Ma all’estero la cosa può accadere spesso e spesso si può vedere l’ammirazione che suscita e sentire le tracce che esso ha lasciato.
Così, mentre quell’uomo ricordava e riviveva, io ne approfittavo per prendere ancora la distanza dalla commozione del mio ricordo “segreto”, dato che quella tipicità non sembrava emozionarmi ma al contrario raffreddarmi, consegnandomi a quella “naturale” vanità italiana che sentendo lodata la sua storia e cultura, si schernisce (interiormente o esteriormente poco importa) e taglia corto; ma ecco che mentre lui parlava della povertà italiana del dopoguerra e del sentimento “basico” che quel film per lui esprimeva, prima che esprimesse il concetto e spiegasse quale fosse, appunto, questa basicità, l’altro uomo anziano che gli era seduto accanto e che era stato piuttosto silenzioso fino a qual momento, intervenne bruscamente e affermò perentorio: “la pobreza, sin vergüenza de la pobreza!”
Mi destai e ripetei tra me e me: la povertà, senza la vergogna della povertà… come se il tradurlo in italiano me lo potesse o dovesse far comprendere meglio.
Poi anni dopo, in montaggio, mi ritrovai molte volte di fronte a qual “passaggio” (che avevo dimenticato) e sempre rivedere e ascoltare quella perentorietà e fermezza, quel suono che proveniva dal silenzio, dal lungo silenzio di un uomo che ascoltava con attenzione sembrando, con il suo sguardo severo, poco disposto a dire la sua, mi emozionava profondamente.
Fare l’elogio della povertà oggi potrebbe apparire strumentale, furbo. E non penso ad una furbizia dei ricchi che, in questo modo, possono magari provare a disinnescare la rabbia altrui. No, penso alla furbizia dei poveri che per sopportare la loro condizione si raccontano che essa, invece, è un privilegio, una ricchezza, una fortuna. Del resto, se gli levi la furbizia, ai poveri che gli resta? Avrebbe magari detto Totò o Pulcinella che segue le sorti di questo nostro paese di furbi e di ricchi proprio qui su questo giornale virtuale, ascoltando con devozione il mio direttore.
Dunque, assolta la furbizia, che anche Andreotti (altra grande maschera italiana) consigliava come rimedio contro l’esistenza, proverò a dire qualcosa a favore della povertà, non fosse altro perché la conosco bene. Anche se, pure la povertà, come la ricchezza, può non avere… fondo. Nel senso che quando pensi di essere povero e di essere davvero con le pezze al culo, ecco che dopo qualche giorno potresti trovarti non solo senza soldi ma anche senza telefono o senza luce. E poi senza macchina, senza casa, senza vestiti etc… etc.
In un’escalation vertiginosa e appassionante forse più di quella che può vederti guadagnare migliaia o milioni di euro in poco tempo o poche ore semplicemente cliccando qualche tasto virtuale.
Da dove cominciare allora? Direi dalle gocce, perché proprio oggi nel pomeriggio sono rimasto a lungo a vuotare la bottiglia dell’olio sul pane. Cosa c’è di più buono del pane con l’olio infatti? Mentre restavo immobile con la bottiglia in mano aspettando che queste benedette gocce si degnassero di scendere giù, ho pensato all’olio. Anzi, alle olive che lo contengono come bottiglie microscopiche. E mi sono chiesto: perché mai nessuno ha pensato di fare una collana di olive che magari perde il succo e distribuisce l’olio sulla pelle, rendendola, come si sa, più bella e morbida?
Potrebbe essere una trovata imprenditoriale per il sud o una scemenza totale ma il pensiero mi ha quasi commosso: provando tenerezza nei miei confronti sono rimasto a fantasticare una bellissima donna milanese che aveva inguacchiato tutto il suo vestito bianco con il succo delle olive pugliesi e si slacciava la camicetta ancora di più per far vedere l’imboccatura del seno tutta umida e succulenta. E così, con questa fantasticheria, il tempo è passato e quando sono ritornato al mondo le gocce intanto erano scese tutte e il pane mi aspettava in mano… pronto all’uso.
Se non dovessi sforzarmi, se non dovessi continuare a cavalcare questa benedetta furbizia, mi fermerei qui, che questa storia della collana, forse, già contiene più virtù e insegnamenti, più leggerezza e sapore di un koaz zen, di un aneddoto su Confucio o di una barzelletta berlusconiana. Ma di questi tempi bisogna essere convincenti verso se stessi e verso gli altri e dunque bisogna che continui a spremere l’oro della povertà.
Dall’olio, allora, passiamo al tè. Dopo qualche ora, infatti, volevo farmi un tè e mi sono accorto che era quasi finito o meglio che era finito ma che nelle varie scatole giacevano le briciole di foglie. Non avendo scelta ho cominciato a radunarle ma erano poche, a stento avrebbero dato un po’ di sapore all’acqua… calda. Ma, ecco, l’illuminazione e la memoria a venirmi incontro: dalle varie scatole infatti che, nonostante la vuotezza, erano state tenute gelosamente chiuse, emanava (mettendoci il naso) l’odore del tè che si era ormai rappreso lì dentro. Così ho trovato la soluzione: quando l’acqua avrebbe bollito, avrei potuto mettere le scatole, tutte insieme, a contatto con i vapori, chiudendo il tutto con un bell’asciugamano, a mo’ di fagotto. In questo modo i vapori, salendo, avrebbero incontrato l’odore solidificato e se ne sarebbero impregnati ma, sbarrati dall’asciugamano, sarebbero tornati indietro ad odorare (e nella mia illuminazione anche ad insaporare) l’acqua, consegnandomi un tè variegato e delicato.
In realtà la mia idea non era originale ed è per questo che ho parlato di memoria. Fu il piccolo picaro de il Lazzarillo de Tormes a farsi un panino con l’odore della salsiccia, visto che non poteva comprarsi anche la salsiccia. Insaporì, infatti, il pane con il fumo della griglia dove il venditore arrostiva la carne, costringendolo a riconoscere di non poter essere il proprietario anche del fumo, visto che quello gli contestava il diritto di usufruire liberamente dell’aria in circolazione.
Se Lazzarillo sopravvisse alla sua epoca, lo dovette, in ogni modo, non solo alla sua furbizia, ma anche alla sua fame e alla sua sete di avventura. Preti, invalidi, potenti e signorotti non potevano nulla di fronte a questa vendetta. E la fame nascondeva o esaltava la sua voglia di vivere.
Già voglia di vivere…
E se oggi la povertà nascondesse il dolore di vivere, se il problema vero non fosse la giustizia sociale o le restrizioni economiche, ma ciò che esse dopo secoli hanno generato? Anche il benessere che noi abbiamo conosciuto, infatti, può mettere in campo il sentimento della restrizione, visto che, come si sa, più si ha e più si desidera e dunque è avendo che si sente maggiormente la mancanza.
Ma come si fa a ritrovare questa gioia di Lazzarillo?
Sinceramente non lo so, i bambini, la musica e l’amore per le forme silenziose, quale esse siano, forse potrebbe fare ancora qualcosa. Visto che tra noi umani adulti non passa più molto buon sangue.
Ma la terapia sta anche nel ricordo, a mio parere. Nel rivedere il volto di Antonio Ricci, il protagonista di Ladri di biciclette, e la sua vergogna di fronte al figlio dopo aver rubato e non quella di essere povero, come mi facevano notare gli italo-cileni quella sera, oltre le Ande.
“Senza vergogna della povertà!”… sento ancora quelle parole scandite come un monito e un augurio. Mai avrei pensato di sentirle dire così, eppure il vero seme dell’emigrazione è il sentimento dell’infinita possibilità che la povertà, del resto, contiene per diritto costitutivo.
Allora dato che i consigli sono utili ma inefficaci, proverò a farmi un augurio e a lanciarlo nell’aria come un sasso sfuggito alla mano del potere. Del mio potere e della mia povertà.
Spero di uscire domani e di ritrovare la bicicletta che qualche tempo fa mi hanno rubato; spero di poterlo fare anche se è lontana da qui, in altri mondi dimenticati o ancora da scoprire. E spero di ritrovarla simile a quella con cui nel 1974, durante l’austerity, m’inoltravo nella città vecchia per esplorare il mondo. Quella che nella magica solitudine infantile mi faceva trasformare un vecchio palazzo, poco importa se decadente o solo in apparenza restaurato, in un tappeto… volante.
Un’astronave di pietra.
Quella che mi riportava dai miei amici, dove ci s’incontrava per giocare, oltre la città, al crocevia di un bivio. Il pallone volava e tornava sempre, anche se finiva spesso oltre la ringhiera di una villa misteriosa. Sapevamo come fare, sapevamo andare a prenderlo. Sapevamo ricominciare la partita, che per noi non finiva mai. Se non con la sera che, del resto, mai mancava all’appuntamento.
E mai, ancora, mancherà. Almeno fino a quando il mondo potrà accoglierci.