È un segno dei tempi. Una volta erano gli uomini a lamentare la mancanza di disponibilità sessuale della propria compagna, mentre adesso, se si esaminano le sentenze, fioccano le domande di risarcimento promosse da donne nei confronti degli uomini per asserita inadeguatezza fisica rispetto le aspettative.

La questione che raccontiamo oggi prende le mosse dalla sentenza di un Tribunale Campano, poi confermata dalla Corte d’Appello, che aveva dichiarato cessati gli effetti civili del matrimonio concordatario contratto tra le parti per “mancata consumazione”, rigettando però la domanda di addebito e di un congruo assegno di mantenimento proposta dalla moglie.
La Corte riteneva che la mancata consumazione del matrimonio fosse da ritenersi provata sia dalla dichiarazione dei coniugi sia dalla dispensa ecclesiastica con successiva autorizzazione a contrarre nuovo matrimonio, nonché dagli accertamenti espletati nel procedimento ecclesiastico.
Rilevava però la Corte di Appello che l’assegno divorzile preteso dalla moglie insoddisfatta era stato legittimamente negato dal Tribunale in considerazione delle buone condizioni economiche degli ex coniugi e che inoltre non potesse pronunciarsi l’addebito, in quanto semplicemente tale istituto non era previsto nella normativa divorzile.

DIVORZIO E MATRIMONIO NON CONSUMATO
Ricordiamo che la legge n° 898/70 al punto f dell’art. 3 ammette il divorzio, (senza passare per il preventivo processo di separazione) allorché “il matrimonio non sia stato consumato”.
Tale previsione, in evidente parallelismo con l’analoga normativa del diritto canonico, appare in realtà, ad una visione civilistica del matrimonio, piuttosto fuori luogo.
Infatti, mentre per la concezione cattolica che vede nell’unione tra coniugi il realizzarsi del fine della procreazione è senza dubbio rilevante il problema dell’unione sessuale, non altrettanto sembra rilevante il problema dal punto di vista del diritto civile e familiare, allorché il matrimonio debba considerarsi un contratto, sia pure un contratto particolarissimo, con una serie di conseguenze giuridiche sul piano patrimoniale, successorio ecc., ma sostanzialmente un’obbligazione vicendevole, non  necessariamente basata sui rapporti fisici, ben potendo i coniugi basare l’unione coniugale anche soltanto sulla comunione spirituale.
D’altra parte l’aver ricompreso tale presupposto tra quelli legittimanti il divorzio, crea tutta una serie di problemi in fondo ben poco calzanti con la concezione moderna del matrimonio civile.
Più volte in dottrina sono state evidenziate le assurdità di tutte le dissertazioni circa il contenuto del concetto di consumazione del matrimonio, su quali particolari tipi di congiunzione carnale diano luogo a “consumazione” del matrimonio e quali no, con ampia descrizione analitica dei vari rapporti fisici e discussioni giuridiche connesse.

LA DIMOSTRAZIONE DELLA MANCATA CONSUMAZIONE
Dunque non sfuggirà l’aspetto quasi comico delle questioni, se non fosse evidentemente penoso per il giudice e per gli interessati procedere ad accertamenti assolutamente personali ed evidentemente sgradevoli.
Tuttavia anche sotto altro profilo appare criticabile la scelta del legislatore, laddove l’aver ricompreso la mancata consumazione del matrimonio come causa di divorzio, sembra anche contrastare con i principi base della concezione giuridica attuale del matrimonio che nulla ha a che vedere con quelli canonici.
È quindi singolare la contraddizione per cui da un lato il matrimonio per il diritto civile può sussistere indipendentemente dall’esistenza di rapporti sessuali, dall’altra la mancanza di questi può essere invocata come causa di divorzio.
Per quanto riguarda l’ammissione e l’espletamento delle prove, va detto che, in un primo periodo, i giudici non ritenevano rilevante  la semplice dichiarazione di entrambi gli interessati circa l’inconsumazione, ma si richiedevano prove precise, peraltro, salvi casi particolari di evidenti difetti fisici o di illibatezza della donna, prove di ben difficile effettuazione.
Attualmente vi è viceversa un’evoluzione nel senso di una maggiore disponibilità.
Per esempio tornando alla nostra delusa sposa, il Tribunale aveva dato per accertata la mancata consumazione sulla base del preventivo procedimento ecclesiastico che aveva accettato le dichiarazione dei coniugi ed aveva concesso la dispensa per contrarre nuovo matrimonio.

LE CONTESTAZIONI SOLLEVATE DALLA MOGLIE
Non soddisfatta della decisione della Corte d’Appello (oltre che del marito), la moglie si rivolgeva alla Corte Suprema, deducendo che il Tribunale non aveva dato ingresso alle richieste istruttorie da lei formulate fin dal giudizio di primo grado, al fine di dimostrare la responsabilità del coniuge nella mancata disponibilità sessuale, ritenendo che se il giudice avesse ammesso i mezzi istruttori il Tribunale avrebbe dovuto procedere all’addebito, con l’obbligo di versarle un assegno.
Per inciso va detto che, diversamente dalle tesi della ricorrente, di norma l’addebito della separazione non comporta automaticamente, né il risarcimento del danno né ipso jure il diritto a percepire un assegno di mantenimento.
Infatti la determinazione del mantenimento da parte di un coniuge nei confronti dell’altro, non è rapportata alla responsabilità del fallimento dell’unione, bensì al fatto di non possedere mezzi adeguati per mantenere il pregresso tenore di vita, ipotesi che nel caso in essere sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato, essendo come detto i coniugi autonomi economicamente.

ADDEBITO – ISTITUTO PREVISTO SOLO IN TEMA DI SEPARAZIONE
La Corte di Cassazione confermava le sentenze precedenti rilevando che, a parte alcune questioni processuali, vi era un punto debole insuperabile nelle tesi difensive della donna ricorrente, e cioè che l’addebito nel nostro sistema giuridico è previsto solo in tema di separazione giudiziale e non anche nel divorzio.
Quindi, in sostanza, una volta che le parti si erano rivolte al Tribunale direttamente con il processo divorzile (avendo prima svolto il procedimento ecclesiastico per l’annullamento), senza richiedere preliminarmente la pronuncia di separazione dei coniugi, non era più  ammissibile in tale sede la richiesta di addebito.
Ciò proprio in quanto la normativa divorzile (legge n° 898/70, n° 74/87, e successive modifiche) prevede soltanto l’accertamento dell’esistenza dei presupposti di legge per il divorzio, mentre per ciò che riguarda i provvedimenti il Tribunale può statuire circa l’affidamento-collocamento dei figli, il diritto di visita, l’assegnazione o meno della casa coniugale e la determinazione del mantenimento per figli e moglie.
Non è tuttavia prevista alcuna pronuncia in tema di addebito che rimane riservata solo al giudice della separazione.
Quanto alla richiesta del mantenimento, nel caso specifico, mancando i presupposti di legge e cioè l’assenza di reddito per la moglie, legittimamente il Tribunale non aveva attribuito alcun assegno a carico del marito.
Dunque il ricorso non poteva che essere dichiarato inammissibile, (Cass. n° 14196/13, depositata il 5 giugno 2013).

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