L’indignazione suscitata dal caso Telecom sta assumendo toni incredibilmente generalisti, dal momento in cui tutti, senza distinzione di appartenenza politica o ceto sociale, hanno cercato di mettere in evidenza il proprio personale sconcerto.
Mentre alcuni squilli di tromba appaiono del tutto legittimi, altri sono quantomeno inopportuni, visto che giungono da persone ed istituzioni che sostengono il peso della responsabilità di questa vicenda.
La rabbia dei sindacati, che temono a ragion veduta un calo occupazionale nel Belpaese dettato da una probabile smobilitazione di vecchi apparati e dal trasloco di alcune attività in Spagna, è sicuramente comprensibile, mentre le parole di dirigenti e politici lasciano quantomeno perplessi.
Per comprendere i termini di questa “vergogna” nazionale, come da molti è stata etichettata, occorre riepilogare brevemente la struttura societaria di Telecom, che non è un’azienda di Stato già da diversi anni. Telco, holding finanziaria che detiene la maggioranza relativa delle azioni (oltre il 22%), è già partecipata al 46% dalla spagnola Telefonica, insieme a Generali, Mediobanca ed Intesa San Paolo con quote minori.
La compagnia iberica punta ad acquisire il 66% della holding, assicurandosi in tal modo il controllo sull’intera azienda come primo azionista. Si tratta del ben noto sistema delle scatole cinesi, grazie al quale con l’effettivo possesso del 13-14% del capitale totale si controlla un’azienda enorme. A ben vedere, dunque, sono proprio le citate banche italiane ad aver deciso di cedere parte di questo asset alla compagnia spagnola, motivo per cui un governo può fare ben poco.
Parlare di “svendita”, infatti, è poco appropriato ma soprattutto fuorviante, poiché si lascia intendere che la Telecom sia un bene pubblico quando invece è stato privatizzato da un pezzo. Il prezzo e la convenienza di questa transazione sono determinati dalle condizioni di mercato e dalle scelte strategiche degli investitori coinvolti.
Non esiste, insomma, un disegno internazionale di saccheggio delle nostre ricchezze. Semplicemente, quello italiano è un mercato che attira, per competenze tecniche ed ampiezza dell’utenza, per cui è piuttosto la miopia industriale degli investitori nostrani a consentire l’ingresso di un competitor straniero. D’altra parte, non si può cedere alla rassegnazione spiegando la vicenda Telecom in modo semplicistico, incolpando l’avvento della globalizzazione e del mercato unico europeo.
Inoltre, le colpe non possono ricadere tutte su chi vende, nel caso specifico gli istituti di credito, ma vanno ricercate tra coloro che hanno reso l’azienda inappetibile, in perdita, non economicamente sostenibile: le responsabilità della dirigenza e della politica, in tal senso, sono evidenti.
Quando il presidente Bernabè sostiene di non essere stato a conoscenza di quanto sarebbe poi accaduto, mette in luce tutta la debolezza di una classe dirigente che ormai ha perso il timone della nave.
Non si capisce, infatti, come sia possibile che una notizia del genere non trapeli, non sia anticipata, non venga nemmeno presa in considerazione finché non si materializza.
Il punto, ad ogni modo, non riguarda la natura della mancanza, sia essa dettata da semplice incompetenza o da una strategia ben precisa, poiché lo scenario non cambia e soprattutto non cambiano le colpe ataviche del management di Telecom.
Per decenni l’azienda nazionale delle telecomunicazioni è stata gestita in malo modo, vuoi per il retaggio di impresa pubblica, con le conclamate inefficienze che tale condizione comporta, vuoi per comportamenti più o meno fraudolenti da parte della dirigenza, coinvolta negli anni in diversi scandali.
Telecom, grazie alla gestione della rete, non è mai di fatto uscita da una condizione di fatto monopolista all’interno del mercato e le scelte aziendali ne sono state una conseguenza: scarsi investimenti in ricerca, sistema clientelare di assunzioni, una miriade di contratti di consulenza e di imprese satelliti. La Telecom, dunque, viene svenduta non per compiacere gli spagnoli, ma perché effettivamente oggi vale poco.
La politica, d’altra parte, ha contribuito alla costruzione di questo sistema di gestione non sostenibile, specie in condizioni di libero mercato. In primis, la privatizzazione di Telecom non ha implicato la salvaguardia di alcune attività strategiche a livello nazionale, per cui l’intervento sulla separazione della rete da tutti invocato oggi sarebbe dovuto essere attuato almeno quindici anni fa.
L’allarme del Copasir è sicuramente legittimo, visto che tutte le comunicazioni private, pubbliche e soprattutto militari/diplomatiche passano sulla rete di questo gestore. Tralasciando questo aspetto, per cui forse una pezza è ancora possibile metterla, le colpe della politica riguardano la mancanza di un disegno industriale complessivo e soprattutto l’utilizzo delle grandi compagnie nazionali come bacino di consenso e voti, attraverso rapporti clientelari e la nomina dei dirigenti.
Tale atteggiamento era già poco auspicabile quando la Telecom era partecipata dallo Stato, ma lo è ancora meno nel momento in cui l’azienda deve competere sul mercato. La rilevanza a livello strategico, infatti, non esclude che una compagnia di queste dimensioni deve perseguire il profitto, per finanziarsi e crescere, mentre la Telecom ha avuto negli anni troppe finalità nascoste.
La situazione odierna richiama un’altra vicenda non ancora sopita, quella di Alitalia. Nonostante le notevoli differenze tra i due casi, il tratto comune risiede proprio nell’incompetenza e nel comportamento anti-economico di dirigenza e politica, nel voler sfruttare le compagnie nazionali per perseguire interessi personali o di partito. La famigerata “cordata” di investitori italiani che ha acquisito la maggioranza della compagnia di bandiera, ha tutta l’intenzione di vendere ad AirFrance una volta scaduta la clausola che lo impedisce.
Al contempo, lo Stato di è accollato la “bad company” ripianando buona parte del debito dell’azienda, mentre vendendo subito questo non sarebbe accaduto. Nel caso di Telecom il processo è in uno stadio successivo, poiché si tratta di una transazione diretta tra soci privati, sul quale il governo non potrà intervenire. L’attivazione della “Golden Share”, che consente di mettere forti paletti sulle transazioni se coinvolgono interessi nazionali, non sarà facile da mettere in pratica, essendo stata bocciata dalle autorità di Bruxelles.
Alla luce dei fatti, esiste tuttavia ancora un margine di manovra, quantomeno per limitare i danni. Data la natura dell’azienda, a maggior ragione vista la proprietà della rete, il governo potrà appellarsi alla “Golden Power”, riformulazione della legge precedente e che ad oggi riguarda il settore della difesa, la quale potrebbe consentire almeno di porre una garanzia sui termini del servizio offerto e soprattutto sui livelli occupazionali nel territorio italiano.
La separazione della rete, inoltre, può essere richiesta per legge sulla base delle norme afferenti la libera concorrenza. L’intero processo, prima che sia chiaro il futuro dell’azienda, potrebbe durare mesi, ma nel frattempo sarebbe opportuno interrogarsi sulle responsabilità, esercizio per cui l’Italia non brilla di certo.