Un esempio di omicidio aggravato. Anche senza l'etichetta del femminicidio

L’art. 613 del codice penale (stato di incapacità procurato mediante violenza) è, in questo momento, uno dei più frequentati in Parlamento. Al Senato, infatti, sono “in cottura” due distinti disegni di legge che si propongono di fare seguito alla norma predetta, aggiungendo un inevitabile art. 613 bis.

Il primo (d’iniziativa dei senatori Mussolini, Repetti, Alberti Casellati, Pelino, Bonfrisco, Chiavaroli, Longo, D’Alì, Scoma, De Siano, Marin, Piccoli, Floris, D’Anna, Milo, D’Ambrosio Lettieri, Bruni, Liuzzi, Torrisi, Razzi, Caliendo, Giro, Carraro, Viceconte, Cassano, Bruno, Aiello, Piccinelli, Galimberti, Mandelli, Caridi, Rizzotti e Bernini), ha ad oggetto “Introduzione del reato di femminicidio”.
Il secondo (d’iniziativa dei senatori Casson, Amati, Chiti, Cirrinnà, Cucca, De Monte, Dirindin, Favero, Fedeli, Filippi, Ginetti, Granajola, Guerra, Lo Giudice, Paglieri, Pegorere, Pezzopane, Pinotti, Puglisi, Puppato, Spilabotte, Vaccari, Barani e Palermo), si propone di introdurre nell’ordinamento italiano il delitto di tortura.
Nonostante “l’accostamento numerico”, ci sembra di poter dire si tratti di due iniziative di spessore e natura non comparabili.
Procediamo con ordine.
L’art 1 del primo disegno di legge recita (allo stato): <Nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione III del codice penale, dopo l’articolo 613 è inserito il seguente:
“Art. 613-bis. – (Reato di femminicidio). — La pena è aumentata da un terzo fino alla metà se i reati previsti dagli articoli 575, 581, 582, 584, 586, 594, 595, 600, 600-bis, 600-ter, 601, 605, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies, 610, 612, 612-bis e 613, commessi a danno di donne, sono tali da provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, ivi compresi quegli atti idonei a creare la coercizione o la privazione della libertà”>>.
L’art. 1 del secondo disegno di legge è (a tutt’oggi) così concepito: Nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione III, del codice penale, dopo l’articolo 613 è aggiunto il seguente:
“”Art. 613-bis. — (Tortura). Chiunque con violenza, minacciando di adoperare o adoperando sevizie o infliggendo trattamenti disumani o degradanti la dignità umana, infligge acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o non in grado di ricevere aiuto, al fine di ottenere da essa o da altri informazioni o dichiarazioni su un atto che essa o altri ha commesso o è sospettata di aver commesso, ovvero al fine di punire una persona per un atto che essa o altri ha commesso o è sospettata di aver commesso, ovvero per motivi di discriminazione etnica, razziale, religiosa, politica, sessuale o di qualsiasi altro genere, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La stessa pena si applica a chi istiga altri alla commissione del fatto o non ottempera all’obbligo giuridico di impedirne il compimento.
Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, nell’esercizio delle funzioni, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni.
La pena è aumentata se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima”>>

La prima (nuova) fattispecie criminosa esordisce addirittura con un neologismo. Così, accanto al parricidio (artt. 576-577), all’uxoricidio ed al fratricidio (art. 577 comma secondo), all’infanticidio (art. 578), all’omicidio del consenziente (art. 579), all’omicidio preterintenzionale (art 584) e all’omicidio colposo (art. 589), alla morte come conseguenza di altro delitto (art. 586), dovremmo annoverare “l’omicidio di genere”, appunto il femminicidio.
Qualche questione si pone immediatamente.

Quid juris se la vittima è la sorella dell’imputato (sorellicidio, forse meglio che soricidio, che sembrerebbe l’uccisione di un topo)?
Per il secondo comma dell’art 577, in tal caso, la pena è della reclusione da 24 a 30 anni; ma, poiché la sorella è – in genere – una donna, in base alla normativa che si vorrebbe introdurre, la pena dovrebbe essere aumentata da un terzo fino alla metà. Ma su quale pena si dovrebbe calcolare l’aumento: su quella –oggi- prevista per l’omicidio semplice (art. 575, non inferiore a 21 anni), ovvero sulla pena (già aumentata) di cui al ricordato secondo comma dell’art. 577?
Nel primo caso, si avrebbe una pena da 28 anni a 31 anni e 6 mesi; nel secondo, da 32 a 45 anni. Ma, nella prima ipotesi, la sanzione sarebbe, grosso modo, coincidente con quella oggi prevista; nella seconda, contrasterebbe col massimo edittale previsto dall’art. 23 cod. pen. e sforerebbe di oltre 10 anni le eccezioni specificamente contemplate dal codice (es. art. 630 comma secondo); senza contare che una pena di 45 anni è un ergastolo “di fatto”, cioè una pena perpetua, che risulterebbe introdotta surrettiziamente, senza chiamarla col suo nome.
Non è l’unica incongruenza.

Come abbiamo appena visto, la pena è aumentata(da un terzo alla metà), non solo nel caso della uccisione di una donna, ma anche con riferimento –tra gli altri- ai delitti ex artt. 600 bis, 600 ter, 609 bis, 609 quater, 609 octies (prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo). Ebbene, si tratta dei delitti con riferimento ai quali l’art. 4 della legge 172/2012 ha previsto la pena dell’ergastolo, in caso di omicidio, se la morte è stata determinata in occasione della consumazione dei predetti reati. In tale ipotesi, ovviamente, l’effetto aggravante della nuova e più severa normativa verrebbe a essere completamente assorbito.
I proponenti poi evidentemente “dimenticano” (perché certamente lo sapevano) che il nostro ordinamento penale prevede, per consentire al giudice di operare tra un minimo e un massimo di pena, graduandola sulla gravità concreta del fatto, di spaziare, non solo nei limiti edittali, ma di avvalersi del “gioco” delle circostanze, aggravanti e attenuanti.
Così, oltre alle aggravanti specifiche per l’omicidio (delle quali si è fatto cenno sopra), esistono –come è noto- le aggravanti applicabili a qualsiasi delitto (e tra queste, alcune fanno certamente al caso nostro: avere agito per motivi abietti o futili, avere adoperato sevizie o avere agito con crudeltà, avere abusato dei propri poteri, della propria autorità, di relazioni domestiche, di relazioni di ufficio, di relazioni di coabitazione o di ospitalità; e poi ancora, le qualità personali e lo status della vittima: la così detta minorata difesa ex art. 61 n. 5 cod.pen.) e, in più, l’avere approfittato di un soggetto minorenne (art. 61 n. 11 ter cod.pen.).
Ci sembrava che l’armamentario repressivo a disposizione del giudice penale fosse già abbastanza fornito e che non fosse necessario introdurre doppioni, creando confusione, sovrapposizioni, incertezza applicativa.

Ma vi è di più.
Non sarà forse politically correct, sostenerlo in questo momento storico, ma francamente ci sembra che
affermare, in via generale e astratta, che offendere (nella vita, nell’incolumità, nell’onore ecc.) una donna sia cosa differente che offendere un uomo nei medesimi beni e valori, sia fatto grave e incongruo. Introdurre la logica delle “quote rosa” nel sistema repressivo penale non ha senso, se si vuole mantenere fermo il principio di eguaglianza dell’art. 3 della Costituzione.

È certo che, accanto all’eguaglianza formale (l’eguaglianza dei diritti), debba essere realizzata l’eguaglianza sostanziale (l’eguaglianza delle possibilità). Per raggiungere tale secondo scopo può essere necessario, a volte, un intervento riequilibratore, che, tenendo conto della situazione di fatto, crei una categoria di cittadini “più eguali” degli altri. È la logica, appunto, della “riserva di chance“ in favore di soggetti svantaggiati in partenza e, tra questi, non è dubbio che, in molti settori, vi siano le donne. Ma deve trattarsi di corpora normativi di contenuto propositivo-propulsivo, non negativo-repressivo, quali sono le norme penali.
La vita (la libertà ecc.) di un essere umano ha e deve mantenere eguale valore, quale che sia il sesso (o, se si preferisce, il genere) della vittima.
L’esatto contrario, ci pare, di quanto affermato dalla senatrice Mussolini (Una risposta attesa dalle vittime e dalle loro famiglie, nel pieno rispetto dell’articolo 3 della nostra Costituzione, secondo il quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”). Un passaggio che non esiteremmo a definire orwelliano.

Qui non si vuole negare che la violenza (fino alla soppressione fisica), gli atti persecutori, le vessazioni, gli insulti in danno delle donne costituiscano comportamenti decisamente odiosi e, per altro, particolarmente allarmanti, in quanto, per quel che riportano i media, essi sono in pericoloso aumento; si vuol semplicemente affermare, da un lato, il principio che, di fronte alla giustizia (maxime quella penale), siamo e dobbiamo essere tutti eguali, dall’altro, il noto (e negletto) criterio in base al quale entia non sunt multiplicanda sine necessitate, in quanto la proliferazione di fattispecie incriminatrici, circostanze aggravanti, ipotesi “speciali” di reati (ovvero ipotesi di reati speciali) complica inutilmente il lavoro dell’interprete, fornisce scappatoie al reo, determina incertezze applicative.

La ragione dell’aumento degli episodi di violenza sulle donne non va ricercata nella scarsa incisività della risposta repressiva (“equamente” inefficace sia per le donne che per gli uomini), va ricercata, probabilmente, nel fatto che gli uomini (alcuni uomini) non tollerano il percorso che le donne (alcune donne) stanno completando verso l’eguaglianza (dei diritti e delle possibilità), l’autonomia e l’autodeterminazione e quindi reagiscono utilizzando quella che è (che fu) la causa prima della loro “superiorità”: la forza muscolare, l’aggressività competitiva, la prestanza fisica.

Come si usa dire oggi, dunque, si tratta di una questione culturale, che, pertanto, andrebbe affrontata con i mezzi (e sopportando i tempi) che simili problematiche comportano, non emanando incongrue norme, apparentemente draconiane.

Ma il discorso non può finire qui: (almeno) altre due considerazioni si impongono.
La prima:
come al solito, di fronte all’acuirsi di fenomeni criminali, la (ahimè) nostra classe politica reagisce inasprendo le pene. Sarebbe troppo facile, addirittura scontato, richiamare le “grida” manzoniane. Ma un luogo comune non è meno vero, solo perché se ne abusa. Un’efficace controllo penale presuppone certamente sanzioni adeguatamente severe, ma si realizza, innanzitutto, fornendo a chi è incaricato della attività di accertamento/repressione mezzi sufficienti e validi, che garantiscano incisività e rapidità al sistema.
La senatrice Rizzotti, al momento della presentazione del disegno di legge sul femminicidio, ha proclamato: “Vogliamo tempi certi per le sentenze. Perché bisogna fare giustizia per le vittime e ridare un senso di giustizia alle famiglie delle vittime“.
Come darle torto!? Ma la certezza dei tempi (e delle pene) costituisce davvero uno dei desiderata della classe politica? A giudicare da certe prese di posizione e da alcune condotte “concludenti” sembra lecito dubitarne.
Eppure, alcune semplici modifiche legislative “a costo zero” potrebbero essere prese. Torneremo sul punto.

La seconda: finché non si smetterà di piegare le leggi a fini propagandistici (rectius: di produrle per tali fini) si avranno leggi-manifesto inapplicabili o, se va bene, inutili, ma –comunque- dannose in quanto suscitano aspettative che non possono soddisfare.
Sono illuminanti, al proposito, le parole della senatrice Alberti Casellati: “Questo disegno di legge è un monito forte che corrisponde a un ’basta’ e fa da corollario alla Convenzione di Istanbul. L’87 per cento delle donne uccise avevano già subito violenze e chiesto aiuto  precedentemente”.
Appunto: un monito, non una legge;
un advertising, non uno strumento di regolazione sociale e di repressione delle forme più gravi di devianza. La logica è quella pubblicitaria: ad una platea preoccupata (e adeguatamente preparata) si fornisce un “prodotto” che la soddisfi, nell’immediato, principalmente sul piano emozionale.

Si è scritto, negli anni passati (Moccia S., “La perenne emergenza”, Napoli, 1997), circa l’abuso della legislazione dell’emergenza, ma ormai siamo al cospetto della legislazione dell’apparenza!
La legge penale è divenuta un prodotto di consumo (sarà casuale l’utilizzo del termine “pacchetto”?), ma di un consumo “usa e getta”, perché poi ci saranno nuove norme per nuove esigenze.
Da qui, l’importanza dell’etichetta e “femminicidio” è una espressione perfetta
, da questo punto di vista.
Che importanza ha se viene qualificato come reato quella che è in realtà una (approssimativa) circostanza aggravante? Che importanza ha se si creano incongruenze e aporie nel sistema? Che importanza ha se poi il disegno di legge non diverrà mai (speriamo) legge?
Importante è il battage, il lancio pubblicitario, il messaggio, la comunicazione politica o, appunto, come è stato detto, il “monito”.
E allora l’articolato normativo può anche essere scritto in maniera sciatta, atecnica, ripetitiva e ridondante.
Gli omicidi (artt. 575, 584), pensiamo di poter sostenere, provocano sempre danni.. “di natura fisica”, per esprimersi come la norma che si vorrebbe varare; lo stesso dicasi per le percosse e le lesioni (artt. 581, 582), mentre non è dubbio che i reati di natura sessuale (artt. 600 bis e ter, 609 bis, quater, quinquies, octiese, undecies) comportino sofferenze di natura… sessuale. La violenza privata e la minaccia (artt. 610, 612) determinano indubitabilmente coercizione della libertà (ma allora perché è stato dimenticato il sequestro di persona?) e così via. E dunque: bisogna chiedersi che senso ha aver riportato nel corpo della norma, dopo il richiamo alle varie fattispecie incriminatrici, la menzione di quei danni (fisici, psicologici, economici) che costituiscono “l’in sé” di quei reati.

C’è seriamente da chiedersi se chi ha scritto il testo sul femminicidio abbia mai letto gli articoli cui ha voluto fare riferimento. Ma forse, per le ragioni sopra ricordate, la domanda, più che retorica, è superflua.
Non va poi trascurato che l’aggravante in questione dovrebbe essere applicata anche ai delitti di ingiuria e diffamazione. Dunque, ad esempio, per la diffamazione a mezzo stampa, consumata in danno di una donna, la pena potrebbe raggiungere i 9 (nove!) anni di reclusione.
Ma non si tratta dello stesso Parlamento e delle stesse forze politiche che si indignano per la condanna al carcere dei giornalisti e/o che chiedono la depenalizzazione della diffamazione?

E passiamo alla tortura.
Qui siamo sicuramente in presenza di un “prodotto” (letterariamente e giuridicamente) più raffinato. Si ha tortura –nell’ottica dei proponenti- quando i trattamenti disumani o degradanti sono, non solo applicati, ma anche solo minacciati (dunque: tortura fisica e/o psicologica). La vittima, inoltre, deve trovarsi del tutto in balìa del suo carnefice (si pensi al sequestro di persona o a un soggetto incarcerato oppure ristretto nelle camere di sicurezza). Non basta: la condotta dell’agente deve essere rivolta a un fine specifico (estorcere informazioni o dichiarazioni), ma anche può essere determinata dal desiderio di punire il soggetto passivo, tanto per quel che ha fatto, quanto per quel che è o rappresenta, in ragione della sua appartenenza etnica, religiosa, della sua fede politica, del suo genere o, comunque, in quanto appartenete a una determinata categoria di individui.
Dunque: a fronte di un elemento materiale dai confini piuttosto incerti (quando una sofferenza può essere qualificata acuta?), è richiesto, tuttavia, il dolo specifico.
Naturalmente è previsto un aumento di pena tanto se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un  pubblico servizio nell’esercizio delle loro funzioni, quanto se dagli atti di tortura deriva una lesione grave o gravissima, ovvero la morte. Se la morte è causata intenzionalmente, ovviamente, siamo in presenza di un omicidio e la pena esplicitamente prevista dalla nuova norma è l’ergastolo (come, d’altra parte, nel sequestro di persona a scopo di estorsione, ipotesi in cui, ovviamente, la vittima è nella piena signoria del soggetto attivo; né più e né meno come nel reato che si vorrebbe introdurre).
Questo, dunque, il contenuto dell’art. 1 (gli articoli seguenti contengono disposizioni processuali o di coordinamento, che non è il caso di analizzare in questa sede).
Anche nel caso della tortura, tuttavia, la domanda che dobbiamo porci è la stessa: era necessaria la introduzione di questo “nuovo” reato?

Il nostro codice penale prevede già le lesioni volontarie (artt. 582-583-585), con pene, ovviamente, “variabili”, ma che possono superare i 10 anni di reclusione.
Prevede inoltre molte altre ipotesi delittuose che possono sovrapporsi –in tutto o in parte- alla tortura: il sequestro di persona (art. 605): pena reclusione da 6 mesi a 8 anni, con varie ipotesi di aggravamento, l’indebita limitazione di libertà personale (art. 607): pena reclusione sino a 3 anni, l’abuso di autorità contro arrestati (art. 608): pena reclusione sino a 30 mesi, l’abuso di ufficio (art. 323): pena reclusione da 1 a 4 anni, con possibilità di ipotesi aggravata, la violenza o minaccia per costringere taluno a commettere un reato (art. 611): pena reclusione fino a 5 anni, con possibilità di ipotesi aggravata, il già ricordato sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630): pena reclusione da 25 a 30 anni, ulteriormente aggravabile, la riduzione o il mantenimento in schiavitù (art. 600): pena da 8 a 20 anni.
Naturalmente ai delitti di cui sopra (e specialmente in caso di lesioni) sono applicabili le aggravanti comuni (ex art 61 cod.pen.) con conseguente aumento di un terzo della pena (motivi abietti e futili, ricorso a sevizie, abuso di poteri ecc.).
E dunque è da chiedersi che ragione ci sia di introdurre una nuova figura criminosa.
Non si risponda che tanto ci è imposto da accordi stretti in sedi soprannazionali, perché ciò cui l’Italia è obbligata in ragione di tali accordi è la introduzione (ma anche il mantenimento) di una disciplina sostanziale che preveda le ipotesi di reato che si ritiene debbano essere presenti nell’ordinamento di ciascuno Stato aderente, non l’applicazione di una etichetta (ancora una volta!) che rispecchi il titolo di reato dato in sede internazionale.
“Ce lo chiede l’Europa” è, ormai, una formula abusata, che ha perso il suo appeal.
La ragione –se non si vuole ipotizzare la solita operazione propagandistica- è allora un’altra: la necessità di evitare la prescrizione per i reati di lesioni, di abuso di ufficio, di abuso di autorità contro arrestati e altre figure “minori”.
Una pena della reclusione da 3 a 10 anni, da 4 a 12 (nel caso di tortura imputabile a pubblico ufficiale o a incaricato di pubblico servizio) o, addirittura, fino a 16, in caso di lesioni gravissime, comporterebbe un termine di prescrizione “ragguardevole”.
E così episodi vergognosi, come quelli verificatisi a Genova negli anni scorsi, non rimarrebbero, di fatto, impuniti.
Ma è un percorso tortuoso quello che, per evitare l’effetto estintivo del trascorrere del tempo, invece di incidere direttamente sulla disciplina della prescrizione, si propone di fare ciò aumentando le pene edittali o addirittura introducendo nuove figure di reato.
Le vicende (penali e parlamentari) degli ultimi anni rendono evidente che è venuto il momento di mettere mano agli artt. 157 ss. cod.pen. e, poiché la prescrizione è istituto, di fatto, “a cavallo” tra il sostanziale e il processuale, anche ad alcune norme del codice di rito.
A nostro parere, il tempo necessario a prescrivere un reato può anche essere significativamente abbreviato, ma, poiché la ratio dell’istituto consiste nella manifestazione del disinteresse dello Stato in ordine all’accertamento dei fatti e alla eventuale applicazione della pena, sarebbe logico prevedere (almeno per i reati non bagattellari) che il dies a quo fosse fissato nel momento in cui il P.M. riceve o acquisisce la notitia criminis, non nel momento in cui il reato è commesso. E inoltre, dopo la sentenza di primo grado (manifestazione plastica dell’interesse pubblico all’accertamento dei fatti), la prescrizione dovrebbe non essere più operativa, prevedendosi “a compensazione” termini perentori per lo sviluppo negli eventuali, ulteriori gradi di giudizio.
Ma, a nostro parere, il problema non sarebbe risolto nemmeno così.
Fin tanto che il maturare della prescrizione non diventi una conseguenza naturale del trascorrere del tempo (per quanto di naturale possa esservi in un processo), ma sia anche (e principalmente) una strategia difensiva, l’istituto sarà sempre strumentalizzato in un’ottica di pura dilazione dell’accertamento processuale.
Contrastando una intollerabile situazione di fatto, occorrerebbe creare nell’imputato l’interesse alla celebrazione del processo, impedendogli di coltivare l’aspirazione al rinvio, alla dilazione e, quindi, in ultima analisi, alla prescrizione del reato o, quantomeno, alla scomparsa o all’inaridimento delle fonti di prova.
Da questo punto di vista, infatti, per quanto grave possa essere questa affermazione, ogni tattica dilatoria è, di fatto, una (almeno potenziale) attività di inquinamento probatorio.
E allora bisognerebbe “agganciare” il decorrere della prescrizione, oltre che, come si è detto, per quel che riguarda la fase delle indagini, alla cognizione della notitia criminis da parte del P.M., alla conoscenza legale della pendenza del processo da parte dell’imputato, per quel che riguarda la fase dibattimentale. Vale dire: fintanto che l’imputato non abbia ricevuto regolare notifica (o non sia comunque comparso), il decorso della prescrizione dovrebbe rimanere –ancora una volta- bloccato.
Non è tutto.

A nostro parere, esiste -nell’ambito del processo penale e, anzi, del diritto penale- una categoria di indagati/imputati “più eguale” degli altri. Si tratta di quelle persone che, per essere state investite di pubbliche funzioni (e per essere, di conseguenza, depositarie ed esercenti di pubblici poteri) dovrebbero, in caso di rinvio a giudizio, essere giudicate con precedenza rispetto ai cittadini “comuni”. Esponenti politici, magistrati, pubblici amministratori, appartenenti alle forze di polizia e via elencando hanno ricevuto (direttamente o indirettamente) una delega dai consociati: quella di esercitare, per loro conto e in loro nome, una serie di poteri, poteri forti e penetranti, capaci di imporre condotte, di vincolare scelte, di determinare, in una parola, il presente e di ipotecare il futuro dei deleganti stessi.
Sarebbe giusto e opportuno che si accertasse, nel più breve tempo possibile, se di tale delega essi continuino a esser degni, quando, nei loro confronti, sia stata formulata una seria accusa, penalmente rilevante.
Ebbene, ognuno di noi può verificare quanto la realtà sia distante da tale ipotesi.
Se così stanno le cose (ed è difficile negarlo), allora la frenetica attività parlamentare, volta alla introduzione di nuove figure criminose, corredate da severe pene, e alla creazione di “delitti ideologici”, connotati da roboanti “affermazioni di principio”, rappresenta solo una maniera per fare la faccia feroce, costituisce una manovra diversiva, in ultima analisi, per non affrontare, seriamente e sistematicamente, i problemi della giustizia penale, alla quale, come abbiamo visto, si chiedono “tempi certi”, ma per la quale, evidentemente, al di là delle chiacchiere, non si  vogliono tempi brevi.

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