Una delle migliori maniere di cominciare, diceva qualcuno, è quella di non cominciare.
Sarà una deformazione professionale ma mi viene da pensare che al cinema questa scelta narrativa o stilistica è stata realizzata poche volte in modo interessante. Nonostante una certa predisposizione “naturale” del cinema al restituire lo scorrere delle cose. In letteratura forse è successo di più.

Nella vita, poi, come suggerisce il proverbio, saper cominciare vuol dire essere già a metà dell’opera. Salvo che la vita ha imprevisti tali per cui, chi impara a saper sempre ricominciare o addirittura sente di amare  molto questa condizione iniziale che, del resto, ci fa vivere nel sentimento dell’infinita possibilità, può sicuramente soffrire di meno.

Comunque sia, ogni inizio, probabilmente più che ogni fine, sembra collegarci con il sentimento divino: la fine, infatti, ci appare spesso come un’entità causata dagli uomini (nonostante la loro estrema difficoltà a saper finire) più che da qualsiasi altra “forza”, ma l’alba emana una luce così misteriosa e “ferma” che noi tutti, in mezzo ad essa, siamo in grado di sentire quel qualcosa che sembra precedere l’uomo.

Se da una parte non vorrei parlare del processo creativo insito nella narrazione dato che questa non è la sede adatta per farlo e, del resto, non so neanche perché sento l’impulso ad affrontare questo argomento, vorrei, però, aggiungere qualche cosa su questo sentimento del non cominciamento che, come dicevo, al cinema è piuttosto raro.

Quando succede, infatti, un film sembra stringere in pugno qualcosa di molto importante.
Brevemente, direi che le cose che vediamo appena il nero si dipana, sembrerebbero provenire da un’altra dimensione, da una realtà parallela che più che aspettarci da qualche parte, improvvisamente si evidenzia con un mistero capace di stabilire con noi un’intimità segreta e superiore. Un’intimità che si crea senza avere bisogno di alcuno sforzo da parte nostra, come se fosse venuta, questa realtà parallela, a prenderci per portarci, appunto, a vedere qualcosa, sapendo che non ci opporremo.

Ogni inizio vero presuppone una fine. Filosofi, mistici, stregoni, poeti e scienziati se ne sono occupati. Delle volte intuendo che il passaggio segna solo una specie di solco ad un cerchio che si muove senza sosta. Ma a parte il grande mistero del cerchio e del tempo, forse ho cominciato questa seconda parte della conversazione-incontro con Ferrino Sedran, con questa enfasi così astratta, perché ricordo di aver guardato fuori dalla finestra della sua casa ad un certo punto, mentre lui parlava. Delle volte succede che, pur immersi in una relazione, riusciamo ad estraniarci e a continuare ad ascoltare come se fossimo solo più lontani spazialmente. Nel cinema questo significa fare un campo lungo o lunghissimo, oggi sempre più rari data l’ansia di immersione e di contatto che un pubblico semimorto richiede o sembrerebbe richiedere.

Tuttavia ricordo che questo distacco vissuto di fronte al suo tavolo, ha avuto un sapore strano e inconsueto anche per me, che spesso mi assento alla ricerca di altre prospettive.
Credo che sia stato perché quest’incontro con un ottantaduenne che ha vissuto l’emigrazione e altri importanti distacchi, ad un certo punto è diventato un incontro magico, quasi simbolico, o più semplicemente qualcosa capace di mettermi in contatto con una strana sensazione di quiete.
Qualcosa che, in tutti i casi, le parole non riescono ad esprimere o possono, al limite, restituire solo in parte. Stare di fronte ad una persona anziana, nella sua casa, vuol dire non solo immergersi nel suo ritmo, spesso così più lento del nostro,maanche assumere in noi i suoi limiti. E attraverso i suoi limiti vedere in maniera più ampia. Anche la sordità, che gli anni portano quasi obbligatoriamente, può diventare non un fastidio ma un vantaggio se riusciamo a sentire l’eco di qualcos’altro… Anche noi intendo, giovani e forti, che… parliamo con i sordi.
In ogni modo, ora, è meglio lasciar “parlare” le sue parole (in fondo le parole non sono più vane di ciò che trasmettono avrebbe detto Beckett), anche se ricorderò a lungo quel momento in cui ho guardato la finestra o l’albero nel giardino che era oltre il vetro o, insomma, Roma e la luce che aspettavano e si muovevano dietro al volto bianco e dolce di Ferrino Sedran. Credo di aver pensato che… qualcosa stava per venire a prendermi. Che fosse la morte o la vita, poco importava: in fondo ciò che conta è solo non sentirsi soli a questo mondo, o no?

Lei ha vissuto prima l’adesione alla chiesa, alla missione religiosa, e poi si è dedicato ad una missione laica, attraverso il suo lavoro come psicologo ma anche attraverso un più generale impegno politico. Credo che tutte e due le strade percorse l’abbiano portata a sviluppare una profonda capacità di empatia, ma anche di distacco. È così? È possibile coniugare veramente empatia e distacco? Come si può mettere nell’essere dentro il mondo anche il non esserci?

Vorrei anzitutto fare un appunto su quella dicotomia tra missione religiosa e missione laica. La chiarezza cartesiana non fa per me, mi sento più a mio agio in compagnia di Nietzsche o di Kierkegaard. Le cose sono più complicate di quanto si pensi. Vediamo se riesco a spiegarmi.
Per prima cosa l’abbandono del sacerdozio non è da attribuire a problemi di fede, di celibato o di disciplina. Quando un prete decide di lasciare, la gente pensa subito al celibato: non ce la fa più a stare senza una donna…Nel mio caso non è andata così. Mai avuto problemi di celibato, che ho sempre osservato con la massima fedeltà. Tantomeno ho messo in discussione il valore del sacerdozio, che dovrebbe essere aperto a tutti, celibi e sposati, senza escludere le donne. La pietra dello scandalo è stata il mio ingaggio infantile in un progetto di vita che solo un adulto può fare nella pienezza della maturità. Mi son trovato ad un bivio, da una parte il dovere di vivere la mia vita, di non proseguire con scelte fatte da altri per paura di essere condannato, dall’altra il bisogno di rispettare il sacro ministero e mantenere gli impegni presi con i voti. Prevalse l’esigenza di ricoprire il vuoto rimasto alla dimensione umana, in quanto fondamento della vocazione religiosa. Chiedevo di poter andare a recuperare gli anni persi nella fuga da me stesso, per poi magari tornare a riprendere il discorso religioso. La mia vita si è dipanata in questa prospettiva utopica; forse ora mi sento pronto per una sintesi finale. Il Regno dei Cieli non ha mai cessato di profilarsi sul mio orizzonte.
Circa l’armonia tra empatia e distacco potrei teorizzare ad oltranza perché è il fulcro del mestiere di psicoterapeuta. Nel tentativo di dare una risposta al suo quesito direi di sì, che è possibile coniugare empatia con distacco, anzi, per certi versi è dovuto, ad esempio quando un eccesso di empatia può diventare invasivo e soddisfare il proprio narcisismo a scapito dell’amore vero. Ma la cosa più temibile è l’incapacità di sentire empatia, la paura di coinvolgersi onde evitare che l’altro bussi alla tua porta. Quei rapporti freddi, corretti, controllati, igienicamente perfetti come una clinica svizzera, privi della fisicità meridionale e senza allusioni di sorta sono la peste della società post-moderna”.

Questo nuovo papa sembra risvegliare sentimenti di religiosità autentica. Ma oggi è possibile una rifondazione della chiesa? E dalla chiesa può venire un messaggio, un incitamento all’uomo a cambiare se stesso? O ci penserà la tecnologia a creare “l’uomo nuovo”?

Penso che il miglior servizio che possiamo offrire al Papa Argentino sia tenere una certa misura nelle aspettative, senza sprecare la boccata di aria fresca che ci ha portato dalla pampa.
Da uomo avveduto e bravo gesuita non andrà di certo ad infognarsi nella riforma della Curia. Si ritaglierà un suo spazio coinvolgendo un manipolo di vescovi per dar forma alla collegialità, senza dissanguarsi in un’impresa impossibile. Darà il meglio di sé in slanci profetici in rapporto con il mondo, con le altre chiese e religioni, non per creare “l’uomo nuovo” del Che Guevara, ma per riscoprire quello antico cantato da Omero e da Dante.
Cercherà di privilegiare iniziative nei riguardi dei grandi valori condivisi quali la pace, la giustizia, i poveri della terra, la difesa del creato e sarà un facilitatore del dialogo ecumenico, specialmente con gli ortodossi, il cui favore si è già assicurato presentandosi sotto il saio di San Francesco e come vescovo di Roma. Non mi stupirei se durante il suo pontificato si arrivasse a una vera riconciliazione, magari senza appurare fino in fondo le questioni spinose del “filioque” e del primato.
Più ancora mi aspetto dei gesti eclatanti nei riguardi di grandi questioni che stanno a cuore alla gente, come la moralizzazione del mondo della finanza (una condanna dell’evasione e dei paradisi fiscali?), equiparazione tra reato penale e peccato mortale nelle offese all’ambiente, un maggior interventismo in difesa delle nazioni e minoranze oppresse. Nei riguardi delle mafie potrebbe, ad esempio, chiudere il santuario della Madonna di Polsi in Aspromonte.
Preferirà invece mettere in sordina tutto quel groviglio di controversie che vanno sotto il nome di “materie eticamente sensibili”, o “valori non negoziabili”, così cari ai pasdaran di casa nostra. Come se la caverà?! Beh, non è che mi aspetti grosse novità sul profilo teorico, Papa Bergoglio non intende fare il San Sebastiano trafitto dalle frecce incrociate, alle sue spalle c’è l’ombra del Papa emerito, nonché la tomba del Papa polacco, per non parlare di quella di San Pietro. No, Papa Francesco non è un avventuriero sprovveduto in cerca di applausi, cercherà di seguire le strade della misericordia, con molto buon senso per salvare il rapporto, ma senza cedimenti. Si fa, ma non si dice, al massimo si allude al preservativo e il confessore fa il pesce in barile, ma alla fine il perdono arriva. La via mediana seguita dai gesuiti, tanto criticata per la sua doppiezza ipocrita, quando in realtà è prova di saggezza e pragmatismo nelle situazioni impossibili.
Si tratta comunque di parole in libertà. Papa Bergoglio ci darà un sacco di sorprese e non darà mai le dimissioni. Il tratto caratterizzante del pontificato francescano non sarà comunque né politico (proiezione verso il mondo), né ecclesiastico (ricerca della grandezza della Chiesa), ma di tipo prettamente spirituale, centrato nel mistero di Cristo. “Non siamo una ONG che eroga certi servizi”, diceva ai cardinali in una delle sue prime allocuzioni.
Papa Bergoglio è stato per anni maestro di novizi nella Compagnia di Gesù, formato alla scuola di Sant’Ignazio di Loyola, il cui carisma riconosciuto è l’esperienza della preghiera secondo il metodo degli Esercizi spirituali (Il Sciascia di “Todo modo” non ha capito niente). Il grande successo che sta riscuotendo è dovuto al suo messaggio di fede in un linguaggio accessibile a tutti. La gente riconosce il suo pastore, si sente contagiata dalla sua religiosità sincera.
In questo senso Papa Francesco può rappresentare un fatto di grande innovazione e di risveglio della fede in una società secolarizzata e stanca di sentirsi ripetere il discorso sui ‘valori negoziabili’”.

Non so perché ma mi viene in mente quel buona sera dato dal Papa il giorno della sua proclamazione. Ecco, quello è stato una maniera di cominciare senza cominciare, una maniera di rispettare il tempo. Rispettando la sera che era scesa già sulla città, rispettando il proprio percorso e quello altrui che in fondo non hanno veramente bisogno di forme retoriche e formali per comunicarsi una fede; rispettando chi ci ha preceduto e chi verrà dopo di noi che troveranno in quel buonasera un segno di disarmante continuità, il gesto di una persona che sa indicare con semplicità ad altre persone  il fondo comune che ci unisce.

L’Italia è un paese per vecchi e oggi si parla spesso di dare spazio ai giovani, salvo poi non creare le condizioni serie affinché loro possano sviluppare le loro potenzialità, ma cosa potrebbero dare le persone anziane all’Italia di oggi? E perché, secondo lei, il rapporto tra generazioni si è così dissolto? E non intendo solo tra la sua generazione e quella che è venuta dopo, ma anche tra i cinquantenni e i trentenni di oggi, che aldilà del loro ipotetico rapporto di genitori-figli, a me non sembrino dialogare molto. Intendo dire che il dialogo tra loro sembra essere troppo basso nel mondo del lavoro, nell’analisi della società, nelle scelte progettuali etc…

I rapporti intergenerazionali hanno sempre costituito un busillis da non raccapezzarsi. Ora, con l’acutizzarsi della crisi e l’aumento spaventoso della disoccupazione giovanile, la situazione si è aggravata a tal punto che per la prima volta la generazione dei figli starà peggio di quella dei genitori. D’altra parte è sotto gli occhi di tutti l’incapacità della politica a dare risposte adeguate, per cui l’emigrazione rimane come unica alternativa.
Un problema più grande di me, non dispongo degli strumenti per risolverlo, nemmeno a livello familiare. Mi viene solo il ghiribizzo di rivolgermi ai miei coetanei che hanno figli in cerca di lavoro per dir loro con tutta franchezza: “Stavolta tocca a noi, generazione privilegiata, passata dalla povertà all’agiatezza grazie ai sacrifici delle generazioni che ci hanno preceduto, offrendoci anche un supplemento di vita. Dunque, al bando le ubbie della vecchiaia e a rimboccarci le maniche fianco a fianco coi nostri figli, mettendo in gioco i sudati risparmi per far girare la ruota dell’economia”.
Italia paese di vecchi? Sì, ma con tanto onore e dignità. Non vecchi lagnosi, rancorosi, brontoloni, ancorati al tempo che fu, ma più che contenti di dare spazio ai giovani, senza lasciare indietro nessuno. Un’alleanza di ferro tra generazioni potrebbe innescare quel guizzo vitale in grado di rimettere in moto la nostra geniale operosità e dare un calcio alla crisi.
In alternativa rimane un ripiego paranoico nel nido familiare al tepore protettivo ed asfissiante della chioccia in un declino inarrestabile della nazione.”

Cosa pensa del percorso di emancipazione femminile? A che punto è oggi la condizione femminile?

“Mi è venuto da ridere quando il nostro buon Presidente Napoletano è stato colto in castagna alla nomina delle (inutili) commissioni di saggi, tutte al maschile. Come la “voce dal sen fuggita” di Papa Ratzinger in occasione della dichiarazione di Ratisbona a proposito della presunta vacuità del messaggio di Maometto. Due episodi che descrivono con fedeltà la situazione della società nei confronti della condizione femminile e di altri movimenti di liberazione.
Dal secondo dopoguerra in poi c’è stata una crescente presa di coscienza della ingiusta discriminazione nei confronti delle donne con notevoli progressi verso l’equiparazione dei diritti. L’aspetto più problematico non è tanto rappresentato dalla lentezza nel cambiamento, quanto dalle resistenze che ancora si annidano nell’inconscio collettivo. La nostra società è stata immersa per secoli e millenni nella cultura patriarcale che riservava alle donne un ruolo subalterno e non bastano pochi decenni di autocoscienza per rimuovere il substrato maschilista che si è consolidato nel tempo. D’altronde non è da escludere che la violenza sulle donne assuma forme più subdole e distruttive da parte di maschi incerti e smarriti che sentono traballare il loro trono. I recenti episodi di femminicidio ci dicono chiaramente che non si deve abbassare la guardia, ma escogitare nuove forme di lotta e vigilare sui demoni acquattati dentro di noi.
Sul profilo professionale sono vissuto fino all’età matura nella devozione della Madonna, nel culto della mamma, in una visione idealizzata della donna, nella più totale ignoranza della sua condizione reale. Sono state le femministe a scuotermi dal sonno con la loro rabbia scomposta quando abitavo e lavoravo nelle borgate romane. Ma il mio terreno era dissodato e in breve tempo ho fatto molta strada. Quando poi sono arrivato a lavorare come psicologo in un consultorio familiare e cercavo l’appoggio delle femministe, queste erano sparite, lasciandoci in balìa delle galoppine di Comunione e Liberazione che ci cingevano d’assedio per intralciare l’applicazione della legge 194.
Ora seguo un po’ da lontano le battaglie delle donne, sporadicamente mi giunge l’urlo “Se non ora quando?” e faccio il tifo per Emma Bonino.
Con mia moglie un’armonia mai turbata da invasioni di campo o da qualsivoglia rivendicazione, ciascuno pago del proprio ruolo, in un approccio di tipo tradizionale. L’emancipazione femminile non può reggersi sulla rivalità, in una rincorsa affannosa per una parità ad oltranza, ma su di un equilibrio fondato nel rispetto reciproco e l’armonia delle diverse parti dell’anima, che, come ben sappiamo, non sono mai divise a senso unico”.

Le diverse parti dell’anima… Ma il Diavolo lo sa che ne abbiamo tante? Mi verrebbe da chiedergli prima di lasciarlo, prima di lasciare quest’uomo che ha accolto la mia anima nella sua casa con una tale, semplice e profonda umanità. Ma sarebbe una domanda inutile. Nessuno conosce la sensibilità del Diavolo. Nessuno soprattutto conosce la sua età, o più modestamente, neanche  il suo desiderio di venire a Roma. In questa città che chiamano eterna ma che si dimentica spesso di cogliere l’attimo…  (seconda parte – fine)

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