Un reality di avventura, Koh Lanta, trasmesso in Francia dal 2001 in onda sulla rete commerciale TF1 è stato teatro della morte di uno dei candidati,  Gerard Babin, 25 anni. Dopo dieci giorni è seguito il suicidio del medico che l’ha soccorso, Thierry Costa. La testata Arret sur images che da anni destruttura la comunicazione e i media aveva riportato la testimonianza anonima di un membro della  produzione del programma secondo cui il ragazzo non si sarebbe salvato a causa dei soccorsi poco repentini del medico. Le accuse sollevate contro il medico avrebbero pertanto motivato il suo gesto. 

Non è la prima volta che un candidato muore durante le riprese di un reality. Ad esempio in  Survivor versione  bulgara, un partecipante è morto di infarto,  in quella pakistana, un altro è annegato.
Francia non era mai accaduto prima, malgrado le accurate visite mediche che precedono il casting. La produzione avrebbe pertanto annullato la trasmissione, forse, per sempre.
Al di là della tragedie che si sono verificate sono emersi una serie di quesiti riguardanti il reality e il modello di produzione industriale. Una delle chiavi principali è infatti il ruolo dei candidati-  partecipanti. È così vero che non svolgono un lavoro vero e proprio? E che non si debba  invece parlare di un contratto di lavoro con relative assicurazioni? Quello che è innegabile è che corrispondono a un modello di lavoro sempre più diffuso, cioè lo sfruttamento degli individui  per creare contenuti in cambio della  garanzia di  visibilità, che dovrebbe garantire un indotto di lavoro successivo. Declinato a  dei livelli raffinati è quanto avviene con le grandi testate on line (Huffington post per primo), in cui la visibilità della firma giustificherebbe l’esiguità o l’inesistenza del compenso.
In Francia, un gruppo di ex candidati dell’Ile de la Temptation (lo stesso format della nostra Isola dei famosi senza famosi)  ha sporto denuncia e chiesto un lauto risarcimento sul quale si è pronunciata la  Cassazione.
La difesa dei produttori è stata che il contesto di divertimento non prevede alcun tipo di lavoro manuale, artistico e intellettuale e che in cambio i partecipanti dovevano unicamente accettare di essere ripresi nei momenti ludici, rispondere alle interviste su ciò che provavano e vari altri riti della trasmissione.
Gli avvocati  dei concorrenti hanno mostrato  un quadro ben diverso: “il concetto della trasmissione –  hanno detto – obbliga le troupes a riprendere e seguire i partecipanti” e questo  mostrerebbe  il loro rapporto di dipendenza col produttore, a prescindere dalla attività filmate.  Inoltre,  le attività “ludiche”  evocate dai produttori – hanno sottolineato –  non sono affatto secondarie.
La Corte di Cassazione ha concluso che la qualità di artista e interprete non può essere riconosciuta a quei partecipanti poiché non vi era nessun ruolo da interpretare né testo da recitare, in quanto veniva chiesto unicamente di essere se stessi e di esprimere le loro reazioni di fronte a situazioni con le quali si sono confrontati. “Chi accetta liberamente di  lasciarsi riprendere e di esprimere i propri sentimenti al momento della partecipazione a delle attività  di divertimento” non ha  fornito  alcun tipo di lavoro attoriale.
Tuttavia la fluidità della frontiera tra realtà e rappresentazione contribuisce a mantenere un equivoco che fa il gioco dei produttori, del modello di lavoro a costo zero, e della tipologia di rappresentazione che continua a essere spacciata per realtà ma che in realtà è un modello di controllo. 
Come giustamente fa notare il semiologo François Jost c’è tutta una narrazione che viene costruita in cui i ruoli dei personaggi sono sempre più fondamentali per l’andamento del programma: il bugiardo,  l’innamorato,  l’ingenuo… E ancora una volta si ripropone la complessità di classificazione dei programmi detti “ reality”.
Si tratta  veramente di un gioco “esprimere” i propri sentimenti affinché emergano dei personaggi così come ci si aspetta?  Ripetere fino all’abbrutimento e all’idiozia le stesse cose, si tratta veramente di un “divertimento”?
Basterebbe pensare a tutti i partecipanti di Maria De Filippi per avere ben chiaro che si tratta di personaggi che  forzano i loro tratti caratteriali per incarnare un ruolo. 
E allora qual è, ancora una volta la frontiera tra realtà e finzione? 
Né deve trarre in inganno, afferma  Jost, la semplicità del ruolo da interpretare:  se deve ripetere delle battute e deve “corrispondere” a un attesa, è chiaramente un attore. Di certo non è classificabile secondo i canoni classici, ma questa improvvisazione su delle linee guida  suggerite non è sempre più simile al lavoro dell’attore?
Se nella fase più sperimentale dei reality  (le prime edizioni del Grande Fratello) si domandava  ai partecipanti di essere se stessi, ora esattamente perché si devono ridurre i margini di fallimento di ascolti, i ruoli sono sempre più indotti, sempre più scritti e stabiliti. 
Secondo la Corte di Cassazione, chi improvvisa creerebbe un personaggio che però non è se stesso,  diversamente da quanto accade nel reality. 
Ma i partecipanti sono veramente se stessi?  Esprimono ciò che sentono?  Non incarnano dei ruoli a volte lontani da se stessi? 
Quando un tronista ad esempio fa credere di essere innamorato di qualcuna  non è  una sorta di interpretazione anche se improvvisata? 
È evidente che non si tratta di fiction, ma senza la tv,  quei partecipanti non avrebbero mai vissuto le stesse situazioni, inventate inoltre  per il piacere sadico dello spettatore.

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