La retrocessione dell’Italia tra le seconde linee dell’economia mondiale è ormai un dato acquisito e la questione relativa al commercio dei nostri prodotti ne è un riflesso. La difesa del made in Italy è un concetto sbandierato da ogni formazione politica, indipendentemente dal colore, ma spesso se ne discute senza alcuna cognizione di causa.
L’evidenza dimostra come le aziende italiane incontrino crescenti difficoltà nell’esportare i beni nostrani: la politica, prima di lanciare proclami, dovrebbe interrogarsi sulle cause strutturali di questo fenomeno, nel tentativo di porvi rimedio prima che sia troppo tardi. Lo spazio d’intervento è certamente ristretto in quanto la competitività di un paese dipende in buona parte da fattori esogeni, quali la domanda globale o la politica monetaria, gestita per noi da Francoforte.
I governi, tuttavia, dispongono ancora di diversi strumenti, sia per intervenire sul fronte interno sia per negoziare migliori condizioni legislative nelle sedi internazionali, in primis quelle comunitarie.
Il commercio italiano, dunque, subisce un forte condizionamento da parte di due elementi che caratterizzano lo scenario attuale: la crisi globale e la politica commerciale comunitaria. Sotto il primo aspetto, il calo della domanda mondiale ha ridotto le nostre quote di mercato in molti settori, in quanto il consumatore straniero preferisce acquistare beni relativamente meno costosi, rispetto al “lusso” implicito nei prodotti italiani. Il fenomeno non riguarda solo le “grandi firme”, ma anche il nostro cibo, spesso considerato elitario rispetto a prodotti più convenienti, forniti dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo.
Il problema, dunque, riguarda la competitività delle imprese, scarsa per via dei mancati investimenti innovativi e dell’incapacità politica di creare condizioni produttive favorevoli, ad esempio in termini di infrastrutture e tassazione. La qualità dei nostri prodotti, dunque, non è sempre un valore aggiunto, poiché il consumatore non informato non riesce a cogliere la differenza con quelli a basso costo. Occorre poi rilevare che la crisi ha colpito i consumatori più ricchi, come gli USA, mentre i paesi emergenti stentano nel lanciare la domanda interna e forse non ne hanno alcuna intenzione, poiché l’inevitabile apprezzamento della moneta inciderebbe sulla competitività, rendendo i loro prodotti più costosi.

La politica commerciale comunitaria dovrebbe rappresentare lo strumento attraverso cui far emergere le potenzialità del commercio, sfruttando in primo luogo il libero scambio vigente nel vecchio continente.
L’Unione europea esercita le sue prerogative principalmente in due macro-livelli: la produzione interna, attraverso l’adozione di norme sul ciclo e l’imposizione di requisiti minimi in termini di qualità del prodotto; l’importazione di prodotti da paesi terzi, soggetti da un lato ai vincoli di conformità qualitativa e dall’altro al sistema dei dazi doganali, volti a proteggere i produttori europei dai prezzi estremamente bassi, caratteristici dell’offerta dei paesi in via di sviluppo.
I concetti chiave per proteggere il Made in Italy sono “qualità” e “provenienza”, citati all’interno di regolamenti e direttive europee senza una vera e propria attribuzione di significato univoco. La scelta di non intervenire con decisione non è certo casuale, ma va inquadrata nel più ampio spettro delle norme a difesa della concorrenza ed in particolare del libero scambio delle merci.
L’attribuzione di uno status “speciale” per alcuni prodotti locali, infatti, è considerata come un pericolo nei confronti del libero mercato, poiché chi è in grado di produrre un bene qualitativamente accettabile deve avere la libertà di immetterlo sul mercato alle stesse condizioni, indipendentemente dal luogo di origine. La sottile differenza tra “commestibile” e “buono”, nel settore alimentare, rappresenta il fulcro del problema. Sotto tale aspetto la questione delle etichette è fondamentale, perché solo l’informazione al consumatore garantisce la consapevolezza delle scelte.

La normativa europea può dunque trasformarsi in un’arma a doppio taglio, che invece di favorire le produzioni di qualità rischia di incentivare un pericoloso livellamento vero il basso, mancando di affrontare con decisione i nodi delle etichette e dell’approvvigionamento delle materie prime, rilevante soprattutto nel settore alimentare. Nell’ambito della ridefinizione della politica commerciale europea, il legislatore comunitario ha definitivamente incluso la questione dell’origine nel Codice Doganale Comunitario aggiornato.
La principale criticità del nuovo testo riguarda l’assenza di requisiti specifici per i prodotti alimentari, applicando al concetto di provenienza geografica un generico riferimento alle «merci interamente ottenute in un paese». Il vuoto normativo così delineato lascia ampio spazio a pratiche ingannevoli, laddove non è richiesto esplicitamente di riportare in etichetta la provenienza delle materie prime, se non per settori particolari, come nel caso della carne bovina.
A livello nazionale, l’Italia ha promosso negli anni diversi tentativi di protezione del marchio Made in Italy. A partire dal 2003 numerosi provvedimenti sono stati adottati, recanti soprattutto misure in materia di etichette. I risultati, piuttosto scarsi in termini di freno alle imitazioni ed all’utilizzo dell’Italian Sounding, sono stati notevolmente influenzati dall’incompatibilità delle norme previste proprio con la legislazione europea, che in tal senso rappresenta un ostacolo piuttosto che uno strumento di sostegno.
Secondo il diritto internazionale, infatti, è possibile bloccare le merci contraffatte o non conformi ai requisiti previsti solamente alla dogana, non esistendo di fatto il reato di “tentata commercializzazione” di un bene.

Il problema si acuisce nella fattispecie degli scambi interni all’Unione europea, per cui il controllo delle merci è affidato alle autorità competenti dello Stato di origine piuttosto che alle autorità di frontiera. Sul piano delle relazioni internazionali, esiste un rischio crescente che tentativi sempre più stringenti di protezione del mercato da parte dell’Italia si scontrino con le norme europee, essendo etichettati come una sorta di nuovo protezionismo.
Nei decenni scorsi, infatti, si è proceduto in modo sistematico a consentire l’ingresso del maggior numero di beni possibile nei mercati nazionali, incluso quello agroalimentare. Il principio fondante del libero mercato, infatti, è il “mutuo riconoscimento”, secondo cui un bene prodotto legalmente in uno Stato Membro deve poter essere commercializzato all’interno dell’area comunitaria senza alcun vincolo. D’altra parte, l’impulso iniziale provenne proprio da una disputa tra Francia e Germania in merito all’esportazione di un prodotto alimentare, il Cassis de Dijon.
In questo scenario, condizionato dalla crisi e da una latitanza legislativa europea, affinché le esportazioni italiane tornino a crescere è necessario innanzitutto che l’economia globale torni a crescere. Non è dunque possibile trattare le questione del commercio senza tenere in debita considerazione l’intero spettro delle problematiche economiche, quali l’andamento dello spread, le misure fiscali intraprese da Bruxelles, gli incentivi alle piccole e medie imprese.
Occorre poi che l’Europa faccia la sua parte nel riconoscere il diritto dei cittadini alla qualità, problema certamente più sentito in alcuni paesi rispetto ad altri, quantomeno per una questione di cultura e tradizione. Il fatto che le leggi italiane entrino spesso in contrasto con quelle comunitarie non è ammissibile: una legislazione uniforme sulle etichette, sulle regole di provenienza e sulla protezione dei marchi è dunque necessaria, riconsiderando l’impianto normativo, visto che i risultati non sono certo soddisfacenti.
Si tratta di trovare un equilibrio tra l’evidente cambiamento nella struttura produttiva, per cui le materie prime giungono da fuori ed il processo di lavorazione sfugge troppo spesso al controllo qualitativo, e la necessità di proteggere sia i produttori sia i consumatori da pratiche scorrette.

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