I festival di musica estivi esistono da sempre. E da sempre privilegiano le ridenti località di villeggiatura, e una programmazione “estiva”, cioè prevalentemente focalizzata sul repertorio classico più noto, anche disimpegnata e destinata al grande pubblico. Ma non è sempre così. Intanto si moltiplicano i festival tematici, quelli incentrati su un particolare repertorio e sulla riscoperta di musiche rare. Poi aumenta la presenza dei «composer in residence», i compositori che vengono invitati come ospiti d’onore, e ai quali vengono spesso commissionati nuovi lavori da eseguire in prima mondiale nell’ambito della rassegna.

È il caso del Festival Messiaen che quest’anno ha ospitato due compositori inglesi, George Benjamin e Alexander Goehr. Il festival si tiene, dal 1998, nel piccolo villaggio della Grave nelle Alpi francesi, di fronte al monumentale ghiacciaio della Meije, che troneggia sulla vallata dall’alto dei suoi 3983 metri. Luogo molto amato da Olivier Messiaen, testimonia il profondo legame, mistico e creativo, del compositore francese con la natura, con la montagna, con quel ghiacciaio che descrisse come un paesaggio terribile e puro, bello e selvaggio, possente e solenne. Alla Grave vivono non più di 500 persone, d’estate è meta dei turisti della montagna, di giovani appassionati di trekking e mountain bike. Ma nel periodo del festival attira anche un pubblico di appassionati di musica, che vengono da tutta la Francia, e che si stipano letteralmente nelle piccole chiese di montagna dove si tengono i concerti. Un’accoglienza molto calorosa è stata riservata ai due compositori inglesi, di due generazioni diverse, entrambi allievi di Olivier Messiaen al Conservatorio di Parigi, Goehr nel 1955-56, Benjamin nel 1977-78. Un ampio risalto ha avuto la produzione pianistica di George Benjamin (compositore nato nel 1960, che è stato anche allievo di Goehr, e che ha ottenuto un grandissimo successo in quest’ultima stagione con la sua nuova opera Written on skin). Con la sua musica per pianoforte si sono cimentati François-Frédéric Guy, Markus Bellheim, vincitore del Concorso Messiaen nel 2000, Florent Boffart, che è stato allievo di Yvonne Loriod. Boffart (che nel suo concerto ha eseguito anche, con grande personalità la Suite op.25 di Schönberg, i Valses nobles et sentimentales di Ravel, Cloches d’adieu et un sourire, composto da Tristan Murail come un omaggio a Messiaen) ha suonato Shadowlines, una suite di brevi canoni dal carattere assi diverso, pieni di figure plastiche, di giochi ritmici, che Benjamin è riuscito a montare in un preciso percorso drammatico. Un carattere nettamente virtuosistico dimostravano invece i tre Studi (Fantasy on a Iambic Rhythm, Mediation on Haydn’s name, Relativy Rag) interpretati da François-Frédéric Guy, che insieme a Boffard ha anche suonato un piccolo pezzo a quattro mani, Four, dominato da una delicata vena melodica. La fantasia, l’abilità incantatoria della scrittura pianistica di Benjamin emergeva poi in Sortilèges, pezzo del 1981 affidato alle cure di Markus Bellheim, che ne ha sottolineato i contrasti di colore, i gesti esplosivi, le sospensioni improvvise  (nello stesso concerto il pianista tedesco ha anche eseguito alcuni brani dal sesto e dal settimo libro del Catalogue d’oiseaux di Messiaen).
Appuntamento clou del festival era però l’esecuzione (in forma di concerto) della prima opera teatrale di Benjamin, Into the little Hill, che è stata diretta dallo stesso compositore, sul podio della London Sinfonietta nella più sontuosa cornice della Collégiale de Briançon. Eseguita per la prima volta nel 2006 al Festival d’Automne di Parigi, Into the little Hill è una fiaba lirica, e amara, per soprano, contralto e 15 strumenti, nata dalla collaborazione col drammaturgo britannico Martin Crimp (che ha poi scritto anche il libretto di Written on Skin), una variante della fiaba del Pifferaio di Hamelin, ma con chiare allusioni ai nostri tempi, che racconta di un paese invaso dai topi, di un ministro disposto a tutto pur di assicurarsi una rielezione, della misteriosa scomparsa di bambini, compresa la figlia del ministro. Benjamin ha creato una drammaturgia a metà strada tra l’oratorio e l’opera da camera, una partitura compatta, di straordinaria intensità espressiva, dal raffinato gusto timbrico, piena di colori insoliti (del flauto basso, del corno di bassetto, del clarinetto contrabbasso, del cimbalom), che alternava moneti onirici, sospesi, con ritmi incalzanti e improvvise esplosioni. La scrittura vocale coglieva la forza poetica della parola, come in un’opera di Monteverdi, e affidava tutti i ruoli (compreso quello della folla inferocita) a sole due voci: a un soprano (Hila Plitmann, cantante israeliana di grande carattere e personalità) era affidato il canto acrobatico e acutissimo della Straniero (che proponeva al ministro di derattizzare il paese con la musica) e il ruolo della figlia del ministro; a un contralto (Susan Bickley) la parte del ministro, di sua moglie, e anche la voce narrante, che si dipanava con la stessa forza emotiva che ha l’Evangelista in un passione bachiana.

A proposito di Benjamin
Benjamin è un compositore che ha sempre saputo giocare abilmente con il timbro e con l’armonia, ma ha sempre evitato la pura seduzione delle trame variopinte e caleidoscopiche. Ha messo invece questa sua abilità al servizio di un’idea profondamente drammatica della musica. Ne era un esempio At First Light (1982), eseguito nello stesso concerto della London Sinfonietta. Benjamin ha tratto l’ispirazione da un dipinto di Turner, Norham Castle, Sunrise («una contemplazione dell’alba, una celebrazione dei colori e dei rumori dell’alba») per creare un percorso narrativo pieno di effetti rumoristici, di glissati, di gesti violenti, di sonorità spettrali. La forza evocativa della sua musica emergeva anche in Upon Silence, per mezzosoprano (Emilie Renard) e cinque viole da gamba: pezzo dal fascino arcaico, basato su The Long Legged Fly di Yeats, fatto di arabeschi avvolgenti e mobilissimi delle viole, sui quali si distendeva la voce del mezzosoprano Emilie Renard. L’ottimo Ensemble de Violes de Gambes Sit Fast ha eseguito anche Tratti-Ritratto, pezzo commissionato dal Festival alla francese Caroline Marçot, e concepito come una serie miniature molto intimistiche, dalla scrittura varia e delicata; e 3 Sonnets and 2 Fantasias op.68 di Goehr, per controtenore (l’ottimo Pascal Bertin) e viole, che metteva insieme piccole pagine dal carattere celebrativo, scritte su sonetti di Shakespeare, in uno stile arcaizzante, ma con temi plastici e morbide linee vocali. Scelta non stupefacente per un compositore che ha studiato a fondo i trattati di Carl Philip Emanuel Bach e la musica di Monteverdi, e ha composto nello stile della “prima prattica” monteverdiana la sua opera Arianna (1995) usando lo stesso libretto di Ottavio Rinuccini usato da Monteverdi. Goehr è un compositore eclettico che ha saputo mescolare l’eredità di Schönberg con elementi della polifonia rinascimentale, le teorie di Messiaen con forme classiche e barocche. Nato a Berlino nel 1932, figlio del direttore d’orchestra Walter Goehr (che fu allievo di Schönberg), allievo di Richard Hall a Manchester (dove ha formato il New Music Manchester Group insieme a Birtwistle, Maxwell Davies e John Ogdon), a lungo docente di composizione a Cambridge, ha sviluppato un idioma contrappuntistico e drammatico, che rimanda alla scuola di Vienna, ma pieno di freschezza e di fantasia. Lo ha dimostrato anche Since Brass, nor Stone…, pezzo del 2008 per quartetto d’archi e percussioni (recentemente anche inciso dalla NMC D187) eseguito nel concerto di chiusura del festival dai giovani, talentosi – e un po’ invasati – musicisti del Carducci String Quartet, insieme al Quatuor di Ravel e a Mishima di Philip Glass. Dedicato alla memoria di Pavel Haas, questo lavoro prende spunto dai primi versi del sonetto n.65 di Shakespeare («Since Brass, nor Stone, nor earth nor boundless sea»), che suggerivano un sofisticato timbrico, dove ogni disegno degli archi era “colorato”, o contrappuntato da qualche effetto delle percussioni (affidate all’ottimo Owen Gunnell), e intessuto di brevi squarci lirici, fino alla conclusione un po’ sospesa, come un punto interrogativo.

Krzysztof sui Pirenei
Prades è una piccola città sul versante francese dei Pirenei, ai piedi del Canigou. Lì il grande violoncellista spagnolo Pablo Casals si trasferì per fuggire dalla dittatura franchista. E lì, nel 1950, fondò un festival al quale invitò musicisti del calibro di Clara Haskil, Joseph Szigeti, Rudolf Serkin, Isaac Stern. Ora il festival Pablo Casals, forte della sua lunga tradizione, è una grande rassegna internazionale, diretta dal clarinettista Michel Lethiec, votata alla musica da camera (soprattutto alla letteratura per violoncello) e alla riscoperta di repertori rari, e sede di un’importante accademia estiva per giovani musicisti provenienti da tutto il mondo. Quest’anno c’erano in programma 36 concerti (in gran parte tenuti nella splendida Abbazia romanica di Saint-Michel di Cuxa, da poco restaurata, e nella chiesa parrocchiale di Saint-Pierre a Prades, che risale all’XI secolo e che conserva il più grande retablo barocco di tutta la Francia), ma anche proiezioni, incontri e conferenze, con lo scrittore Daniel Rondeau, col musicologo Harri Halbreich, e con il “Compositeur en résidence” Krzystof Penderecki, che festeggiava quest’anno il suo ottantesimo compleanno. Del compositore polacco si è vista una versione filmata dell’opera I Diavoli di Loudun e si sono ascoltati alcuni dei suoi più recenti lavori cameristici, caratterizzati da un linguaggio neotonale e rivolto alla musica del passato («nei decenni ho cercato e scoperto nuove sonorità, studiando le forme, gli stili le armonie del passato»): il Quintetto per archi con contrabbasso (del 2012), il Quartetto per clarinetto ed archi (del 1993), dall’eloquio schubertiano e carico di nostalgia, il Sestetto per violino, viola, violoncello, pianoforte, clarinetto e corno (del 2000), il Divertimento per violoncello solo (iniziato nel 1994, e portato a termine quest’anno). Quest’ultimo lavoro era concepito come una suite in nove movimenti (di cui tre in prima esecuzione mondiale), dove si mescolavano la stilizzazione di forme antiche, le movenze di danza, una scrittura assai impegnativa per il solista, che pure non andava mai oltre le tecniche tradizionali, un grande eloquio espressivo, messo in risalto nell’esecuzione del violoncellista finlandese Artos Noras. Noras ha poi preso parte anche all’esecuzione del Sestetto di Penderecki, insieme a Lethiec, al violinista Christian Altenburger, al violista Paul Coletti, al pianista Jean-Claude Vanden Eynden, al cornista André Cazalet: è emersa la forza ritmica e selvaggia del primo movimento (Allegro moderato), punteggiato da disegni ribattuti, urti violenti, scale all’unisono come grandi cascate di suono; e il melodizzare intenso del secondo movimento (Larghetto), dominato dalla trenodia del violoncello, a tratti anche un po’ sdolcinata. Nello stesso concerto si sono ascoltati anche il Trio op.67 di Shostakovich e la bella Sonata per violoncello e pianoforte op.65 di Benjamin Britten, affidata al violoncellista Frans Helmerson che ne ha dato un’esecuzione morbida, attenta alle sfumature, alle sottili dissonanze, capace di passare con estrema duttilità dal fitto dialogo del primo movimento (Allegro), ai ritmi martellanti del quarto (Marcia), al moto perpetuo del finale. Helmerson, insieme al violinista Gérard Poulet e al violista Bruno Pasquier, ha suonato anche il Trio «Le Chimay» di Eugène Ysaÿe (composto nel 1927 ma pubblicato postumo solo nel 1970), piccolo capolavoro di rarissima esecuzione, seducente per la sua densa scrittura polifonica, piena di imitazioni e di fugati, e per le sue originali contorsioni armoniche che ricordavano il primo Schönberg. Una bella scoperta per il pubblico è stata anche la musica da camera spagnola: di Juan Crisóstomo de Arriaga (compositore basco che fu allievo anche di Cherubini e che morì di tubercolosi a soli 20 anni) del quale è stato eseguito terzo Quartetto per archi, dalla struttura classica ma con un particolare gusto per le modulazioni, e per i momenti cupi e carichi di inquietudine; di Joaquin Turina, presente con la Serenata op.87, piena di effetti coloristici, tremoli sul ponticello, squarci lirici, e qualche svenevolezza; di Joan Guinjoan (compostiore catalano nato nel 1931 e celebre per la sua opera Gaudí, messa in scena a Barcellona nel 2003), di scui si è ascoltato Anniversari (1993), breve e delizioso pezzo di circostanza per violino e violoncello, fragile e rarefatto, costruito solo con armonici, e ottimamente interpretato da due promettenti allievi dell’accademia, i fratelli Joseph e Justine Métral.


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Il Festival di Lucerna ha celebrato quest’anno i suoi 75 anni, con un cartellone ricco di novità. Si festeggiavano anche i dieci anni dell’orchestra del Festival e della sua Accademia, e ovviamente il bicentenario wagneriano, con la prima esecuzione completa del Ring in forma di concerto, diretta da Jonathan Nott sul podio dei Bamberger Symphoniker. Poi certo c’era Claudio Abbado, che ha inaugurato la rassegna con la “sua” orchestra del Festival, imprimendo all’Ouverture Tragica di Brahms sonorità dense e vellutate, e all’Eroica di Beethoven una straordinaria energia ritmica, ma anche un’infinità di sfumature dinamiche, repentini cambi di colore, una grande purezza di linee nel finale. La trasparenza del suono, nonostante il gigantesco organico orchestrale, caratterizzava anche la sua lettura di due brani tratti dai Gurrelieder di Schönberg (anche qui c’era una ricorrenza centenaria, visto che la loro prima esecuzione risale al 1913): l’interludio orchestrale e il successivo Lied der Waldtaube, affidato al mezzosoprano giapponese Mihoko Fujimura, voce elegante e raffinata, ma con un colore drammatico e wagneriano. A Lucerna quest’anno c’era anche Barenboim con la sua West-Easter Divan Orchestra, che ha reso omaggio a Verdi e Wagner con una serie di ouverures, ha diretto la Settima di Beethoven, accentuandone i contrasti dinamici e ritmici (con qualche gigioneria di troppo). Ha offerto una lettura musicalissima del Kammerkonzert di Berg, ormai un classico, con il giovane e talentoso violinista Michael Baremboim (primo violino dell’orchestra e suo figlio) e il pianista giordano Karim Said (imparentato con Edward Said, il noto scrittore palestinese co-fondatore nel 1999 della WEDO).

Da Lucerna con passione
Ma a farla da padrone era il repertorio contemporaneo. Lo stesso Baremboim ha diretto due nuovi pezzi commissionati dal Festival a due compositori che simbolicamente rappresentavano le due anime dell’orchestra: il compositore giordano Saed Haddad, e l’israeliana Chaya Czernowin. Musicista precoce, ora residente in Germania, Haddad è nato nel 1972, ha studiato filosofia a Leuven, si è diplomato in composizione all’Università di Gerusalemme, ha quindi conseguito un Ph.D.in composizione al King’s College di Londra sotto la guida di George Benjamin, e ha frequentato diversi corsi di perfezionamento, con Louis Andriessen, Helmut Lachenmann, Pascal Dusapin. Il suo lavoro intitolato Que la lumière soit era un pezzo da carattere tematico e molto discorsivo, un concerto per tromba, trombone vibrafono e orchestra, con i due ottoni chiamati a cambiare in continuazione tipo di sordina e il vibrafono che restava un po’ sullo sfondo,  con un ruolo più che altro coloristico. Assai più interessante At the Fringe of Our Gaze della Czernowin, che era anche composer-in-residence del festival di Lucerna. Nata a Haifa nel 1957, formatasi musicalmente prima in Israele, poi in Germania, in Austria, in Giappone e negli Stati Uniti, è stata allieva di compositori importanti ma assai diversi tra loro, come Dieter Schnebel, Brian Ferneyhough e Roger Reynolds. Docente di composizione a San Diego, a Vienna, a Göteborg, a Seoul, a Stoccarda, all’Università di Harvard, scrive una musica a volte spoglia ma violenta, tendenzialmente espressionistica, piena di mistero («Voglio comporre solo qualcosa a me incomprensibile, a me sconosciuto»), che mescola insieme elementi di tradizioni musicali diverse («La cosa più viva in verità non è quella più piatta, non è il luogo dove ci si sente sicuri e protetti. La vivacità la trovo nell’intensità della vita, ed è quello spazio che esigo, o meglio, che ho sempre bisogno di ritrovare»). Una musica che resta mattietti bissempre intimamente drammatica anche quando cerca di dare fluidità alla materia sonora, di esplorare le forme della metamorfosi (come in Maim del 2001). At the Fringe of Our Gaze (ai margini del nostro sguardo) – eseguito quest’estate anche al Festival di Salisburgo – era un lavoro in un unico, esteso movimento che chiamava in causa un grande organico orchestrale e sei strumenti in funzione concertante (trio d’archi, clarinetto, pianoforte e percussione). Prendeva avvio da materiali musicali molto connotati, episodi di carattere sinfonico che, pur non essendo delle vere e proprie citazioni, evocavano il mondo di armonico, timbrico e melodico di Mahler, Berg e Strauss. Questa materia sinfonica veniva quindi sottoposta a una sorta di “peeling” musicale, per svelarne le correnti sotterranee che la muovevano, i processi più astratti che agivano sotto la sua superficie. Ne risultava una osmosi di elementi dinamici e statici, di strutture fluide e altre petrose. Un gioco ambiguo di frammenti sinfonici che si alternavano e si confondevano con zone puramente bruitistiche, effetti del pianoforte sulla cordiera, filamenti solistici, brontolii delle percussioni, glissati degli archi che si percepivano alla fine come un’eco lontana. Il festival ha esplorato la produzione della compositrice israeliana lungo un quarto di secolo della sua carriera, con l’esecuzione di Sheva per ensemble, dell’ottetto Anea Crystal, di fardanceCLOSE per pianoforte, del nonetto Afatsim,di Kreuzung per sassofono, contrabasso e fisarmonica, di Manoalchadia per flauto basso e due voci femminili, di Sahaf per sassofono, chitarra elettrica, pianoforte e batteria, del recentissimo Slow Summer Stay No 2: Lakes, della prima mondiale di White Wind Waiting per chitarra e orchestra, esecuzione affidata a Stephan Schmidt e all’Orchestra del SWR diretta da François-Xavier Roth. In collaborazione col Teatro di Lucerna, è stata messa in scena (da David Hermann) l’opera da camera in tre atti Pnima…ins Innere (1999), lavoro teatrale tratto da un testo di David Grossman, che evocava l’esperienza traumatica dell‘olocausto attraverso un linguaggio duro e di grande impatto drammatico. Come un’opera compressa in pochi minuiti, e con una precisa drammaturgia, è stato pensato anche Lovesong, lavoro per ensemble del 2010. In questo pezzo «è sempre presente una piccola melodia, molto fragile, che appare periodicamente, e viene sistematicamente interrotta da tagli improvvisi, molto violenti»: all’interno della scabra trama strumentale, questa melodia esprime la fragilità dell’amore, che continua a crescere nonostante tutto, nonostante gli eventi esterni che la frammentano, che cercano di soffocarla. L’esecuzione era affidata all’Ensemble Intercontemporain e alla bacchetta del giovane, bravissimo Nicholas Collon, che ha diretto anche Mémoriale di Boulez, In Broken Images di Birtwistle, Les Adieux di Cerha, e un travolgente Gejagte Form di Rihm. Abilissimo a trascinare il pubblico è stato anche il percussionista austriaco Martin Grubinger, invitato tra gli «artistes étoiles» del festival, con il suo The Percussive Planet Ensemble, ed esibitosi in due spettacolari pezzi di Xenakis, Okho e Plëiades, e nella Sonata per due pianoforti e percussioni di Bartók, insieme alle gemelle Ferhan e Ferzan Önder. Percussionista di formazione, oltre che jazzista, era anche Michael Wertmüller, autore dell’operina Anschlag, scritta su libretto di Lukas Bärfuss: una serie di scenette prive di relazioni tra loro, basate su spunti letterari e filosofici tratti di Rousseau. La partitura era destinata a un piccolo gruppo strumentale, formato da un quartetto d’archi, batteria, basso elettrico e organo Hammond, a una voce recitante (Karl-Heinz Brandt) e a tre voci femminili (Anne-May Krüger, Clara Meloni, Ruth Rosenfeld) che si muovevano, con grande impegno fisico, su una lunga pedana che divideva in due la platea. Musica eclettica, un po’ minimal, con qualche squarcio lirico, non molto raffinata. Eppure anche questo spettacolo riusciva a catturare il pubblico, che ha tributato ad Anshlag calorosi applausi.

Brett nel parco
Il festival di Grafenegg, a due passi da Vienna, esiste da pochi anni, ma ha già raggiunto una fama internazionale e un grande successo presso il pubblico austriaco, con la sua studiata miscela di grandi solisti, star del podio, e una programmazione abbastanza ricercata. Il festival è nato dalla volontà della viennese Tonkünstler-Orchester di dotarsi di una residenza estiva, sul modello della Boston Symphony con Tanglewood, dall’interesse del governo della Bassa Austria di potenziare il turismo nella regione, dalla disponibilità della famiglia aristocratica dei Metternich di trasformare il grande parco del castello di Grafenegg in una meta musicale. Così in quel parco è sorto nel 2007 un anfiteatro all’aperto, sovrastato da una torre in stile moderno, che spunta come uno strano totem accanto al castello (e che ricorda un po’ il progetto di Vladimir Tatlin per un monumento alla terza internazionale comunista); e qualche anno dopo è stato inaugurato un nuovo auditorium, accanto al vecchio maneggio del castello, già trasformato in sala da concerto. Ogni anno il Festival di Grafenegg ha il suo composer-in-residence. Quest’anno è toccato all’australiano Brett Dean. La sua attività di compositore nasce in modo piuttosto anomalo rispetto  quella di molti suoi colleghi, perché si intreccia con una lunga carriera da violista che lo ha portato, dopo gli iniziali  studi a Brisbane, a trasferirsi in Gerrmania nel 1984, a suonare per 15 anni nell’orchestra dei Berliner Philharmoniker, a intraprendere una intensa attività come solista, come membro di ensemble cameristici, e poi anche come direttore d’orchestra (sul podio di molte formazioni votate alla musica contemporanea come la Netherlands Chamber Orchestra, l’Australian Chamber Orchestra, Scharoun Ensemble, il Birmingham Contemporary Music Group). Contemporaneamente Dean ha cominciato a dedicarsi alla composizione, inizialmente lavorando con la musica per il cinema e per la radio. Ha ottenuto i suoi primi successi (e riconoscimenti ufficiali) nella seconda metà degli anni Novanta, con il concerto per clarinetto Ariel’s Music (1995), con il quintetto con pianoforte Voices of Angels (1996), con Twelve Angry Men (1996) per 12 violoncelli, con Carlo (1997), originale lavoro per archi, campionatore e nastro, ispirata alla musica di Carlo Gesualdo da Venosa, e che ha già avuto una cinquantina di esecuzioni. Nel 2000 Dean è ritornato in Australia per dedicarsi esclusivamente alla carriera compositiva, e ha dato alla luce alcune pagine orchestrali, concertanti, corali, che hanno catturato l’attenzione di Simon Rattle, Markus Stenz e Daniel Harding. Si tratta di Cerimonial (2003), del Concerto per viola (2004), che ha interpretato lui stesso con la BBC Symphony, di Vexations and Devotions (2005) per soli, coro e orchestra, di Komarov’s Fall (2006), partitura commissionata dai Berliner Philharmoniker per il progetto “Ad Astra”, nato con l’idea di ampliare la suite The Planets di Gustav Holst. Le composizioni di Dean nascono da suggestioni di tipo letterario (le poesie di e.e. cummings usate in Winter Songs, per tenore e quintetto di fiati; i testi di indigeni australiani su cui si basa Tracks and Traces, per coro di voci bianche), si ispirano ai dipinti della moglie, l’artista Heather Betts, riflettono, come in Carlo, una certa nostalgia per la musica del passato, si connotano per un esplicito impegno politico e sociale (come dimostrano i temi ambientalistici presenti in Water Music e in Pastoral Symphony), talvolta legato a eventi drammatici della storia contemporanea. Ne era un esempio proprio Komarov’s Fall, che è stato eseguito da una delle orchestre ospiti, la Pittsburgh Symphony Orchestra, diretta da Manfred Honeck. Il pezzo si ispirava dalla tragica fine del cosmonauta sovietico Vladimir Michajlovič Komarov che morì durante un atterraggio di emergenza della Sojuz 1 nel 1967. Una denuncia contro la propaganda politica che, in quel caso, decise di mandare in orbita una navicella non collaudata in tutte le sue parti, per competere con gli americani nella corsa allo spazio, e per far coincidere la data del lancio con l’anniversario della nascita di Lenin. Il risultato era un vero poema sinfonico dello spazio, dall’intonazione tragica (e molto teatrale), fatto di suoni acuti e siderali, rapidi crescendo, figure ritmiche inquiete (che Dean ha ricavato dalle registrazioni delle convulse conversazioni di Komarov con la base), con una breve sezione lirica nella parte centrale (ispirata alle parole rivolte all’astronauta dalla moglie Valentina), e un grande accumulo di tensione nel finale, che sfociava in una violenta esplosione orchestrale, seguita da suoni rarefatti, come dei relitti. Nello stesso concerto Honeck ha diretto anche la Quinta di Shostakovich, sfoggiando i brillanti ottoni dell’orchestra statunitense, e il Concerto per pianoforte n.1 di Čajkovskij, affiancato da una star della tastiera come Yuja Wang, che sgranava tutte le note con estrema precisione, usando il pedale con parsimonia, più interessata ai giochi ritmici che alle effusioni liriche. Insomma una lettura davvero fuori dal comune.

mattietti terA due passi da Vienna
A Grafenegg si è molto ammirato anche il direttore finlandese John Storgårds, che sul podio della Tonkünstler-Orchester, ha dimostrato la sua grande maturazione nel repertorio sinfonico tedesco, dirigendo con slancio drammatico, estrema cura delle sfumature dinamiche, grande elasticità, la Leonore n.3 di Beethoven e la Prima Sinfonia di Brahms. Molto accurata anche la sua lettura del nuovo pezzo di Brett Dean, il concerto per tromba e orchestra «Dramatis Personae», interpretato da un autentico virtuoso come Håkan Hardenberger. La parte solistica aveva il ruolo di vero e proprio personaggio che si confrontava con la massa dell’orchestra, e la struttura complessiva del pezzo assomigliava a una specie di Heldeleben dei nostri giorni. Descriveva le gesta di un supereroe da fumetti (nel primo movimento, dove i delicati giochi delle percussioni via via che si amplificavano intrecciandosi con i disegni frastagliati della tromba), l’eroe da solo con i suoi pensieri (nel secondo movimento intitolato Soliloquy, caratterizzato da una trama orchestrale sospesa, come un grande cluster fatto di linee statiche dei fiati, lenti glissati degli archi, lunghi suoni della tromba con sordina), gli aspetti accidentali dell’eroismo, raccontati nella trama brulicante e stratificata del finale, punteggiata da termini di bande e di grottesche marcette (questo movimento, intitolato The Accidental Revolutionary, prendeva spunto da una scena del film Tempi Moderni: l’episodio nel quale Charlie Chaplin raccoglie una bandiera di segnalazione caduta da un mezzo in transito, e diventa involontariamente il leader di un corteo di operai). Insomma un lavoro ancora ben scritto, nello stile del poema sinfonico, ma con una parte orchestrale assai più interessante rispetto a quella riservata al solista, piuttosto monotona, prevedibile, che giocava solo su linee melodiche e su una forsennata alternanza di sordine.
Tra gli altri grandi solisti presenti nel cartellone del festival, c’era Anne Sophie Mutter, che ha eseguito il Concerto di Dvorák, con grande eleganza ed espressività, nonostante qualche eccesso di languidezza nel finale. C’era Rudolf Buchbinder, direttore artistico del festival, che si è esibito insieme a Valery Gergiev e all’Orchestra del Mariinskij nella spettacolare Rapsodia su un tema di Paganini op.43 di Sergej Rachmaninov. C’era Diana Damrau (nel collaudato duo con l’arpista Xavier de Maistre) che ha sfoggiato la sua voce insieme pura e di grande intensità drammatica, nel tradizionale repertorio liederistico di Schubert (Ständchen, Du bist die Ruh, Gretchen am Spinnrade, An die Musik) e di Strauss (Efeu, Schlagende Herzen, Nichts, Wiegenlied, Beim Schlafengehen). Ma si è anche cimentata con successo nel repertorio francese, che ha svelato al pubblico le originali soluzioni armoniche di Reynaldo Hahn (Si mes vers avaient des ailes, L’heure exquise), le magiche atmosfere di Henri Duparc (Chanson triste, L’invitation au voyage), le audaci tessiture di Ernest Chausson (Le colibri, Le temps des lilas, La cigale), lo humour dell’ammiccante, virtuosistica Villanelle della belga Eva Dell’Acqua. Il soprano Claudia Barainsky si è invece esibita in alcuni Lieder dallo Spanische Liederbuch di Hugo Wolf, e ancora in un lavoro di Brett Dean, ispirato proprio al compositore austriaco. Wolf-Lieder per soprano e ensemble da camera, in cinque movimenti, è infatti concepito come un’esplorazione della follia di Wolf, attraverso delle parafrasi della sua musica. I movimenti estremi erano basati sulle parti vocali di due Lieder dello Spanische Liederbuch, immersi in una straniante atmosfera armonica, come una gelatina sonora, densa e dissonante. I tre movimenti centrali (che si basavano rispettivamente su una lettera dello stesso Wolf, su una descrizione scientifica della sua malattia mentale, su una poesia di Charles Bukovsky) narravano invece lo stato di salute mentale del compositore, attraverso una scrittura inquieta, espressionistica, allucinata, che faceva ricorso anche allo Sprechgesang.

I nodi di Misato a Besançon
Fondato nel 1948, il Festival internazionale di Besançon è una delle rassegne musicali più antiche d’Europa. Sin dalle sue prime edizioni (quando si poteva assistere a un concerto diretto da Wilhelm Furtwängler o a uno spettacolo del balletto africano di Keita Fodeba), il Festival ha affiancato programmi tradizionali e sperimentali, aprendosi al pubblico attraverso una grande quantità di progetti divulgativi e didattici, offrendo un ampio panorama della musica da camera, dalla musica del XX secolo, ma soprattutto del repertorio orchestrale. Ha infatti ospitato i grandi nomi del podio, da Cluytens, a Schuricht, Markevitch, Kubelik, Maazel, Dutoit, e ha consolidato questa tradizione sinfonica nel 1951, con la creazione del concorso per giovani direttori d’orchestra, che si è presto affermato come uno dei concorsi più importanti nel mondo. E lo dimostra la carriera internazionale di molti direttori che da questo concorso hanno mosso i primi passi, come Gerd Albrecht (che quest’anno era invitato come “artista associato” con la funzione di elaborare il programma e di presiedere la giuria del concorso), Seiji Ozawa, Michel Plasson, Zdeněk Mácal, Jesús López Cobos, Sylvain Cambreling, Yoel Levi, Osmo Vänskä. Non un concorso a porte chiuse, ma un evento di grande appeal sul pubblico, che ne segue con passione tutte le fasi, dalle prove eliminatorie alla finale, ed è anche chiamato a votare il proprio direttore preferito: c’è infatti un premio dato dalla giuria internazionale, un premio dell’orchestra, e un premio del pubblico. Quest’anno, per la 53ma edizione, sono stati selezionati venti candidati, di età inferiore ai 35 anni, provenienti da paesi diversi, con una certa predominanza di quelli orientali. In semifinale sono arrivati il tedesco Kiril Stankow, la cinese Kai-Hsi Fan, l’ungherese Huba Hollokoi, il polacco Szymon Makowski e il taiwanese Yao-Yu Wu. E nel concerto finale sono rimasti in tre, il tedesco, l’ungherese e il taiwanese, che hanno diretto lo stesso programma in una serata interminabile, sul podio dell’ottima Orchestre National de Lorraine. E alla fine l’ha spuntata il ventiquattrenne Yao-Yu Wu, che si è accaparrato tutti e tre i premi, conquistandosi anche la simpatia del pubblico per la grande personalità e per il gusto un po’ spettacolare della sua direzione. Il programma comprendeva il primo tempo del Concerto per violino di Brahms (solista Olivier Charlier, che si era fatto ammirare nel festival anche per l’esecuzione intensamente lirica del Concerto per violino di Berg) la suite dall’Uccello di Fuoco di Stravinskij, e un pezzo in prima esecuzione mondiale scritto di Misato Mochizuchi. La compositrice giapponese era quest’anno membro di diritto della giuria e anche composer-in-residence: dal 2004, infatti, il festival commissiona ogni anno un nuovo pezzo a un compositore per incoraggiare la creazione di un repertorio orchestrale contemporaneo (prima della Mochizuchi sono stai invitati Philippe Fénelon, Bruno Mantovani, Édith Canat de Chizy e Michael Jarrell). Il titolo della sua partitura, Musubi II, faceva riferimento a una parola giapponese che significa «il nodo, il legame, la riunione». Lavoro dal carattere meditativo, mirava all’esplorazione del suono dell’orchestra, intorno a una specie di cantus firmus gregoriano, molto semplice, e a un gioco di continue metamorfosi timbriche, colte con grande sensualità dal giovane Tao-Yu Wu, che però si è preso anche un eccesso di libertà rispetto alla partitura. La metrica sempre cangiante (si alternavano misure di 5, 7, 9, 11 tempi) si univa a cambi continui di metronomo, creando un effetto di una materia sonora molto fluttuante. Alle delicatissime sonorità dei due vibrafoni suonati con l’archetto, che aprivano il pezzo, si aggiungevano linee semplici e sommesse degli archi, che poi si espandevano in ampie strutture omoritmiche, si raddensavano in grandi climax. Lasciavano spazio a lunghi episodi ovattati ma sempre carichi di tensione, a figure sorde del clarinetto contrabbasso e del controfagotto, su un tappeto delicatissimo degli archi gravi, a squarci in pianissimo degli ottoni su una trama di lenti glissati degli archi, a un improvviso, isterico assolo del primo violino. Musubi II si concludeva con una coda di grande seduzione timrbica, una trama trascolorante degli archi, che si trasformava gradualmente in un tamburellare quasi impercettibile sulle casse e sulle tastiere degli strumenti.

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