“Sono a favore di un referendum: dentro o fuori l’Europa”. Con queste parole il primo ministro britannico David Cameron ha annunciato mercoledì (23 gennaio 2013) al mondo intero, che la Gran Bretagna potrebbe, presto, uscire dall’Unione Europea.

Parlando dalla sede di Londra dell’agenzia di stampa Bloomberg, Cameron ha annunciato ufficialmente che se vincerà le prossime elezioni politiche (maggio 2015) proporrà, entro il 2017, un referendum per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Il discorso del premier inglese sull’Europa era atteso da tempo : inizialmente previsto il 18 gennaio, era stato più volte rimandato anche a causa della crisi degli ostaggi in Algeria.

Le voci sul possibile referendum inglese circolavano ormai da giorni tuttavia, l’annuncio di Cameron ha lasciato il segno e verrà forse ricordato come un momento decisivo nella storia europea del ventunesimo secolo. “L’Europa, ha esordito il primo ministro, è stata in grado, tramite la collaborazione internazionale, di assicurare la pace nel continente. Oggi, però, i tempi sono cambiati”, “oggi, il principale e prevalente obiettivo dell’Unione Europea è differente: non ottenere la pace, ma assicurare la prosperità”. Da sempre insofferente ai vincoli crescenti dell’Unione, il partito conservatore inglese ha assunto, negli ultimi tempi, un atteggiamento sempre più critico nei confronti dell’Europa, interpretando da una parte il secolare desiderio di indipendenza degli inglesi, e dall’altro il senso di disagio della classe media, agli occhi della quale, l’Ue appare la causa, piuttosto che, la cura della terribile crisi economica in atto nel Vecchio Continente.

Un biglietto di sola andata
David Cameron si è mostrato consapevole dell’importanza della posta in gioco asserendo che il referendum rappresenterebbe un “biglietto di sola andata”: dentro o fuori dall’Europa e non si torna indietro. “Non sono un isolazionista”, ha detto, sottolineando di volere “un accordo migliore” per Londra, “ma anche per l’Europa”, perché “la delusione della gente verso l’Ue è ai livelli più alti sempre”. È evidente che la volontà di Londra è principalmente quella di contrattare le condizioni per la sua permanenza nell’Unione Europea. Negli ultimi anni la Gran Bretagna si è schierata su posizioni sempre più contrarie alla linea dei trattati europei, fino ad arrivare al famoso “no” al Fiscal Compact di un anno fa. In quell’occasione il Regno Unito ha rifiutato di aderire al trattato sulla fiscalità in Europa, segnando una profonda rottura con il gruppo dei Paesi fondatori dell’Unione, Germania in testa.

Cameron vorrebbe un’Europa diversa: “Più flessibile, con il potere che possa tornare agli Stati membri”, perché, “i Paesi, che sono diversi tra loro. Fanno scelte diverse”. Quello che però è unico e deve rimanere tale, secondo il premier inglese, è il mercato: “Al centro dell’Unione europea deve esserci , come c’è, il mercato unico. Ma voglio che completarlo sia la nostra comune missione”. Un esigenza pienamente in linea con la linea politica iperliberista del partito conservatore britannico: lo Stato ridotto al minimo indispensabile e Mercato unico sempre più preponderante.

“Una politica che voglia prendere solo il meglio dall’Europa lasciando agli altri il “lavoro sporco” non è un’opzione”: questa la linea comune di Berlino e Parigi sulla questione. Limitare la costruzione europea ad un megastore, senza tentare in qualche modo di creare una “comunità” fra i differenti popoli europei è senz’altro limitativo, tuttavia l’Unione Europea, così come la conosciamo oggi, non può funzionare a lungo. Se gli iperliberisti e i sostenitori del laissez-faire sono scontenti dell’Unione per la scarsa libertà dei mercati e l’opprimente burocrazia, i sostenitori dello stato sociale sono altrettanto contrariati da un Europa che sembra accrescere sempre di più le disuguaglianze sociali negli Stati membri.

Alcune delle domande poste da Cameron nel suo discorso sull’Europa dovranno, presto o tardi, trovare risposta : “Per noi, l’Unione Europea è un mezzo per raggiungere un fine”, ha chiosato il premier inglese , “prosperità, stabilità, l’ancora di libertà e democrazia, sia dentro l’Europa che oltre i suoi confini. Chiediamo con insistenza: come? perché? con quale obiettivo?”

I limiti dei referendum secessionisti
La domanda a questo punto sorge spontanea: è giusto che i cittadini europei si pronuncino sulla loro volontà di far parte dell’Unione europea? E, in generale, le persone hanno il diritto di scegliere se continuare o meno a far parte di una comunità politica? Il caso della Gran Bretagna è solo l’ultimo dei numerosi referendum, proposti di recente, per ratificare l’appartenenza di un popolo ad uno Stato o sancirne la scissione: si pensi al referendum lanciato dalla Lega per staccare il Veneto dall’Italia o alle proposte secessioniste recentemente avanzate dalla regione della Catalogna nei confronti della Spagna.

La risposta a questa domanda non è semplice come potrebbe apparire: se da un certo punto di vista potrebbe sembrare naturale che le persone scelgano se continuare a far parte di un’entità politica nazionale o sovranazionale (come nel caso dell’Ue), bisogna tener presente che gli Stati liberali in cui viviamo si fondano sulla teoria del Contratto Sociale.  Nella sua accezione liberale, questa teoria politica fu introdotta dal John Locke. Secondo il filosofo inglese il governo legittimo nasce da un accordo, un contratto sociale con il quale i membri di una comunità decidono quali principi devono governare la vita della loro società. Questo contratto originario è ovviamente immaginario: non è possibile individuare il momento in cui nella storia delle persone decidono di vivere in maniera associata piuttosto che individualmente. Secondo Rousseau, il principio su cui si basa questo immaginario contratto è la volontà generale. Ma difficilmente si troverà mai un consenso unanime sui principi fondamentali su cui fondare una qualunque entità politica e in ogni caso i consenso della maggioranza non assicura, di per sé, uno Stato più giusto.

Consenso o beneficio?
Nessuno di noi, cittadini comuni, ha mai in effetti ratificato la Costituzione italiana in base alla quale è regolata la vita della nostra società. Tuttavia siamo tenuti a sottostare alle leggi dello Stato in cui, volenti o nolenti, ci troviamo a nascere. Questo perché l’obbligo a rispettare il contratto sociale non nasce dal consenso ma dal vantaggio: l’assenso viene dato, implicitamente, nel momento in cu si gode di alcuni benefici che lo Stato assicura. Cioè mandando i propri figli a scuola, usufruendo delle cure della sanità pubblica, o anche solo percorrendo un’autostrada è come se si acconsentisse a far parte di una determinata comunità politica.

La questione se l’obbligo a rispettare un contratto venga dal consenso o dall’usufruire di un vantaggio è molto dibattuta e spesso ci si imbatte in queste controversie anche nella vita di tutti i giorni: gli esempi si sprecherebbero. In ogni caso l’esistenza di un contratto non assicura che questo sia equo e vantaggioso per entrambe le parti contraenti: un diverso livello di informazione può facilmente portare una parte ad approfittarsi dell’altra (si pensi ai tanti contratti beffa stipulati dai consumatori per cambiare compagnia telefonica o l’azienda fornitrice di energia elettrica). Per ovviare a questi inconvenienti la versione del contrattualismo sociale “aggiornata” al ventesimo secolo, prevede, per bocca di John Rawls, che il contratto sociale immaginario sia stipulato sotto un “velo di ignoranza” a causa del quale tutte le parti in gioco sono su una posizione di parità non conoscendo il posto che andranno a occupare nella società dopo aver deciso i principi che devono governarla. Ognuno potrebbe trovarsi ad essere un banchiere o un senzatetto così che nessuno abbia interesse a far prevalere gli interessi di una parte sociale sull’altra.

Un nuovo contratto sociale europeo
Nella realtà però le cose sono ben diverse e quando si crea una nuova entità politica e sociale, come l’Unione Europea, spesso prevalgono gli interessi di coloro che detengono il potere economico. Gli interessi dei gruppi finanziari e bancari hanno avuto, in questi anni, la precedenza su quelli della classe media e della maggioranza della popolazione europea e alcuni Paesi hanno goduto di maggiori benefici di altri rispetto al mercato unico dell’Ue. l’Inghilterra ha goduto fino ad ora di cospicui benefici, almeno da un punto di vista delle esportazioni, così come tutti i paesi “virtuosi”, mentre non si può dire lo stesso per i Paesi mediterranei. Da un punto di vista di un “contrattualista” l’Inghilterra avrebbe pochi motivi per chiedere un referendum sull’Europa visto che se ne è, in qualche modo, avvantaggiata.

Sicuramente la Grecia avrebbe, rispetto alla GB, più diritto di interrogarsi sui benefici del far parte dell’Ue, visto che fino ad ora i cittadini greci hanno ricevuto da essa solo svantaggi. Il 2017 è ancora lontano e gli inglesi avranno tutto il tempo di decidere se rimanere, in qualche modo, legati al Continente. Nel frattempo la proposta del referendum avanzata dal premier britannico, può contribuire a sollevare un dibattito fondamentale circa i principi e le finalità che dovranno guidare l’Europa negli anni a venire. forse giunto il momento fare un bilancio dei vantaggi e degli svantaggi sociali, prodotti, fino a questo momento, dalla nuova “casa comune europea”. Diritti e vantaggi sociali da definire e assicurare a tutti i cittadini europei e non solo agli apparati finanziari e alle società di casa presso la City di Londra.

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