La sentenza del Consiglio di Stato ipoteca il futuro del centro commerciale “La Cartiera” di Pompei. Per i giudici la costruzione è abusiva. Titolo edilizio, permesso di costruire, autorizzazioni, delibere, pareri favorevoli della regione Campania, della provincia di Napoli e del comune di Pompei per l’apertura del complesso si scontrano con un vizio di fondo: il complesso non è frutto di una ristrutturazione dell’esistente e insiste su un’area qualificata come industriale e nella quale non sarebbe stato possibile aprire un’attività commerciale.
Il corto circuito – Il provvedimento con cui l’esistenza stessa de “La Cartiera” è messa in discussione (sentenza del Consiglio di Stato, Sezione IV, del 27 novembre 2012-22 gennaio 2013 n. 365) sembra un racconto ai limiti della fantascienza per il numero dei titoli concessi su una base falsata e senza alcun controllo successivo. La Fergos Srl acquista uno stabilimento industriale della Aticarta: vuole costruirci un centro commerciale demolendo e ricostruendo corpi di fabbricati preesistenti. Peccato che la destinazione commerciale non fosse consentita in una zona urbanisticamente classificata come «D1-industriale» nel piano regolatore.
Il Comune rilascia alla società l’autorizzazione per una ristrutturazione edilizia che maschera un intervento di nuova costruzione. Sagome modificate, superfici incrementate, diversa collocazione degli edifici nel lotto con cambiamenti alla rete viaria: una trasformazione completa del panorama che vanta, però, il possesso di tutte le autorizzazioni.
Per i giudici amministrativi la sentenza di primo grado è da annullare, rimettendo a fuoco i motivi della contestazione che ruotano attorno alla possibilità di stanziare un centro commerciale su un’area a destinazione industriale. La disciplina applicabile, spiegano in Consiglio di Stato, è inerente strettamente al concetto di sedime riportato nel Testo unico dell’edilizia. Nella valutazione se l’intervento proposto dalla società acquirente fosse stato sull’esistente o di nuova costruzione, i giudici richiamano alla memoria la parziale apertura «almeno alle dislocazioni interne al lotto» proposta dalla circolare 7 agosto 2003 n. 4171 del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e i richiami all’applicazione pedissequa della norma della giurisprudenza, anche a livello costituzionale. Ne consegue che il manufatto è da considerarsi nuovo e deve seguire una disciplina ben più restrittiva dedicata all’apertura di grandi superfici di vendita, comprendente la VIA (valutazione di impatto ambientale) «come prescritto dall’art. 20 del Dl n. 152/2006».
Gli atti concernenti il rilascio del titolo edilizio e il permesso di costruire, l’autorizzazione ambientale, la nota della Soprintendenza dei Beni artistici di Napoli e il parere favorevole condizionato del Comitato tecnico dell’Autorità di bacino del Sarno, si legge in sentenza, si devono annullare.
Si aggiunge poi il mancato rispetto delle proporzioni tra area commerciale e parcheggi ma probabilmente a questo punto è il minore dei vizi del centro: «Per ogni metro quadro di superficie di vendita dovevano essere previsti 2 mq. di parcheggio mentre nella fattispecie a fronte di 24.000 mq. di superficie di vendita era destinata a parcheggio un’area di soli 47.980 mq dai quali va sottratta la superficie (pari a 16.511 mq.) di parcheggi gravati da servitù di uso pubblico».
Gli effetti collaterali – Canta vittoria la società Oplonti che aveva proposto il ricorso per la riforma della sentenza emessa dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania. In cantiere ha la costruzione di un altro “paradiso dello shopping” non molto distante, a Torre Annunziata. Arrivano i grattacapi per il Comune pompeiano, responsabile di non aver controllato come si deve la conformità delle opere alle autorizzazioni concesse: per non sbagliare, agli organi d’informazione locale il sindaco ha già dichiarato di aver operato seguendo le decisioni degli altri organi di controllo che avevano la responsabilità di valutare vincoli e prescrizioni.
La vera spada di Damocle pende intanto sulla testa dei titolari dei 115 negozi e dei dipendenti per i quali il rischio chiusura vorrebbe dire perdere proprietà e lavoro.
Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 365 del 22 gennaio 2013