Se il dipendente denuncia irregolarità nelle attività aziendali, producendo documentazione comprovante gli illeciti, non può per questo essere licenziato. La Cassazione nega che si tratti di violazione del dovere di fedeltà.
La Suprema Corte, sezione lavoro, con la sentenza n. 6501 del 15 marzo 2013, in accoglimento del ricorso presentato da un lavoratore licenziato, ha chiarito la portata dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. escludendo, nella fattispecie, che possa configurare violazione della norma de qua, tale da fondare un provvedimento espulsivo, la condotta del dipendente che denuncia fatti illeciti verificatisi in azienda, producendo copie di documenti aziendali a sostegno dell’esposto.
L’obbligo di fedeltà gravante sul dipendente aziendale. L’art. 2105 c.c. impone al lavoratore dipendente non solo un divieto di concorrenza nei confronti del datore di lavoro ma anche un obbligo di riservatezza, in virtù del quale il prestatore di lavoro non può divulgare i segreti aziendali -per tali intendendosi tutte le notizie inerenti all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa – conosciuti in ragione del proprio inserimento nell’ambito della struttura alla quale è addetto.
Al riguardo, secondo l’opinione giurisprudenziale ormai consolidata, in adesione ad un’interpretazione estensiva del dato testuale, il lavoratore deve certamente astenersi dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., nonché da qualsiasi condotta che si ponga in contrasto con i doveri connessi alla sua collocazione all’interno dell’organizzazione aziendale e, in ogni caso, da atti idonei a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro (Cass. n. 2474/2008).
Il suddetto obbligo permane anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, per un ragionevole lasso di tempo.
Ed ancora, perché sia integrata la violazione dei doveri di fidelitas, l’orientamento giurisprudenziale prevalente prescinde dalla sussistenza di un danno concretamente percepibile ed economicamente apprezzabile, essendo sufficiente, a tal fine, un’attività meramente preparatoria e prodromica, dunque solo potenzialmente lesiva degli interessi datoriali (Cass., n. 4328/1996).
La violazione dell’obbligo di segretezza ex art. 2105 c.c., se comprovata, è idonea ad integrare un motivo legittimo di licenziamento.
Orbene, la Corte di Cassazione, nel caso di un dipendente licenziato per aver presentato un esposto alla procura della Repubblica di Napoli in cui si denunciavano irregolarità che sarebbero state commesse in relazione ad un appalto per la manutenzione di un semaforo, ha affermato l’illegittimità del licenziamento comminato, in quanto privo dei presupposti della giusta causa o del giustificato motivo, richiesti dall’art. 5 legge n. 604/1966.
Ed infatti, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che la denuncia all’autorità giudiziaria, da parte del dipendente, di fatti potenzialmente rilevanti in sede penale integri una condotta extralavorativa idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro, trattandosi, in primis, di un comportamento lecito, nonchè, in determinati casi, penalmente doveroso.
Al riguardo, si segnala come la Suprema Corte abbia già avuto occasione di precisare che l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. debba essere riferito unicamente alle attività lecite dell’imprenditore (Cass., n. 519/2001).
In secondo luogo, in conformità con l’orientamento già espresso in precedenza, (Cass. 7/12/2004 n. 22923) la Cassazione riconosce , in caso di licenziamento intimato al lavoratore per aver prodotto in giudizio fotocopie di documenti aziendali , a corredo di un esposto o di una denuncia penale,la prevalenza del diritto di difesa rispetto alle esigenze di riservatezza rivendicate dall’Azienda, potendo incorrere nel rischio di incriminazione per calunnia.
Ne consegue l’applicabilità delle regole ordinarie in tema di onere probatorio, che impone al datore di lavoro di provare l’esistenza della giusta causa o giustificato motivo del recesso; gravando, invece, sul lavoratore l’onere di dimostrare il carattere ritorsivo e, quindi l’illegittimità, del licenziamento comminato.
Il principio di diritto a presidio della liceità delle attività aziendali. Ribaltando le statuizioni della Corte territoriale, la Corte conclude che non integra giusta causa o giustificato motivo di licenziamento la denuncia da parte del dipendente all’autorità giudiziaria, anche mediante allegazione di documenti aziendali, di fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda senza averne previamente informato i superiori gerarchici, salvo che risulti l’intento calunnioso da parte del lavoratore, escludendo, condivisibilmente, che il dovere di fedeltà previsto dal codice civile possa giungere a configurarsi come un vero e proprio “dovere di omertà”.