“L’opinione”, secondo il Devoto-Oli (Vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano 1979, vol. II, p. 304) è “l’interpretazione di un fatto”, ovvero “la formulazione di un giudizio in corrispondenza di un maturato criterio soggettivo e personale”.
E allora, reato di opinione non può che essere quel reato che prevede una condotta attraverso la quale si manifesta l’interpretazione di un fatto, o la formulazione di un giudizio (ovviamente su di un fatto); si tratta di interpretazioni e/o giudizi che l’ordinamento, evidentemente, disapprova e che intende sanzionare penalmente.
Partendo da tali premesse, possiamo qualificare come reati di opinione le fattispecie di vilipendio, l’apologia di reato e, comunque, tutte quelle ipotesi in cui non si “racconti” un avvenimento e/o non si rappresenti una situazione, ma, essendo essi certi e indiscussi, si esprimano valutazioni (negative, in un caso, positive, nell’altro).
E invece, secondo la vulgata, il reato di opinione “principe” sarebbe la diffamazione, con la conseguenza che “è incivile reprimere un’opinione con il carcere”.
Le cose però non stanno esattamente così, o, almeno, non sempre così.
L’attività di cronaca e di critica, da chiunque esercitata, è lecita, estrinsecandosi nell’esercizio di un diritto (art. 51 cod.pen.), come ha ampiamente chiarito la giurisprudenza, a condizione che i fatti riferiti siano veri, abbiano rilevanza sociale e che gli stessi fatti e la relativa valutazione siano esposti con misura e senza eccessi verbali e inutile volgarità.
E’ ovvio poi che anche la critica (e non solo la cronaca) debba avere una solida base fattuale: non posso articolare critica se non critico un fatto effettivamente verificatosi e se non lo riferisco alla persona “giusta” (per tutte: Cass. Sez. quinta, sent. n. 20474, 14.2/24.5.2002, ric. PG in proc. Trevisan, Rv 221904 + Cass. Sez. quinta, sent. n. 34432, 5.6/12.9.2007, ric. Blandini e altri, Rv 237711).
Dunque: riferire un fatto non vero, sia che si intenda fare (semplice) cronaca, sia che si voglia esercitare il diritto di critica, non costituisce (non può costituire) manifestazione di un’opinione. La non-verità non è un giudizio.
Falsum est quidquid in veritate non est, sed pro vero adseveratur, dicevano gli antichi.
E se, diffondendo la non-verità, ho diffamato qualcuno, è evidente che non ho commesso un reato di opinione. Potrò, al limite, avere espresso (anche) un giudizio, ma si tratterà di un giudizio relativo a un fatto (un comportamento, un orientamento, un’affermazione) che ho, contrariamente al vero, attribuito a qualcuno, il quale è vittima, non di un’opinione avversa, ma di una falsità.
E, a ben vedere, se la diffamazione non è interpersonale, ma “mediatica”, vale a dire veicolata attraverso i mezzi di informazione (giornali, radio, TV, internet, ecc.) costui non è l’unica vittima; in tal caso abbiamo altri soggetti danneggiati da una informazione non veritiera: i destinatari della comunicazione (i lettori, i radioascoltatori, gli spettatori, i frequentatori del blog). E non ci risulta che a costoro i falsari dell’informazione abbiano mai chiesto scusa.
Se, accanto al diritto di informare, esiste il diritto di essere informati, allora, forse, la diffamazione “mediatica” va ripensata come delitto plurioffensivo.
A ben vedere, infatti, il diritto di libera manifestazione del pensiero è un diritto con più titolari, in posizione non contrapposta, né parallela, ma convergente: il comunicante e i destinatari della comunicazione; diritto il cui contenuto consiste nella possibilità di esercitare la cronaca/critica dei fatti socialmente rilevanti, diritto che vede la libertà del comunicante come funzionale a quella dei destinatari, cui, come si diceva, compete il diritto di essere –compiutamente e correttamente- informati.
In questi termini, per altro, è anche (sia pure implicitamente) la più risalente giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. quinta, sent. n. 4492, 12.1/29.4.1982, ric. Lo Greco, Rv 153477, conf. Cass. Sez. quinta, sent. n. 3467, 20.1/16.4.1984, ric. Saviane, Rv. 163712), che colloca, con nettezza, il diritto di cronaca (giornalistica) tra i diritti pubblici soggettivi, in quanto riconosciuto, appunto, dall’art. 21 Cost. e consistente nel potere-dovere, conferito al giornalista, di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata.
Per la Corte costituzionale (cfr. sentenza 94/1977), esiste un interesse generale della collettività all’informazione. Conseguentemente, ha osservato la Consulta, i media devono essere considerati, nel nostro ordinamento, come in ogni sistema realmente democratico, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse.
Ed è questa poi la ragione -vale la pena di ripeterlo- per la quale la stessa Corte, con la più antica sentenza 225/1974, ritenne che, per scongiurare il nascere di situazioni di oligopolio in campo televisivo (considerate le modalità tecniche con le quali, all’epoca, veniva diffuso il messaggio televisivo), il servizio doveva essere gestito direttamente dallo Stato.
Ancora prima, la Corte, con la sentenza n. 105/1972, aveva chiarito che l’interesse generale alla informazione implica, in regime di libera democrazia, una pluralità di fonti informative, il libero accesso alle medesime, l’assenza di ingiustificati ostacoli legali alla circolazione delle notizie e delle idee.
Partendo da tali presupposti, non sarebbe inconcepibile l’approntamento di un “codice”, ovvero di uno “statuto” dei diritti dei lettori, dei radioascoltatori, degli utenti di internet, degli spettatori: diritto ad avere informazioni frutto di un serio lavoro di ricerca e accertamento, diritto alla conoscenza dell’assetto proprietario dei media, diritto a intervenire con (effettive) rettifiche e repliche, diritto a esser garantito contro frodi pubblicitarie e così proseguendo, allo scopo di ottenere una informazione finalmente liberata da ambiguità, reticenze, opacità.
E d’altronde, anche a livello sopranazionale, e con estrema chiarezza, viene affermato che libertà di informazione e diritto di essere informati costituiscono un unicum inscindibile, così come viene reso esplicito che la ricezione e trasmissione di notizie e informazioni, per essere “libera”, devono escludere ingerenze da parte delle autorità, devono poter attraversare frontiere e devono subire quelle sole restrizioni esplicitamente previste dalla legge.
Infatti l’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, adottata dall’assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1948, sancisce il diritto di ogni individuo di “cercare, ricevere, e diffondere informazioni e idee“.
Il principio è poi ribadito con maggiore forza dalla “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” del 4 novembre 1950, all’articolo 10, nel quale si aggiunge, tuttavia, che l’esercizio di queste libertà di espressione, comporta doveri e responsabilità anche per garantire “la protezione della reputazione e dei diritti altrui”.
Negli anni successivi, il “Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici” del 19 dicembre 1966, all’articolo 19.2, amplia il principio già espresso dalle altre fonti, aggiungendo che deve essere garantita la possibilità di : “…. diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa“.
Naturalmente quel che vale, in questo campo, per la stampa, vale anche per gli altri media.
Per altro, il diritto a essere informati già avrebbe potuto essere “estratto” dallo stesso corpo della Costituzione; e non solo ex art 21, quale presupposto logico del diritto alla diffusione delle proprie idee, ma anche “in combinazione” con gli artt. 9 (promozione della cultura e della ricerca scientifica) e 33 (tutela dell’arte, della scienza e dell’istruzione); ma, a ben vedere, anche con l’art. 1, in quanto non può esservi sovranità popolare, se non vi è informazione diffusa, e con l’art. 2, perché non vi è tutela dei diritti, se non vi è consapevolezza degli stessi.
Vengono, allora, chiamati in causa i principi pluralistici e partecipazionistici, alla base della nostra Carta fondamentale, configurandosi il diritto a essere informati come un “diritto sociale” o un “interesse diffuso”, analogo al diritto allo studio, alla salute, all’ambiente, sul quale è possibile fondare una disciplina che favorisca una più ampia ricezione di elementi di conoscenza, nell’interesse dei cittadini e della loro partecipazione.
Anzi: non può essere dubbio che la libertà di espressione (la libertà di esprimersi senza dover chiedere autorizzazioni o subire censure) si configuri, rispetto alle “altre” libertà, addirittura come una pre-condizione e, al contempo, un elemento a sua volta strumentale.
Invero, da un lato, nessuna scelta potrebbe realmente essere qualificata tale, se non operata da persona debitamente informata e, quindi, consapevole; dall’altro, nessun controllo (politico, giudiziario o anche semplicemente sociale) potrebbe essere efficacemente esercitato sull’effettivo esercizio (e dunque sul rispetto da parte di terzi e, in primis, di chi detiene il potere) delle altre libertà, se tale esercizio non fosse oggetto di cronaca, se, cioè, mancasse l’informazione sulle concrete modalità di fruizione.
Partendo da tali premesse, appare del tutto coerente che, ancora una volta, la Corte costituzionale, con riferimento alla estrinsecazione (all’epoca) statisticamente più frequente del “diritto di comunicazione”, abbia esplicitamente affermato (sent. n. 175/1971) che il giornalista, nell’esplicare il suo compito d’informazione, garantito dall’articolo 21 della Costituzione, esercita un diritto e quindi, sul piano penalistico, ben può invocare, come si anticipava, l’esimente prevista dall’articolo 51 c.p., tutte le volte in cui “divulghi, col mezzo della stampa, notizie, fatti o circostanze, che siano ritenute lesive dell’onore o della reputazione altrui, sempre che la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l’esplicazione dell’attività informativa, limiti deducibili dalla tutela di altri interessi costituzionali protetti”.
Così, pur non dubitando che esistano limiti al diritto di informare gli altri, manifestando il proprio pensiero (Corte costituzionale sent. 86/1974), il Giudice delle leggi risolve il conflitto tra i due valori costituzionalmente protetti, enunciando il principio in base al quale essi si limitano reciprocamente: ognuno si atteggia come limite dell’altro, di talché, se è vero che la libertà di stampa (rectius: di informazione) non può soffocare la tutela dei diritti della persona, è altrettanto vero che i diritti individuali non possono annullare la libertà di stampa (informazione). È ovvio, d’altronde, che difficilmente il diritto di manifestazione del pensiero potrà intrattenere “rapporti di reciprocità” con altri diritti, che non siano quelli all’onore, alla reputazione, alla riservatezza.
Ma allora: 1) se l’informazione (veritiera) è indispensabile per la vita della polis, tanto che informare ed essere informati rappresentano le due facce della stessa medaglia, 2) se, come hanno chiarito la Corte costituzionale e la Corte di cassazione, quello di informare è un diritto pubblico soggettivo, che anzi, a ben vedere, costituisce un vero potere-dovere di chi fa professionalmente informazione, 3) se la diffusione di notizie (rispondenti al vero) soddisfa una pressante esigenza della collettività, tanto da essere ritenuta (si badi bene) un “servizio oggettivamente pubblico” (cfr. le sentenze sopra citate), ne dovrebbe conseguire che il diffondere consapevolmente, oltre un accettabile margine di opinabilità, notizie non vere costituisca condotta fortemente riprovevole e meritevole di adeguata sanzione repressiva.
Saremmo di fronte a una sorta di nuova (e socialmente perniciosa) immutatio veri: la “falsità mediatica”, per la cui coerente costruzione, tuttavia, dovrebbe essere capovolta la “gerarchia del danno”, nel senso che la principale vittima non andrebbe più individuata nel soggetto diffamato, ma nei soggetti ingannati, vale a dire nei fruitori della notizia: i lettori, gli ascoltatori ecc. di cui prima si diceva.
I reati di falso, d’altra parte, sono, in genere (o possono essere), reati plurioffensivi: la falsità e il conseguente inganno (effettivo o potenziale) vengono puniti in quanto tali, ma possono esservi soggetti che dall’inganno abbiano ricevuto un danno diretto.
E non si dica che l’ordinamento già prevede casi di deceptio collettiva, come nella ipotesi contravvezionale di cui all’art. 656 cod.pen. (pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico), in quanto si tratta di una ipotesi residuale, del tutto desueta (che sembra prevedere, in veste di persone offese, plebi facili alla suggestione, piuttosto che cittadini consapevoli) e che comunque sussiste solo quando la falsità della notizia (lasciamo perdere la tendenziosità, che è concetto inafferrabile) possa provocare moti di piazza e sconvolgimenti tali da mettere a rischio, appunto, la regolarità e la sicurezza della vita associata.
Ci rendiamo conto che le riflessioni appena espresse possono apparire alquanto eretiche in un momento storico come quello che stiamo vivendo, un momento nel quale, non essendo il Parlamento riuscito per tempo a varare una legge (dichiaratamente) ad personam in tema di diffamazione, si è provveduto con il più appropriato strumento della grazia presidenziale; e tuttavia, se di riforma dell’art. 595 cod.pen. e di legge sulla stampa si deve parlare, allora sarebbe opportuno riconsiderare i termini del problema in maniera organica, soffermandosi, non solo sulla sanzione (come l’emergenza ha suggerito), ma anche sulla struttura del reato.
Quanto alla sanzione, bisogna però sgombrare il campo da una falsa notizia (ancora una volta la cattiva cronaca!): non è vero che l’Italia sia l’unico Stato europeo che reprime la diffamazione con il carcere.
Come risulta da uno studio comparativo dell’Ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, sulla giustizia e sulla cultura del Senato della repubblica (fascicolo 390/ottobre 2012), in Germania, in Spagna e in Francia la reclusione è prevista per i casi più gravi (per la legge francese, il caso è certamente grave quando il diffamato è persona esercitante una pubblica funzione); in Gran Bretagna la diffamazione è stata depenalizzata, ma, per i casi più gravi, la liquidazione del danno può essere “rinforzata” con funzione di deterrenza (exemplary damages) e il caso è certamente grave quando il giornalista non firmi col suo nome ma faccia uso di uno pseudonimo (a meno che non ricorrano ragioni di sicurezza).
Il fatto è che la diffamazione è un reato che può provocare danni quasi impercettibili, ma anche danni irreparabili; dunque sarebbe necessario conservare in capo al giudice la possibilità di avere a disposizione un ampio ventaglio sanzionatorio e un’adeguata possibilità di intervento risarcitorio.
Non va però trascurato che spesso costituisce una vera e propria forzatura la individuazione, nel caso concreto, del dolo del reato in questione, con particolare riferimento non alla specifica intenzione di “parlar male” di qualcuno (l’animus diffamandi non è richiesto), ma alla piena consapevolezza della falsità della notizia.
Troppe volte la giurisprudenza ricorre alla ipotesi del dolo eventuale, quando il giornalista diffonde una notizia che egli fermamente crede vera, pur senza avere esperito i necessari (e doverosi) accertamenti.
Fatto sta che “il confine non viene mai attraversato” e che la ipotesi della colpa cosciente (che comporterebbe assoluzione) non viene nemmeno presa in considerazione.
Eppure c’è una differenza incolmabile tra la diffusione di una notizia falsa, frutto della trascuratezza e/o della scarsa professionalità del giornalista (o dell’affidamento che fa sulla fonte) e la consapevole pubblicazione di una “bufala”, messa in circolazione con la deliberata e riconoscibile intenzione di denigrare un soggetto (magari attraverso una insistita campagna stampa, posta in essere per “onorare” un impegno di killeraggio assunto verso qualche potente).
Si tratta di due condotte strutturalmente diversissime, psicologicamente separabili, moralmente inconfondibili, con ben diversa incidenza sociale e, quindi, meritevoli di sanzioni giuridiche che dovrebbero essere ontologicamente distinte.
L’introduzione della diffamazione colposa e, a fianco ad essa, la costruzione di una diffamazione dolosa, a dolo specifico, non ci sembra una soluzione da scartare a priori, riservando, ovviamente, alla seconda il più severo trattamento sanzionatorio.
Se i media rappresentano indispensabile strumento di controllo democratico, avere, attraverso di essi, consapevolmente diffuso notizie false acquista un oggettivo valore lesivo della corretta formazione della pubblica opinione e, dunque, della libertà di scelta/giudizio/decisone dei cittadini, danno ben più grave, in fin dei conti, di quello procurato al soggetto direttamente diffamato.
Ci sembrano in grave contraddizione coloro (i “sacerdoti della notizia”) che, da un lato, pretendono –giustamente- garanzie di massima libertà per l’informazione, “cane da guardia” della democrazia (giungendo –meno correttamente- a ipotizzare addirittura la non punibilità dei reati eventualmente commessi dal giornalista per procurarsi la notizia); dall’altro, non collegano a tale alta funzione una corrispondente responsabilità, sostenendo, in ultima analisi, la natura bagattellare degli “scempi di verità” che il giornalista possa consumare (e dunque mettendo in dubbio la necessità di intervento del giudice penale).
In grave contraddizione, ovvero in perfetta malafede.