Conta oltre 250 professionisti, di cui 49 soci, sei sedi – da Milano, Roma, Verona a Londra, Bruxelles e Shanghai -, lo studio legale associato NCTM che ha scelto come propri i valori della letteratura indicati da Italo Calvino nelle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Puntando su leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coesione e tanta professionalità, NCTM si è affermato in pochi anni come uno dei principali studi italiani. “Le aree di competenza, spiega Piero Corigliano, partner dello Studio legale associato, coprono tutti gli ambiti del diritto d’impresa”.
Lo studio NCTM ha seguito l’acquisizione del marchio Lumberjack da parte del gruppo turco Zylan. Come si prepara, dal punto di vista giuridico, un’acquisizione del genere?
Si comincia dal perimetro, che va ritagliato per quanto possibile assecondando gli interessi del proprio cliente. Per esempio, se si assiste l’acquirente, si tenderà a lasciar fuori attività non ritenute strategiche, passività potenziali che rappresentano rischi non accettabili, etc.; mentre ci si dovrà assicurare di includere nel perimetro gli asset essenziali del business, es. un marchio, un contratto, un immobile. È poi necessario, attraverso una approfondita due diligence, acquisire contezza dei rischi principali, al fine di poter condurre una trattativa specifica in ordine alla loro allocazione (fra acquirente e venditore). Last, but not least, il prezzo: se è basato sulla valutazione di determinati parametri patrimoniali o reddituali, sarà necessario prevedere e disciplinare compiutamente meccanismi di aggiustamento, sulla base delle consistenze effettivamente rilevate dall’acquirente a seguito del perfezionamento dell’acquisizione.
Quali sono le difficoltà che si possono incontrare in campo internazionale?
Quando, come nel caso di Lumberjack, si assiste un soggetto estero nell’acquisizione di una target italiana, si aggiungono alcune componenti di complessità.
Innanzitutto, il nostro referente è tipicamente il legale (interno o esterno) della società acquirente, che ragiona e matura aspettative sulla base delle categorie giuridiche che gli sono familiari, che possono però risultare molto diverse dalle nostre. Diventa importante quindi, sin dal principio, accertarsi di quali siano le aspettative del cliente, e di quali possano essere le difformità fra il suo “diritto” di provenienza e il diritto italiano suscettibili di creare ostacoli, in maniera da portarle subito all’attenzione del cliente, per poter identificare soluzioni soddisfacenti per tutti.
Ci sono poi i profili fiscali, che anche vanno affrontati ab origine. In particolare, l’acquirente estero avrà necessità di identificare – sulla base di un’analisi che dovremo fare noi in via preventiva – la struttura ideale da un punto di vista fiscale per acquisire e quindi gestire la target. La scelta dipenderà dal caso concreto, e fra i fattori che avranno un peso possono esserci, a titolo esemplificativo: il numero di lavoratori che l’acquirente intende avere alle dipendenze della target; la struttura di capitale e quindi la proporzione fra equity e indebitamento; i rapporti contrattuali che la target italiana potrà avere con le altre società (estere) del gruppo acquirente; i flussi di cassa prospettici che in ultima analisi dovranno uscire dalla target e “rimpatriare” all’acquirente.
Le norme italiane facilitano o limitano questo tipo di operazioni in particolare e le fusioni in generale?
Senz’altro ci sono aree del nostro diritto che non rappresentano un incentivo per i potenziali acquirenti esteri. Penso soprattutto al diritto del lavoro, e ad alcune aree del diritto amministrativo che rendono molto burocratizzati determinati momenti della vita di un’azienda.
Superati questi scogli, per il resto il nostro diritto societario non pone limiti di particolare rilievo alle operazioni di M&A cross-border; anzi, la flessibilità della disciplina dettata dal codice consente a un gruppo estero di costituire e gestire una società in Italia con relativa facilità, consentendo, ad esempio, agli organi sociali di riunirsi per teleconferenza e adottare decisioni anche per semplice consenso scritto.
La stessa disciplina specifica delle fusioni, poi, quando vi è il pieno consenso di tutti i soci di acquirente e target (circostanza che si verifica nella gran parte delle operazioni di M&A cross-border), mette a disposizione una procedura significativamente semplificata, con l’eliminazione di alcuni requisiti onerosi e l’abbreviamento di molti dei termini di legge.
Quali sono in genere le esigenze dell’azienda committente? Il tipo di controllo? Le modalità di gestione? Le agevolazioni fiscali?
In genere, la prima preoccupazione è la strutturazione fiscale. L’acquirente in tanto perseguirà un’operazione, in quanto la medesima possa essere completata, e successivamente la target gestita, in modo fiscalmente “efficiente”. Pertanto, l’identificazione della struttura (i.e. perimetro dell’acquisizione, veicolo acquirente, e origine dei fondi per il pagamento del prezzo) è rimessa in larga misura ai nostri fiscalisti, che evidentemente lavorano di concerto con gli avvocati del gruppo M&A.
Quanto al controllo, nelle operazioni cosiddette “strategiche”, in cui una società acquisisce una partecipazione in un’altra società del medesimo settore, l’acquirente tende generalmente ad acquisirne il controllo; ciò essenzialmente al fine di poter estrarre quelle sinergie che costituiscono la ratio di queste operazioni. Possono darsi casi di acquisizione del 50%, finalizzata all’istituzione di una joint venture, ma si tratta di fattispecie eccezionali. Al contrario, quando a comprare è un acquirente c.d. “finanziario” (i.e. un investitore istituzionale, come un fondo di investimento), allora non sono infrequenti le acquisizioni di partecipazioni di minoranza; in tali casi, tuttavia, la governance è invariabilmente disciplinata nel dettaglio da apposite pattuizioni parasociali, che detteranno anche una minuziosa regolamentazione dell’exit, ovvero dei tempi e degli strumenti per la separazione del socio finanziario da quello industriale.
Infine, nella quasi totalità delle operazioni di M&A, siano esse cross-border o domestiche, strategiche o finanziarie, distressed o in bonis, esigenza primaria del cliente, acquirente o venditore che sia, è la celerità di esecuzione. Il che impone lo spiegamento di un team di diversi professionisti, generalmente minimo tre del dipartimento M&A – un junior (che si occupa di tutta la minutaglia), un mid-level (che preparerà le prime bozze dei documenti e coordinerà la due diligence) e un senior (che si interfaccerà col cliente e cui sarà demandata la trattativa vera e propria e l’adozione delle decisioni di rilievo) – oltre agli specialisti del caso (es. amministrativisti, IP, labour, etc.).
Nella letteratura americana e in quella cinematografica, si pensi per esempio a “Una donna in carriera”, le capacità creative sembrano andare di pari passo con quelle professionali. È così anche nella realtà? Anche negli studi legali italiani si registrano casi di grossa rivalità?
Leggere avvocato e creativo nella stessa frase sembrerà un ossimoro ai più, e forse c’è un fondo di verità in questo. Molto del nostro lavoro è basato sulla prassi di mercato, e quindi sui precedenti recenti, così la tendenza è ad adeguarsi piuttosto che a reinventare qualcosa di nuovo ogni volta. Questo per beneficiare di riflessioni e studi già svolti in precedenza, anche nell’interesse della celerità. È chiaro però che poi ogni operazione fa storia a sé, e quasi sempre ci saranno delle peculiarità che richiederanno una soluzione tagliata su misura. È qui che il professionista lucido ed esperto può veramente offrire valore aggiunto, identificando presto una soluzione che al contempo sia cautelativa per il proprio cliente, senza però risultare così indigesta per la controparte da far arenare la trattativa.
Quanto alla rivalità, nella mia esperienza quando si lavora fra “peers” non ce n’è. È molto più facile portare a termine un’operazione quando dall’altra parte c’è uno studio di pari livello, perché la preparazione, la conoscenza della prassi e l’esperienza sono allineate, e quindi c’è fiducia e stima reciproca, e le soluzioni vengono fuori quasi da sole, in maniera naturale. Al contrario, quando ci si confronta con professionisti di estrazione diversa, prende il sopravvento la diffidenza, e anche le cose più semplici possono diventare complicatissime. Poi è chiaro che al top lo studio A farà di tutto per apparire meglio dello studio B, ma questo perché si compete nello stesso mercato, non perché vi sia rivalità; ma altri possono essere di diverso avviso.
Che tipo di professionalità occorre per potersi occupare di operazioni del genere? È sufficiente un curriculum italiano o è fondamentale una frequentazione all’estero? In quest’ultimo caso quali sono le università più accreditate?
Occorre dedizione massima e capacità di multitasking. Molti dicono che è importante l’attenzione per i dettagli, è verissimo. Ancor più importante però diventa la capacità di mantenere una visione di insieme, senza farsi distrarre proprio dai dettagli. Portare a termine un’operazione di M&A impone sempre di mantenere “sul radar” diversi problemi da risolvere e coordinare i rapporti con i molteplici soggetti coinvolti (propri colleghi, controparte, advisor vari, cliente, autorità terze, etc.).
Senz’altro aver studiato, e magari lavorato, anche all’estero può rappresentare un plus importante. Ma non sempre; non tutti i ragazzi che tornano da un master o da un’esperienza lavorativa all’estero, infatti, sono divenuti professionisti migliori. Dipende dalla predisposizione del singolo, e in ogni caso in queste esperienze bisogna sempre essere consapevoli che non basta scriverle sul curriculum; quello che conta davvero è ciò che concretamente si è fatto (o chi si è conosciuto).
Quanto a quali università, difficile dire, ce ne sono molte accreditatissime. Certo con l’Ivy League americana non si può sbagliare.
Nella sua carriera, qual è stato il momento di maggiore soddisfazione?
Quando dopo un’operazione la controparte mi chiese di divenire mia cliente. Lo è ancora.
E quello che le ha dato più preoccupazioni?
Forse gli esami di stato, a Roma e a New York; sono momenti cruciali nella carriera di un professionista, e per un ragazzo rappresentano un grosso stress.
Il suo motto?
Prepararsi. Se ci si è preparati al meglio, studiando tutti gli elementi a disposizione ed elaborandoli, ogni sfida può essere affrontata con successo; successo credo significhi anche saper prevedere la sconfitta e fermarsi (o raccomandare al proprio cliente di farlo). Personalmente, cerco sempre di prevedere tutti gli scenari in anticipo, tutte le possibili ramificazioni di ogni scelta; col tempo diviene una deformazione mentale.
Tre consigli a giovani colleghi che iniziano a lavorare con lei.
Primo: non iniziare a fare l’avvocato (tanto meno “d’affari”) pensando che possa essere una scelta interlocutoria. Non lo è. È un lavoro molto impegnativo, in cui non esistono scorciatoie. Soprattutto nei primi 10-15 anni di carriera, il lavoro deve essere la priorità numero uno; non c’è spazio per fidanzate, hobbies o altre distrazioni; ci si trova a dover cancellare vacanze pianificate e pagate; il calendario e l’orologio non esistono, si lavora 24/7. Quindi, se c’è una predisposizione naturale per lo studio, curiosità, desiderio di “capire” e “convincere”, allora quella dell’avvocato è una professione che può dare grandi soddisfazioni (e col tempo anche diventare piacevolmente remunerativa). Al contrario, se manca la “passione” per questo lavoro, i sacrifici che inevitabilmente occupano il cammino del giovane avvocato ben presto si fanno insopportabili. Come ricorda spesso, Paolo Montironi, uno dei fondatori del mio studio, “successo” viene prima di “sudore” solo nel vocabolario.
Secondo: partire dalle basi, e poi pian piano salire su concentrandosi su quello che più appassiona. Molto spesso, soprattutto nei grandi studi, i praticanti neolaureati sono contenti di essere coinvolti da subito su incarichi che paiono loro esotici (es. IPO, OPA, SPA, LOI, MOU, e chi più ne ha…). Fare la tradizionale gavetta, anche e soprattutto giudiziale, invece, ritengo sia essenziale per un avvocato. Se non si è mai tentato di venire a capo di un fascicolo di documenti, o provato a scrivere un ricorso per decreto ingiuntivo, a mio modo di vedere si è persa l’occasione di fare una importantissima esperienza formativa. Soprattutto, se non si hanno bene chiare in testa le categorie giuridiche basilari del diritto civile, è inutile fare salti in avanti e sperare di potersi occupare di diritto societario, o addirittura di operazioni straordinarie come quelle di M&A; sarebbe come pensare di poter scrivere un libro, senza aver imparato la grammatica.
Terzo: sbagliare fa parte del lavoro. È importante essere capaci di riconoscere i propri errori (innanzitutto con sé stessi, e poi con chi si lavora), perché dagli errori in effetti si impara moltissimo. Ma soprattutto, nascondere un errore può portare a conseguenze più gravi dell’errore stesso, come pure difendere una tesi sbagliata solo perché la si è sposata in precedenza. Al contrario, riconosce un proprio errore richiede sicurezza e confidenza. Personalmente, quando un professionista riconosce un suo errore, mi trovo naturalmente a fidarmi di più di quella persona.