Trovandomi al Nord per lavoro passo da Brescia e incontro, dopo più di dieci anni che non ci vedevamo, un vecchio amico che qui abita e lavora. Non so se è per il fatto che una decina di anni sono un pezzo ancora breve della nostra vita o se è per quella facilità con cui l’intimità sa sciogliere il tempo, sta di fatto che dopo pochi minuti camminiamo insieme nella notte come se avessimo ripreso un discorso interrotto da poco.
Il fatto è che questo mio amico ha studiato e lavorato con me in teatro, con grande generosità ed impegno, nonostante per lui il teatro non fosse una scelta professionale, e questo me lo ha fatto sentire profondamente vicino. Michele Mocciola infatti è un magistrato e oggi è uno dei giudici del tribunale di Brescia ma continua una sua ricerca artistica attraverso la realizzazione di una rivista letteraria che si chiama I sorci verdi, una rivista di carta che sembra ancora emanare un’aura, pur nell’epoca della riproducibilità on line. Il solo toccarla mi commuove e mi fa pensare che bruciandola mi scalderei più che con qualsiasi monitor ma, si sa, mai farsi ingannare dalla apparenze: magari vedrei i sorci verdi se me la avvicinassi troppo al volto!
Decido di intervistarlo, il suo punto di vista è certamente anomalo anche in tempi in cui i magistrati fanno gli scrittori o gli imbonitori televisivi, insomma s’allargano, come si dice a Roma, ma il mio amico ha un candore, un’intensità antica che lo rende unico e prezioso, come un fiore verde su sfondo bianco o rosso (dato il colore dei miei capelli). Accanto a lui, come neve arrivata improvvisa, silenziosa e tenace, ci raggiunge anche Massimiliano Peroni, il bianco, Presidente dell’Associazione Culturale I Bagatti (che cura l’edizione de I sorci verdi) e redattore anche lui della rivista. La bandiera è al completo dunque…
Cominciamo con una domanda forse doverosa di questi tempi.
Che mestiere è fare il giudice, un mestiere tecnico, scientifico o qualcosa che comporta una riflessione costante anche sull’uomo, sulla sua evoluzione o condizione, sulla sua relazione con l’ambiente che lo circonda?
La professione del giudice è certamente un mestiere tecnico, nel senso che richiede operazioni intellettive di decifrazione dei dati di fatto e di collocazione di quei dati sotto una determinata fattispecie normativa, soprattutto se pensiamo alla giurisdizione penale; questa operazione richiede a sua volta un’opera di ricostruzione del sistema normativo ma anche degli elementi fattuali sottoposti disordinatamente all’attenzione del giudice. Insomma, c’è un mosaico da ricomporre in modo che le singole tessere combacino quanto più ragionevolmente possibile, ciò richiedendo una stringente logicità delle proposizioni attraverso le quali si arriva alla conclusone, cioè alla decisione. In questo contesto una più ampia riflessione sulla condizione umana può essere indotta nel giudice dalle diverse situazioni conosciute ma rimane una riflessione personale assai poco o per nulla rilevante nell’esercizio della funzione; salvo che si intenda un approfondimento della conoscenza dei comportamenti umani, questi sì utili a valutare, nell’ambito di quelle operazioni intellettive del giudice che ho sinteticamente indicato, la vicenda nel suo complesso.
Ma se consideriamo ogni professione, in specie quelle che si occupano della vita degli uomini, come degli osservatori sulla condizione umana, allora anche dai giudici potrebbero venire spunti, riflessioni, indicazioni su come migliorare la vita degli individui in una società. Voglio dire che il punto di vista della magistratura è un punto che potrebbe servire anche alla prevenzione dell’illegalità, potrebbe dare un contributo alle scienze sociali o, più in generale, allo sviluppo culturale di una società, no?
Che cosa non funziona oggi nell’ esercizio della funzione giurisdizionale?
Gli aspetti critici e di scarsa efficacia ed efficienza della funzione giurisdizionale penale – aspetti costantemente segnalati nel dibattito quotidiano di questi ultimi anni – sono probabilmente connessi alla sempre maggiore complessità della società e delle sue strutture. Si può dire, cioè, che di pari passo con una società multietnica, con strumenti sempre più sofisticati, con maggiori possibilità di incontro e relazione, si è progressivamente affievolita la tensione intellettuale nell’esercizio di quella funzione. In pratica ci si è affidati agli strumenti tecnologici, di indiscutibile utilità laddove facilitano l’apprensione dei dati e la loro archiviazione, ma penalizzanti dell’approccio intellettivo del giudice, qualora questi si accontenti di accorpare e raccogliere i dati a discapito della più complessa e faticosa operazione di sintesi. Per sintesi s’intende l’operazione che, dopo la selezione dei dati raccolti e la loro ricomposizione secondo criteri logici, perviene ad una decisione fondata proprio sulll’interpretazione dei dati stessi. Ed allora la fase dell’analisi spesso ha avuto il sopravvento sulla fase della sintesi, e alla complessità dell’attuale epoca è corrisposta una semplificazione della risposta giurisdizionale in termini di minore padronanza della capacità di sintesi. Il corollario conclusivo di siffatti cambiamenti è l’efficacia ed efficienza degli strumenti e l’inadeguatezza di una funzione giurisdizionale.
Se, dunque, si può dire che c’è una maggiore superficialità nel comportamento del giudice che ridimensiona la complessità delle cose e delle persone, come si può riportare la complessità al potere?
In questa situazione una soluzione potrebbe essere un radicale ripensamento delle modalità di esercizio della funzione giurisdizionale abbandonando l’idea che questa debba avere quale suo elemento fondante e portante l’operazione intellettiva di sintesi di cui ho detto (che si può tradurre nell’obbligo della motivazione dei provvedimenti). Un’altra soluzione può essere invece quella di conservare questa caratteristica attuale della funzione giurisdizionale a certe condizioni:
– di uscire dall’idea assai limitante che l’efficienza degli strumenti si traduce automaticamente in una efficienza della funzione;
– di rivitalizzare l’operazione intellettiva della sintesi attraverso una pratica quotidiana della stessa senza mai nessun cedimento al riguardo, assumendo lo sforzo e il rischio di impiegare in questa attività un tempo adeguato, cioè un tempo umano, che non può e non deve essere paragonato alla velocità degli strumenti tecnici di cui disponiamo.
Si parla molto in questi anni di magistratura che fa o farebbe politica con le sue azioni, io sposterei il focus e ti chiederei: la magistratura fa ricerca? Si accorge di sè, si interroga su di sé o tende ad esplicare solo una funzione?
Cioè arriva alla forma giuridica attraverso un processo complesso e articolato, che comporta quasi automaticamente, direi anche inconsciamente, una riflessione su se stessa o no?
A mio avviso nell’ultimo ventennio la concentrazione del dibattito sulla politicizzazione della magistratura e lo scontro a volte molto acceso sui rapporti tra il potere legislativo ed esecutivo da un lato, e il potere giudiziario dall’altro, ha allontanato la magistratura stessa da una riflessione più profonda sui cambiamenti in corso. E questo in riferimento alle forme che l’attività giudiziaria assumeva e alla progressiva perdita di quello sforzo intellettivo di cui ho parlato prima; nel contempo ha favorito posizione difensive di fronte a quegli attacchi con inevitabile elusione degli approfondimenti circa le conseguenze di un abbandono del rigoroso rispetto della forma.
Già la forma… Tu da anni studi teatro, danza, letteratura provando ad esprimerti, a metterti in gioco, e oggi ti occupi insieme ad altri di produrre una rivista che si occupa sostanzialmente di letteratura ma anche di arte. La tensione di questa ricerca, di questa necessità, è cambiata negli anni o è rimasta sempre uguale?
Il mio percorso di conoscenza del corpo attraverso tecniche di teatro e di danza contemporanea, ed oggi attraverso tecniche di yoga, nelle molteplici forme a disposizione, si è sviluppato per circa vent’anni, inizialmente come mera curiosità verso contesti assai diversi sia da quelli intellettivi tipici dell’attività giudiziaria sia da quelli più fisici ma tipicamente collocati nelle palestre, quindi è proseguito sulla scia di un crescente interesse per quelle pratiche che aspirano a ripristinare una unità fisica abbandonando la concezione che scinde corpo e pensiero. In questo percorso corporeo si è inserita una parallela ricerca letteraria attraverso gli spunti offerti continuamente dalle letture diversificate fino all’individuazione degli autori (poeti, scrittori, etc.) più confacenti alla mia ricerca. Ad una forma corporea più completa si è aggiunta una forma mentis anch’essa più completa e utile altresì per le esigenze intellettive necessarie all’esercizio della funzione giudiziaria. Si è trattato di percorsi che hanno richiesto dedizione, impegno e coinvolgimenti personali, ma nel tempo i benefici sono stati molteplici: da una migliore comprensione dei meccanismi corporei, all’utilizzo di esercizi in grado di stabilizzare posture e atteggiamenti più consoni alla struttura fisica, fino alla padronanza e all’utilizzo della respirazione quale metodo di cura e di rilassamento.
Già il respiro… ora sento quello della neve: Massimiliano si muove come se fosse stanco di restare su in cielo o sullo sfondo. Non posso non cercare una sua risposta… che spererei fosse pura come lo sguardo bianco e dolce con cui mi tocca.
A vostro parere in questo paesaggio culturale e sociale italiano così desolante (sempre ammesso che lo si riconosca come tale), ha senso fare riviste, spettacoli, film che quasi nessuno va più a leggere, vedere etc? O bisogna occuparsi di avviare progetti che, prima dell’espressione individuale, mettono al centro dell’azione il compito di elevare il livello culturale degli italiani? Ovviamente è chiaro che fare riviste, film etc è un modo che serve anche ad elevare o meglio si potrebbe dire sviluppare il livello culturale generale ma spesso queste “opere”, ripeto, non incontrano nessuno o troppe poche persone e dunque servono molto poco. Senza considerare che, proprio per il fatto che incontrano poco il pubblico, spesso si parlano addosso, non contengono internamente (o la perdono strada facendo) una tensione narrativa, comunicativa (quale essa sia) ma si chiudono automaticamente dentro un compiacimento che le fa bastare a se stesse. E’ una vecchia questione, insieme complessa e semplice, ma voglio spiegarmi meglio affinché la domanda non sia equivocabile: non intendo che un’opera debba rinunciare al suo carattere sperimentale, alla sua ricerca, alla sua complessità ma, a mio parere, questa tensione può coesistere con un desiderio di “arrivare” e incidere che la ampli, la sorregga come una base, un trampolino. Cosa si può fare per ricostruire, per ampliare questo legame tra autori e spettatori?
Massimiliano: Il panorama italiano è sicuramente compromesso nel senso che ha perso di molto la molteplicità e varietà delle proposte culturali e attualmente si presuppone che esista un tipo di pubblico interessato solo all’intrattenimento e ad opere non troppo sperimentali. La sfida sta nello scardinare questo presupposto e quindi ricercare, assumendosi i rischi connessi, il proprio pubblico e anzi crearselo a poco a poco interessandolo ad attività diverse e nuove. In questa prospettiva qualsiasi iniziativa culturale può essere proficua e formativa pur accompagnandosi ad una inscindibile espressione individuale che è sempre frutto di una propria elaborazione, di una maturazione nell’ambito di un determinato percorso.
Credo che occuparsi di arte, letteratura, cultura come di qualcosa che si avverte vitale, essenziale, debba comportare innanzitutto un lavoro su di sé, una sorta di autoformazione continua, incessante, scoprendosi fonte di inaspettate risorse creative. Solo da questa solitudine fondamentale, poi, può scaturire qualcosa che mira a produrre effetti non effimeri in un pubblico e pertanto ambisca a durare nel tempo. Io penso che bisogna quasi dimenticare il proprio tempo, o meglio la versione ridotta e fuorviante che ne danno i media contemporanei, per immettere nel tempo qualcosa di valore, qualcosa che potrebbe persino cambiare la società in cui viviamo, forse indirettamente, forse lentamente, sempre in modo imprevedibile.
Bisogna di conseguenza che oggi cambi addirittura la figura stessa dell’artista, a costo di scontrarsi di primo acchito con l’impopolarità: non più un artista performer o, peggio, “personaggio provocatorio”, ma una specie di artista-educatore, che col suo lavoro e nel rapporto anche diretto col pubblico sia capace, con umiltà e insieme con fermezza, di far apprendere di nuovo le potenzialità incredibili dell’arte per lo sviluppo dell’essere umano.
Comunque, le persone, più o meno colte che siano, alla fin fine premiano con la loro attenzione, più spesso di quanto si possa credere, tutto ciò che trasmette davvero bellezza di sensazioni e ricchezza di pensiero.
Naturalmente, non si può piacere a tutti né si può pensare che tutti siano interessati a tutto.
Dal vostro punto di vista di operatori culturali non professionisti e dal tuo, anche, di giudice che detiene o rappresenta un potere, qual’è, oggi, il rapporto tra gli operatori culturali, gli artisti e il potere? Intendo sia tra il potere degli operatori culturali (direttori di festival, Musei, Rassegne, curatori, critici, professori, dirigenti scolastici etc) e gli artisti, che di tutti loro con il potere politico o, perché no, giudiziario?
Per quanto ci riguarda, il problema è la sclerotizzazione del potere culturale, ovvero l’esclusività della gestione degli eventi culturali da parte di circoli che rimangono chiusi al ricambio o più in generale al cambiamento, nonchè indifferenti a iniziative non omologate alla loro visione, a nostro parere unilaterale. Eventuali connivenze con altri poteri sono secondarie rispetto a questa intrinseca chiusura.
Per me, in linea generale, il potere è una realtà umana inevitabile, non necessariamente malvagia o corrotta, ma diventa meschino o pericoloso, se non è accompagnato dal senso di responsabilità di chi lo esercita, e se pretende di rendersi inattaccabile a critiche nonché a riforme. Mi sembra che in Italia un po’ tutti i poteri soffrano di mancanza di responsabilità e di insofferenza a critiche e mutamenti. Quello che intristisce del potere culturale è che non sembra per niente distinguersi dagli altri, mentre dovrebbe per definizione essere composto da persone almeno in qualche misura mosse da sentimenti disinteressati, animate da un minimo di autocritica.
Più in concreto – interviene Michele – dato che gli operatori culturali oggi, anche se in una forma mondana e superficiale, appartengono spesso al mondo della sinistra, e la sinistra da vent’anni ha circoscritto la sua attività in contrapposizione esclusiva alla politica berlusconiana, la cultura si è appiattita sull’attualità, riducendo e banalizzando la sua profondità e la sua autonomia. In pratica la cultura dominante oggi è parassitaria, e non disturba più di tanto i poteri costituiti, compreso quello giudiziario, che non viene toccato né indagato. Non si tratta di denunciare questa o quella disfunzione ma di osservare e scandagliare, di ogni potere, i meccanismi, i linguaggi e le loro trasformazioni.
Chi sa perché mi viene da pensare a Totò, a come ridicolizzava ogni potere con un candore e una libertà disarmanti… Se ci fosse cosa direbbe a Grillo?
L’arte a vostro parere deve rischiare, avventurarsi in zone pericolose, proponendo uno sguardo rivoluzionario, a vari livelli destabilizzante, o deve anche saper confortare, rassicurare, proteggere gli uomini?
La magistratura ha imparato qualcosa, nel tempo, dall’arte?
Michele: L’arte secondo noi per definizione è destabilizzante ma al contempo, più che protettiva, costruttiva laddove induce a uno sguardo più completo sulla condizione umana; e dunque da un lato dissolve gli stereotipi rassicuranti, dall’altro favorisce maggiore lucidità e capacità di comprensione e di interpretazione.
L’attività giudiziaria e quella artistica pur operando in contesti del tutto differenti hanno in comune la necessità di un rigoroso rispetto della forma se ambiscono a una qualità elevata, fermo restando che la forma nell’arte ha un rapporto decisamente più diretto con la creatività umana e perciò ha una maggiore mutevolezza. Un magistrato che frequenta il settore artistico se ne può avvantaggiare anche nel suo quotidiano lavoro giudiziario proprio sotto il profilo del riconoscimento dell’importanza della forma.
Già ma che cos’è la forma? Etica ed estetica, diceva qualcuno, sono complementari, una sola cosa. Dietro una forma c’è sempre un lavoro: anche quando la forma sembra formarsi da sè… qualcosa la scolpisce.
Intanto anche il tempo ci ha scolpito. S’è fatto tardi e bisognerà pur dormire. Altrimenti non prenderemo forma domani. Guardo ancora la rivista poggiata sul tavolo e penso che, per quanto inutile, ha un aspetto migliore di quello che dovrebbe avere una sentenza.
E poi le sentenze sono delle congetture formalizzate diceva qualcuno, delle ipotesi che mai restituiranno del tutto i nostri sogni.
Di un delitto mi ha sempre affascinato ciò che sta oltre al suo compimento: non il fatto in sé, dunque, ma la tensione che esso esprime.
Nella tensione c’è la follia dell’uomo ma anche la sua saggezza, forse.
La tensione del sonno, per esempio, che se, come Macbeth, dovessimo uccidere, ci porterebbe dritti davanti al grande portone del castello. Lì dove Kafka aspettava in silenzio i suoi fantasmi.
Insomma meglio dormire, ora che siamo ancora sospesi come tre pagine bianche sullo sfondo nero della notte. Chissà che il sogno non sia un po’ verde! Chissà…