Una falsa notizia, emblematica di un ciclo che si chiude...

L’estate comincia e la Puglia attira. Da anni, si sa, essa va di moda. Va di moda la sua eleganza, la sua bellezza, la sua furbizia. In questo paese i furbi piacciono, hanno il physique du rôle, anche se la gobba li rende un po’… sinistri.

Anche se i furbi passano e la bruttezza resta. Comunque, come annunciato, il mercato del vento (titolo di questa rubrica) si concentra su questa terra che negli ultimi anni, sul piano culturale, ha dimostrato vitalità.
O meglio ha dimostrato alcune altre cose. Ma andiamo per ordine.

Ne parliamo con Paolo De Cesare, un “personaggio” scomodo e vitale che da anni progetta, commenta, ordisce e svela, muovendosi nel nostro paesaggio culturale come un demone in cerca della sua anima. Da qui, credo, nasce il suo proverbiale e poetico disordine che gli fa confondere in maniera, però molto fertile, Cannes o Locarno con Cisternino, sua città natale, o Alberobello, dove anni fa ha creato la prima film commission pugliese e, credo, tra le primissime in Italia. Non è, infatti, difficile incontrarlo nei (peggiori) festival di cinema europei mentre vaga con aria sperduta quanto decisa, evitando lo star system a favore di atmosfere più destabilizzanti e marginali, nelle quali non solo potersi trovare più a suo agio ma alle quali, forse, domandare della sua anima.

Mi ricorda Dostoevskij, l’avrete capito, come avrete capito che lo conosco da anni. E proprio perché lo conosco da tempo credo che sia la persona più indicata a parlare del paesaggio culturale pugliese. Non tanto perché Paolo De Cesare co-dirige un festival a Cisternino che si chiama Pietre che cantano, ed è ancora il direttore dell’Alberobello Puglia Film Commission, o perché segue attivamente la politica e conosce meccanismi e personaggi, o perché registra da anni (da quando c’è il digitale), con telecamere e registratori sempre più piccoli, tutto quanto emani un odore anche solo vagamente interessante, a tal punto che se lo accompagni devi stare attento a quello che dici se non vuoi fare la fine di Berlusconi (la D’addario gli fa un baffo), ma perché la sua anima spesso lo viene a trovare di notte e gli sussurra cose incomprensibili e oscure, che ogni tanto, poi, affiorano nei suoi strani silenzi.  Un uomo che non ha strani silenzi non nasconde niente al futuro. De Cesare ha un passato, ha degli strani pensieri, ha un’anima, forse, che non riesce a mettere in vendita solo perché al demonio interessa di più la… Puglia. Del resto una masseria in mezzo agli ulivi sarebbe sicuramente più riposante per lui del disordine di De Cesare.
Allora parlaci di questa famosa Puglia…

Tutti si chiedono se in Puglia sta per chiudersi un “ciclo”. Ma quale ciclo? E soprattutto: quando è cominciato? Qual è lo “spartiacque”, l’evento decisivo:’ l’elezione di Vendola del 2005 o l’arrivo della nave Vlora del 1991? Proviamo a fare un esperimento. Cerchiamo di interpretare gli ultimi 20 anni “culturali” non guardandoli dal punto di vista della Cultura, con la C maiuscola, perché troppo “schiacciata”, in Italia aimé, sulle Istituzioni Pubbliche, ma dal punto di vista del “costume”. Più esattamente quei “comportamenti dell’uomo comune” che sembrano, ad una prima lettura, non avere nulla a che fare con le “Politiche Culturali”, ma che producono potentissimi effetti culturali di massa. E quando il fenomeno di costume diventa “dramma e reato” esso esplode mediaticamente in modo talmente intenso da creare modifiche “macro” dell’immaginario collettivo. Prendiamo in esame i tre personaggi che sono stati più di altri i veri fenomeni mediatici più importanti della Puglia, e della Pugliesità, degli ultimi decenni: Niki Vendola – Checco Zalone – Michele Misseri. Si da il caso che Checco Zalone ha avuto il coraggio, o la scaltrezza, di imitare entrambi gli altri due. Quindi Luca Medici, e chi come autore lo sostiene, ha preso sapientemente atto della potente “mediaticità” degli altri due. Ed ha approfittato, nell’imitazione parodistica, della vicinanza antropologica con gli imitati. Certamente non siamo qui a lamentare che Misseri non abbia citato Vendola e Zalone nelle sue esternazioni televisive, ci sarebbe mancato solo quello. Ma in verità di nulla possiamo essere certi. Non sappiamo se le sue apparizioni sono state concordate con degli “autori”. Non sappiamo se questi “autori” hanno mai proposto a Misseri di citare Vendola. Visto il cinismo circa l’utilizzo di Misseri in TV, ci si può aspettare di tutto. Bene! Nonostante questa vicenda Scazzi-Misseri sembra aver compiuto tutto quello che Pierpaolo Pasolini aveva previsto, Niki Vendola, che si presentò all’elettorato come il continuatore di Pasolini, non ha mai fatto cenno alla vicenda. Una vicenda che, a prescindere da tutti gli aspetti mediaticamente manifestati, è perfettamente sintomatica di tutte le più pessimistiche “prefigurazioni” di  “Scritti Corsari”; circa l’Italia e i perché della sua “modernizzazione malata”.

Ma cosa avrebbe potuto dire Vendola? Certo, non nel merito della vicenda giudiziaria tra cittadini di cui lui è “Governatore”. Se c’è stato un evento, dal 2005 ad oggi, circa il quale i “pugliesi” avrebbero accolto volentieri una paterna spiegazione saggia, da parte del “Saggio Eroe Nazionale”, questo è proprio l’omicidio Sarah Scazzi. Ma lasciamo, per ora, Vendola alle sue “paure”, e sostituiamolo immaginando un “intellettuale virtuale” del ‘900. Un poeta di Sinistra di inguaribile “resistenza romantica”. Facciamo parlare un prodotto di laboratorio, un “Frankenstein del Pensiero”. Attraverso questo “assemblaggio” riusciremo a capire, forse, perché Vendola ha taciuto.

Visto che nel 2013 cade il Centenario della nascita di Vinicius de Moraes, prendiamo in prestito la sua famosissima canzone “Garota de Ipanema”. Ne rileggiamo il testo ed immaginiamo Sarah Scazzi che con il suo bellissimo ed acerbo corpo, ansioso di uscire dall’adolescenza, attraversa le strade deserte di Avetrana, in un pomeriggio di Agosto, diretta verso il mare, e proviamo a ricollocarla sulla spiaggia di Rio: “Guardate che cosa bellissima, più piena di grazia. È lei la fanciulla che va e viene, ondeggiando dolcemente in direzione del mare. Ragazza dal corpo indorato dal sole di Ipanema, il suo oscillare è più di una poesia, è la cosa più bella che io abbia mai visto passare. Oh, perché sono così solo? Oh, perché è tutto così triste? Ah, la bellezza che esiste, la bellezza che non è solo mia, perché comunque passa da sola. Ah, se lei sapesse che quando passa, il maledetto mondo intero si riempie di grazia, e diventa più bello per amore, Per amore, per amore …

La traduzione fu problematica, fino alla stessa interpretazione delle “licenze poetiche” nello stesso “portoghese”. Infatti menina in verità dovrebbe tradursi più correttamente in “bambina”… ma l’autocensura parte dallo stesso Brasile, e menina è “autorizzata”perché va in contropiede letterario con il titolo dove “garota” ha come traduzione ufficiale “ragazza”. E’ chiaro che la canzone è diventata facilmente una straordinaria cover, della “Cultura Mondiale”, proprio perché lo stesso De Moraes fa su di sé una sana “operazione culturale” junghiana. Ovvero l’oggetto culturale e artistico come prodotto “terzo”, frutto della “repressione” esercitata dal pensiero umano sul naturale (e/o animalesco) istinto, ovvero desiderio. Una repressione che non è brutalità o autobrutalità, o auto-castrazione coatta. Ma sublimazione, creazione di nuovi traguardi della “bellezza” grazie alla “bellezza”.

Già. E’ molto interessante riflettere, a mio parere, sul fatto che in un paese così fisico come il Brasile, dove i corpi possono non solo splendere più spesso di luce indorata dal sole ma possono anche toccarsi senza sentire troppe colpe inconscie, la bellezza o meglio il contatto con la bellezza susciti, si alimenti, passi il setaccio della solitudine. Solitudine che fa soffrire ma che dà anche gioia, attraverso quell’indefinibile sentimento, misto di nostalgia e desiderio, che è la saudade. La saudade è il cardine fondamentale non solo della musica brasiliana ma dello spirito di un popolo, che, come mi diceva in Brasile qualche anno fa un mio collega regista, ancora può chiamarsi tale senza alcuna forzatura, diciamo, retorica.
Ma dove affonda, da dove proviene, allora, la saudade, questa nostalgia così strana? Una risposta sta sicuramente nelle radici africane. Nella mancanza profonda di una terra che è sepolta nell’inconscio collettivo. Non a caso Salvador de Bahia, il luogo più africano del Brasile, è stato il cuore, “l’origine” di molti poeti-cantanti brasiliani. Ma anche nelle radici di altri luoghi, di altre terre, non dimenticando che il Brasile ha accolto tanti popoli, tra cui noi italiani. E poi c’è la “filosofia” di una terra tanto vasta da far sentire soli i suoi abitanti, da farli sentire sempre alla ricerca di una terra che pure abitano, suggerendogli, per trovare sollievo, non tanto di stringersi nella coralità, nella massa, attraverso quel meccanismo che Carlo Levi osservava nella società statunitense, ma di amare la bellezza che ondeggia… verso il mare. Sedando, dunque, l’inquietudine nella poesia della vita.
La garota de Ipanema è anche una “cosa” che passa o sostanzialmente qualcosa che passa. Ma questa sua fugacità, legata alla sua bellezza giovane, che simboleggia la vita e l’amore, perfino il desiderio che fisiologicamente deve svanire e ritornare, è un fuoco che accende e non che spegne. Dunque il “passare” è una conquista, un atto di vitalità, di senso, da dare ad un’esistenza così.. triste. Emigrare non è quindi un atto di perdita, che procura depressione e spaesamento, ma è sempre più di questo… Ma torniamo al tuo discorso. Al collegamento tra la ragazza di Ipanema e quella di Avetrana…

Si, la corrispondenza tra le immagini di Avetrana e Rio, evocate dalla canzone, è sbalorditiva. Sarah, senza saperlo coscientemente, era diventata la grandissima protagonista, in replica, dell’immaginario collettivo mondiale. Una dozzina dei più grandi musicisti tra il Brasile e il Mondo, Frank Sinatra e Stevie Wonder, Amy Winhouse e Mina compresi, si erano occupati di lei, ma lei non lo sapeva. Le parole di De Moraes, di qualche anno dopo il 1962, rimandano ancora in modo più preciso e struggente alla “Garota de Avetrana”: « Lei fu ed è per noi l’esempio di un bocciolo carioca, una ragazza con l’abbronzatura dorata, un misto di un fiore e di una sirena, piena di splendore e di grazia, ma con lo sguardo anche triste, che si porta con sé, sulla strada verso il mare, il sentimento della giovinezza che passa, della bellezza che non è solo nostra – dono della vita nel suo incessante meraviglioso e melanconico fluire e rifluire. » La ragazza aveva tra i 15 e 16 anni ed andava nel Bar frequentato da De Moraes (49 anni allora) ed Antonio Jobim (35 anni allora) a comprare le sigarette per la madre. E’ poi diventata una modella, Heloísa Pinheiro, e lo è anche sua figlia, che fino a qualche anno fa si divertiva a posare con la madre, ancora bellissima. Due autori amatissimi nel Mondo, una donna dalla vita felice, una canzone dal successo eterno e planetario.

Invece ad Avetrana, la “Bellezza che esiste” scatena gelosia, invidia, violenza e orrore.
In verità minorenni belle ed attraenti sono state fin troppo protagoniste delle cronache politiche e giudiziarie italiane. Ma questo dato non ci porta fuori strada, leggere la vicenda Ruby-Berlusconi con la stessa “lente” di Scritti Corsari”, con la quale leggiamo “La ragazza di Avetrana”, ci porterebbe comunque a conclusioni analoghe. In tutto il mondo e in tutti i secoli il rapporto tra l’Arte ed il modo della donna di presentare il proprio corpo è sempre stato molto stretto. Spesso le due cose si sono completamente identificate. La “Morale Comune” dei cittadini di Avetrana, espressasi nei funerali, disegnando Sarah come “bambina” vittima dell’orco cattivo, ha rimosso l’aspetto principale della vicenda: la sua ansia di uscire dall’adolescenza ed essere Donna. Donna competitiva! Ma queste cose con franchezza, e con tutti i rischi del non “politicamente corretto”, le possono dire solo i Poeti, i Pasolini o i “Frankenstein del Pensiero”. Poeti come quei due che a Rio guardavano la minorenne e prendevano atto che la sua bellezza era “Bene Comune” ma il suo corpo no. Un po’ come i Trulli di Alberobello, bene Unesco ma tutti di “proprietà privata”.

Quindi la domanda sorge spontanea: Perché Niki ha taciuto? Perché non è sceso in campo con la maglietta del Pasolini vivente? Perché ha lasciato campo libero a Vespa e Crepet? Avrebbe compiuto la più grande ed efficace operazione culturale di tutta la sua storia di Presidente della Puglia, ed a costo zero. Il suo silenzio può dare adito a diverse spiegazioni/illazioni/supposizioni. Una può essere legata all’aspetto dell’orientamento sessuale, palesemente rivendicato, di Niki. Un modo di essere che offrendo il vantaggio di una maggiore “sensibilità emotiva” ha reso più difficile la “freddezza dell’intellettuale”. Un’altra può essere più di valutazione “Politica”. Nel percorso di un progetto personale di affermazione Politica e Mediatica “nazionale” è meglio associarsi solo ai “successi”, e non caricarsi di responsabilità circa le sacche di drammatica “devianza umana e sociale”. Frutto essa di sedimentazioni comportamentali e trasformazioni della“Umanità Pugliese” cominciate molti anni prima. Ovvero sotto “altri regimi”. Anche Vendola è una sorta di “Frankenstein” in evoluzione: Prima “il Ragazzo di Terlizzi + Pasolini”, dopo “L’ ex Ragazzo di Terlizzi + Bassolino”. Ma ci sarebbe da riflettere anche sul fatto che silente Vendola, silenti tutti! Il tema non ha appassionato nessuno della fù “Ecole Barisienne”, né degli “Intellettuali Salentini” cresciuti sotto il decennio d’Oro di Lorenzo Ria.
Avetrana abbandonata “Terra di mezzo e di nessuno”, anche se già teatro di struggenti lotte e referendum di popolo contro una, poi sconfitta, Centrale Nucleare.
A mio modesto parere la Politica Culturale o è l’affrontare di petto le più rischiose tendenze culturali-comportamentali della società, della gente comune, dei più fragili, oppure Politica Culturale non lo è!
Ed in questo la Puglia ha le colpe di quasi tutte le Regioni d’Italia: aver fatto o detto poco, o nulla, circa l’inefficace ruolo sociale di quelle che sono le articolazioni regionali della più grande industria culturale del Paese, e che è anche un Servizio Pubblico, ovvero la RAI!
Non si può fare alcuna “rivoluzione gentile” nelle Regioni, usando la Cultura, senza “rivoluzionare” la RAI. Senza farne un “Agente” e un “Costruttore”  Sociale. Senza farne l’aggregatore e il potenziatore di tutta la rete fisica dei servizi Culturali e di Formazione (Biblioteche, Scuole, Mediateche, Teatri, Musei, Volontariato, Presidi Psichiatrici, ecc.).
In quello che la Regione ha fatto di buono per il Teatro, per il Cinema, per le Arti Musicali, ha sempre avuto come riferimento o i “portatori di interesse professionale”, o i pubblici amministratori locali, in quanto a “ceto politico” da “spostare da una parte verso l’altra”.
Ma in questo modo tutta la Politica Culturale resta per una “minoranza”. Invece di “minoranza”, di “indipendenza”, di “ricerca” e di “libertà” devono essere solo le “idee artistiche ed editoriali”. Poi sono le “Politiche Culturali Istituzionali” che fan si che le “idee” diventino “pane necessario”, anche per i più lontani e i più fragili. La differenza tra il dare più “soldati al Principe” o più “canne da pesca al Popolo”. Ma fare tutto questo senza una RAI Regionale che quintuplica “forza e palinsesto” mi è sembrato sempre impossibile. Ma se non ci sbrighiamo, sarà inutile anche “quintuplicare”.

Sono d’accordo. Aggiungerei anche che le grosse manifestazioni come il Bifest di Bari, che sembrerebbero nascere con l’obiettivo di riuscire a coinvolgere più persone possibili, dunque non per la minoranza, in realtà nascondono ben altro.
Nascondono una strategia politica che mira a spostare fondamentalmente il cinema romano in Puglia, offrendogli una vetrina, un tappeto rosso mondano su cui mostrarsi. Dopo avergli anche offerto (o per fare ciò) dei paesaggi e dei prodotti tipici da usare per confezionare film per… tutti. E per nessuno.
Un tappeto su cui mostrare l’oggetto del desiderio, il “famoso”, (che ha sostituito da tempo il bello) il quale, onorando con la sua presenza una terra periferica, la fa sentire paritaria, degna. Non più minore.
E’ il meccanismo provinciale su cui si è mossa tutta la cultura italiana. I grandi eventi, figli della cultura televisiva, sono fortemente anti-popolo anche se coinvolgono tante persone. Perché non vogliono la sua evoluzione o la sua partecipazione autentica, ma solo la sua presenza virtuale, il suo simulacro. E i fatti lo dimostrano, da anni ormai, data la situazione sociale e culturale. Dato il degrado di cui gli omicidi non sono che una conseguenza “fisiologica”. Senza più alcun mistero. Nessun realismo lo può confutare. Intendo quel ragionamento “concreto” che nasconde il cinismo mentre dice che, se non si facessero eventi in grado di attirare la “massa”, la cultura sarebbe abbandonata o sarebbe solo per pochissimi, ci sarebbe il nulla.
Eppure, come dici, gli intellettuali, gli artisti che hanno fatto? Che fanno di fronte a questo nulla che è già arrivato, che è già qui? Fanno carte false per partecipare a questo meccanismo vano, a questo tappeto rosso ridicolo, salvandosi la coscienza solo con qualche timida protesta per riorganizzare il sistema di finanziamento pubblico alla cultura (che è l’ultimo in Europa) ma senza proporre nulla di serio sul piano politico. Sul piano metodologico.
Una riorganizzazione della Rai potrebbe aiutare questa ricostruzione che deve avvenire in una prospettiva autenticamente glocal e che deve fondarsi realmente sulla collaborazione (progettuale, linguistica, comunicazionale) tra soggetti diversi. Anche offrendo visibilità e stimolo a fisiologiche differenze e fratture tra questi soggetti, aldilà delle inutili diatribe televisive sempre uguali. La democrazia ha bisogno non di litigi televisivi ma di confronti più veri e sostanziali, che possono nutrire lo spirito critico e il gusto di tutti. Che possono restituire e rappresentare il mondo di chi lavora e fatica, a tanti livelli.
Continuiamo, dunque, a parlarne. A parlare di fatti , di silenzi e di metodo. Con Paolo De Cesare e magari anche con una personalità femminile che possa dire la sua sulla condizione del corpo e del desiderio femminile. Tra la mamma e la puttana ci sarà pure un’anima in cammino, che cerca se stessa nell’altrove di sempre…
A presto…

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