E’ alta la preoccupazione degli osservatori arabi per il dossier nucleare iraniano e per la presenza di armi chimiche in Siria, che minano la sicurezza della regione mediorientale.

A catturare l’attenzione degli analisti non c’è solo il paventato raid aereo israeliano sulle centrali nucleari in Iran ma anche la scarsa competenza degli scienziati iraniani e le conseguenze che potrebbe avere per tutta la regione un eventuale incidente. Sarebbero almeno un milione gli iraniani che potrebbero morire subito per una eventuale esplosione della centrale nucleare iraniana che si trova nei pressi di Bushehr. A rivelarlo è una fonte dell’industria nucleare russa al quotidiano kuwaitiano “al Watan“.

Commentando l’improvvisa chiusura della centrale atomica di Bushehr, di fabbricazione russa da 1.000 Megawatt di potenza, con la rimozione del combustibile dall’impianto avvenuta a metà ottobre, la fonte spiega che è stata riscontrata “la caduta di alcune piccole parti esterne del contenitore del reattore sotto le celle a combustione nucleare, e sembrava che i dadi fossero allentati“. L’esperto spiega che in caso di esplosione della centrale sarebbero morti almeno un milione di iraniani. “Si tratta di un grosso pericolo anche per i paesi arabi del Golfo che si trovano nell’area – ha aggiunto la fonte – le radiazioni potrebbero colpire milioni di arabi della regione“. Il timore della stampa kuwaitiana è che la centrale possa essere obiettivo di azioni di sabotaggio che metterebbero a rischio la salute di tutta la regione del Golfo.

Non sono rassicuranti però nemmeno le notizie che filtrano dai siti israeliani i quali raccontano che nella centrale si sarebbero verificati una serie di guasti che hanno fatto temere il peggio, dalla fuoriuscita di materiale radioattivo all’esplosione del nocciolo. Si sarebbe rischiata una situazione simile a quella di Chernobyl. Per diversi giorni oltre un milione e cinquecentomila persone sono state, senza saperlo, ad alto rischio. Inoltre da tempo funzionari occidentali hanno a più riprese espresso preoccupazione per lo scarico del carburante dalla centrale fatto in maniera decisamente sbrigativa. I dubbi che sono stati sollevati riguardano soprattutto la sicurezza delle operazioni e la confusione che si crea intorno ai pericolosissimi materiali usati e all’impossibilità di monitorarne uso e fini.

Per questo e per il timore che la segretezza imposta dalle autorità iraniane intorno alle attività della centrale possano nascondere il suo uso anche per fini militari, le agenzie di intelligence americane hanno intensificato le attività di spionaggio presso la centrale di Bushehr. Il giornale “The Wall Street Journal” ha rivelato che il monitoraggio dell’impianto avverrebbe per mezzo di droni che operano nel Golfo Persico. Uno di questi potrebbe essere proprio il velivolo che le autorità iraniane sostengono di aver catturato oggi nel Golfo persico, nonostante gli Stati Uniti abbiano smentito di aver perso uno dei loro droni.

Questa mattina le Guardie della rivoluzione islamica iraniana hanno annunciato di essere entrate in possesso di un drone statunitense. Secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa iraniana “Fars“, si tratta del secondo aereo senza pilota statunitense caduto nelle mani delle autorità di Teheran. Il velivolo sarebbe entrato nello spazio aereo iraniano poco prima di finire delle mani delle Guardie della rivoluzione islamica di Teheran. La notizia è stata data dall’ammiraglio Ali Fadwi, il quale ha spiegato che “le forze della marina delle Guardie della rivoluzione iraniana hanno catturato ildrone mentre sorvolava la regione del Golfo dopo diversi giorni di attività di spionaggio e ripetute violazioni dello spazio aereo iraniano”. Le forze iraniane sarebbero riuscite ad entrare nel sistema del drone modello ScanEagle spingendolo ad atterrare per poi catturarlo. E’ il secondo velivolo spia americano che finisce nelle mani degli iraniani, permettendo così a Teheran di sviluppare la sua tecnologia di drone, gli stessi usati di recente dalle milizie Hezbollah contro Israele.

Intanto tiene ancora banco nella regione il problema dell’arsenale di armi chimiche nelle mani di Bashar al Assad. Questo perché l’uso delle armi chimiche da parte del regime siriano, paventato ieri dall’amministrazione statunitense, “sarà l’ultima carta che Bashar al Assad giocherà prima di cadere”. E’ quanto afferma il colonnello Abdel Salam Abdel Razzaq, ufficiale disertore dell’esercito siriano passato con i ribelli, al giornale arabo “al Sharq al Awsat“. “Il ricorso alle armi chimiche avverrà quando Assad avrà perso ogni speranza di ottenere qualcosa dalla trattativa diplomatica – spiega il militare, – anche se in modo molto limitato il regime ha già usato questo tipo di armi lo scorso anno nella zona di Bab Amro e ha minacciato di farlo ad al Zabadan dopo aver distribuito ai soldati le maschere e le medicine da assumere in caso di lancio di bombe chimiche. E’ da un mese e mezzo che sta conducendo delle prove nella zona di al Museilama, a est di Aleppo, con degli esperti iraniani”.

L’ufficiale conferma che lo scorso mese le armi chimiche sono state spostate dal deposito dei monti di al Qalmun verso diversi aeroporti in Siria, tra cui quello di al Damir, nella provincia di Damasco, mentre un gran quantitativo è stato inviato in Libano su delle auto civili. Il generale denuncia, infine, il fatto che gli uomini dell’Esercito libero non sono preparati ad affrontare questo genere di pericoli. “Abbiamo solo informazioni preliminari su come gestire un attacco chimico – ha aggiunto Razzaq. – Si tratta di nozioni apprese durante gli addestramenti fatti nel periodo del servizio militare. Il problema è che bisogna informare anche i cittadini del fatto che quando i caccia sorvolano le città a bassa quota e le esplosioni non sono molto forti allora vuol dire che stanno usando questo tipo di armi“.

Quello delle armi chimiche siriane è un problema che attanaglia i paesi della regione sin dall’inizio della rivolta siriana. Sarebbe proprio per risolvere questo problema che l’ex vice presidente egiziano e capo dell’intelligence Hosni Mubarak, Omar Suleiman, sarebbe morto. Non sarebbe deceduto negli Stati Uniti a causa di una malattia, come riferito dalle fonti ufficiali, ma per le ferite riportate durante l’attentato avvenuto a Damasco il 18 luglio scorso. Secondo quanto riferisce il capo dell’opposizione interna siriana, Haytham al Maleh, Suleiman si trovava quel giorno nella sede delle forze di sicurezza di Damasco dove era in corso un vertice tra il governo di Assad e i capi dell’intelligence. In quell’attentato hanno perso la vita, tra gli altri, il ministro della Difesa siriano, Dawoud Rajiha, e il suo vice, Assef Shawkat (cognato di Assad).

Parlando al quotidiano egiziano “al Watan“, il leader dell’opposizione siriana ha spiegato che “Suleiman partecipava a quella riunione per conto del primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, per trovare una soluzione al problema delle armi chimiche in mano al regime“. Maleh sostiene inoltre che “la foto diffusa su internet dopo la sua morte, che ritrae il cadavere di Suleiman ustionato da un’esplosione, è vera“. In base alla sua ricostruzione dei fatti, l’ex capo dei servizi egiziani sarebbe stato ferito gravemente durante l’attentato e sarebbe poi stato portato negli Stati Uniti per tentare di salvarlo, senza successo. L’ex capo dei servizi segreti egiziani si trovava in Siria “per la questione delle armi chimiche – ha concluso Maleh – perché questa è una buona scusa per l’occidente per intervenire militarmente nel paese, come è avvenuto in Iraq, e stava cercando una soluzione che accontentasse tutte le parti. A quella riunione erano presenti anche agenti della Cia, del Mossad e dei servizi sauditi e turchi“.

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