Metro, Leggo e DNews sono i tre quotidiani gratuiti italiani sopravvissuti alla crisi dell’editoria degli ultimi anni. Ma nel 2013 ha ancora senso la free press?
Ha senso, cioè, investire su giornali usa e getta, da leggere e sfogliare principalmente nei ritagli di tempo (sul treno, in metropolitana, tra una pausa e l’altra delle lezioni all’università) in un’epoca in cui un italiano su due ha uno smartphone (stima di Andrea Rangone, coordinatore degli Osservatori della School of Management del Politecnico di Milano)? Insomma, appurato che la free press non è luogo di inchieste, reportage, lunghe interviste o approfondimenti: perché un lettore dovrebbe affidarsi a notizie snack vecchie di ore, quando con smartphone e tablet si può essere molto più aggiornati?
Secondo Antonio Di Rosa, ex vicedirettore di City (quotidiano gratuito di Rcs nato nel 2001 e chiuso nel 2012), il problema non si pone: “Ogni media ha il proprio spazio. Rispetto a smartphone e tablet, la free press ha un taglio sociale diverso: e, soprattutto, è gratuita. Certo è che è necessario saperla diffondere”. Giampaolo Roidi, direttore di Metro, si mostra più preoccupato: “Il tablet oggi è il nostro vero competitor, non c’è dubbio. Rispetto a pochi anni fa, ora dobbiamo confrontarci con supporti diversi. La preoccupazione c’è, ma è possibile fare un lavoro integrato, palleggiando tra carta e web”. E’ possibile farlo, ma non si fa. “Sarebbe realizzabile, ma uno sviluppo integrato e crossmediale necessita di risorse adeguate. E le risorse, in questo momento, mancano: oggi nel settore editoriale l’obiettivo di tutti, e a maggior ragione di chi pubblica una free press, è quello di tenere bassi i costi”.
Già, perché come se non bastassero smartphone e tablet a complicare la vita, il problema più importante con cui i quotidiani gratuiti devono fare i conti oggi “è quello della riduzione degli introiti pubblicitari”, come sottolinea Di Rosa, che spiega: “Attualmente la free press sta attraversando un momento di grande difficoltà, dovuta al calo della pubblicità. È una crisi che parte dalle fondamenta, i conti di tutte le televisioni e di tutti i giornali sono in rosso. Insomma, non si tratta di un problema esclusivo della free press, ma è pur vero che gli inserzionisti per i quotidiani gratuiti sono come l’ossigeno: e se manca l’ossigeno, muori. È il momento in cui bisogna resistere”. Già, ma come? Per Di Rosa “il problema alla base è che la free press deve fare i conti ancora con un pregiudizio culturale. Basti pensare che City aveva due milioni di lettori, ben più di qualsiasi quotidiano a pagamento, ma la pubblicità (che gli inserzionisti avrebbero pagato molto meno, in proporzione, rispetto agli altri giornali) latitava. Nei confronti dei quotidiani gratuiti ci sono pregiudizi negativi, si ha la convinzione che si tratti di prodotti di scarsa qualità. Ma non è così: basti pensare al caso francese di 20 minutes, e ai suoi introiti. Il fatto è che il fenomeno free press è ancora troppo poco conosciuto. Ma si tratta di un errore madornale, se si considera la composizione eterogenea del suo lettorato: persone di età e cultura diverse, appartenenti a tutte le classi sociali. Insomma, potenzialmente con la free press un inserzionista potrebbe raggiungere chiunque, dallo studente al pensionato, dal manager all’impiegata. Eppure essa viene ancora sottovalutata. Anche in Rcs, quando si è deciso di sopprimere City, si è tagliato, in realtà, uno dei prodotti che costava meno: l’ultimo bilancio presentava un rosso di due milioni di euro, decisamente inferiore rispetto a quello di altre testate. Insomma, se un’azienda non crede nella free press, è normale che questa muoia”.
D’altra parte gli ultimi dati Audipress (terzo quadrimestre del 2012) non sono affatto confortanti: rispetto al quadrimestre precedente, Leggo ha perso 72mila lettori (-5,1%), Metro 68mila (-4,6%) e DNews 26mila (-12,9%). Secondo Roidi “si tratta di un calo minimo, fisiologico, prevedibile. I lettori sono diminuiti semplicemente perché c’è stata una contrazione della diffusione. La free press vive solo di pubblicità, e la pubblicità negli ultimi cinque anni è diminuita per tutti i media: è evidente, quindi, che per un mezzo come la free press che non può contare sulle edicole e sulle vendite la crisi si dimostra più forte. La nostra unica arma di difesa è ridurre le tirature: per questo motivo abbiamo bloccato le pubblicazioni in Sardegna, dove per altro il nostro giornale andava bene. Ma erano gli inserzionisti a mancare: siamo arrivati sull’isola all’inizio del 2010 convinti di trovare un certo mercato pubblicitario, e invece abbiamo dovuto fare i conti con la crisi”. Per Roidi, insomma, la free press non è in crisi in quanto mezzo di comunicazione in sé, ma solo a causa della pubblicità. Il problema sta tutto lì: “Se avessimo i soldi per poterlo fare, stamperemmo più copie: e quelle copie verrebbero lette”.
Ma se è vero, come sottolinea lo stesso direttore di Metro, che “nel 2008 in Italia c’erano sei free press e oggi ce ne sono solo tre”, cosa si può fare? Di Rosa: “La soluzione è una sola: stringere i denti. Si fa fatica, ma dopo un po’ non si possono più fare tagli al personale. Io comunque mi auguro che si resista e si vada fino in fondo. Credo, comunque, che la free press non possa più essere sostenuta da grandi editori che pubblicano anche quotidiani e riviste (come Rcs), ma debba fare riferimento a editori specializzati, come nel caso di Metro”. Però c’è Leggo, che è proprietà di Caltagirone, editore del Messaggero e di molti altri giornali. “Vero, però lui ha ottenuto l’esclusiva di diffusione nelle stazioni, questo è fondamentale”.
Insomma, la pubblicità diminuisce, la concorrenza di smartphone e tablet si fa agguerrita: la free press esisterà ancora fra qualche anno? Per Roidi sì: “Non credo che questa crisi sia definitiva: anzi, sono convinto che chi ce la farà a superarla ne uscirà ancora più forte di prima”.