Nella storia della musica gli strumenti a percussione si sono gradualmente moltiplicati e diversificati all’interno degli organici orchestrali, ma solo nel Novecento i compositori hanno cominciato a riconoscere loro una funzione non accessoria, e una vera dignità compositiva. In più, la ricerca di nuove sonorità ha stimolato l’esplorazione e la scoperta di tradizioni musicali lontane (dell’Africa, dell’Oriente) o diverse (come il jazz), con la loro ricca dotazione di strumenti sconosciuti nel mondo occidentale, oltre che la trasformazione in senso percussivo di strumenti della tradizione colta (si pensi al pianoforte in molti pezzi di Bartók o di Stravinskij).

Tra le prime composizioni scritte per soli strumenti a percussione si trovano innanzitutto alcuni episodi all’interno di forme musicali legate al teatro: la Schädeltanz (danza del cranio) in Ogelala di Erwin Schulhoff, balletto del 1925 ispirato a una leggenda precolombiana e basato su ritmi e melodie degli indiani d’America; il celebre interludio tra il secondo e il terzo quadro dell’opera Il Naso di Shostakovich, del 1928. La prima composizione indipendente risale invece al 1929: si tratta della Rítmica V del cubano Amadeo Roldán, con un ensemble di percussioni che comprende, oltre ai timpani e alla grancassa, tipici strumenti caraibici come guiro, bongos, maracas e quijada (idiofono originario della Colombia, costituito da una mascella d’asino dove i denti vengono prima rimossi, poi muniti di molle, infine ricollocati al loro posto in modo che all’atto della percussione producano uno strano ronzio-tintinnate). Tra il 1929 e il 1931 Edgard Varèse lavora a Ionisation, destinato a diventare il vero prototipo di tutta la letteratura novecentesca per percussioni sole. A differenza delle Rítmicas di Roldán, Ionisation non contiene tracce di musica etnica o altre influenze popolari, semmai si ispira alle sonorità del mondo industriale e metropolitano, e appare subito come una novità straordinaria, lontana non solo dalla tradizione “classica”, ma anche da tutti i modelli del modernismo europeo. Da allora il repertorio musicale dedicato alle percussioni si è molto ampliato, e il loro impiego è diventato un tratto fondamentale nel linguaggio di molti compositori del XX secolo. Ne è un esempio Iannis Xenakis che ha scritto importanti lavori per percussione sola come Psappha (1975) e Rebonds (1988), per ensemble di percussioni, come Persephassa (1969), Pleïades (1978), Okho (1989), duetti con percussione, come Dmaathem (1996, con oboe), Komboï (1981, con clavicembalo), Kassandra (1987, con baritono), Oopha (1989, ancora con clavicembalo), e poi pezzi per ensembles di percussioni abbinati ad altri strumenti, come Idmen A e B (1985) e Zythos (1996), e lavori percussione sola e ensemble, come Aïs (1980) e O-mega, composizione del 1997, che è anche l’ultima portata a termine da Xenakis prima della sua morte.

Xenakis_cd_saphirLe pulsazioni (regolari) di Xenakis e Ciampolini
Il percussionista francese Daniel Ciampolini ha rivisitato due capolavori di Xenakis, Psappha e Persephassa, in due versioni con elettronica proposte in un cd della Saphir (LYC 1168), che contiene anche le prime registrazioni mondiali di due lavori giovanili del compositore greco naturalizzato francese, le Six Chansons Grecques per pianoforte (1951), e Zyia per voce, fluato e pianoforte (1952). Partitura nata su commissione dell’English Bach Festival e dedicata al percussionista Sylvio Gualda, Psappha prende il titolo dal nome arcaico della poetessa Saffo. Come Rebonds e Pléiades, si basa su pure strutture ritmiche, e non prevede nemmeno una specifica strumentazione, se non la divisione in gruppi di legni e pelli da un lato e di metalli dall’altro. Il discorso musicale è organizzato intorno a una pulsazione regolare e a un continuo dialogo tra i diversi gruppi strumentali, che ne fanno un pezzo insieme ascetico e violento. Timbricamente più variegato, per il vasto set di strumenti che include sirene, varie taglie di tamburi, piatti, gong e wood blocks, Persephassa (scritto su commissione del festival di Persepoli ed eseguito per la prima volta in Iran) gioca anche su un meccanismo di spazializzazione del suono, perché prevede che i sei percussionisti siano distribuiti intorno al pubblico, anche se in questo cd tutte le parti vengono eseguite dal solo Ciampolini, che le ha registrate in multitraccia. La dimensione ritualistica associata agli ensemble di percussioni è un’altra delle costanti del repertorio, oltre che fonte di grande fascinazione sul pubblico. Ne è un recentissimo esempio Sanctuary di Roger Reynolds per quartetto di percussioni e live electronics, registrato in questo box di due dvd (Mode 232/33), ed esempio della prolifica immaginazione del compositore americano, che si richiama alla tradizione sperimentale di Ives, Cage, Varèse, ma anche alle avanguardie europee, e alle culture musicali asiatiche. Nato a Detroit nel 1934 a Detroit, allievo di Roberto Gerhard, fondatore dell’ONCE Group insieme a Robert Ashley e Gordon Huang_dvd_modeMumma, vincitore nel 1989 del premio Pulitzer, Reynolds è riuscito ad integrare in questa ampio lavoro, composto tra il 2003 e il 2008, elementi teatrali, gestuali, insieme a una sofisticata tecnologia, con un risultato dalla forte carica evocativa, che meritava la ripresa video. Gli interpreti (qui sono Steven Schick e il gruppo red fish blue fish) suonano anche barattoli, molle, materiali poveri, e usano dei sensori applicati sulle dita che trasformano in suoni anche i minimi gesti. Tutta la performance sembra un misterioso rituale, con i percussionisti disposti intorno a un raro strumento metallico, chiamato Oracolo: si tratta di un waterphone, un misto di tamburo ad acqua tibetano e violino a chiodi, costituito da una grande scodella in acciaio, che all’interno contiene dell’acqua, e da barre di diversa lunghezza (che producono suoni di diversa altezza), montate sul bordo. La voce misteriosa che promana da questo strumento, che dialoga con le altre percussioni, e il live electronics che crea dense armonie, continui trascoloramenti, un sofisticato effetto di spazializzazione (per questo si consiglia l’ascolto nella modalità dts surround), contribuiscono a creare una dimensione drammatica, nella quale assume una grande rilevanza il gesto dei percussionisti. Per questo, nel doppio dvd della Mode, Sanctuary viene presentato in tre versioni diverse: una versione completa, realizzata in studio di registrazione, che permette di cogliere ogni minimo dettaglio dell’esecuzione, grazie anche a un sofisticato sistema di telecamere; una versione live, anche questa completa, ripresa nel grande atrio della National Gallery of Art di Washington, dominato da un mobile di Alexander Calder che ne enfatizza la dimensione ritualistica; alcuni estratti di un esecuzione en plein air, realizzata al Salk Institute di La Jolla, in California, con una magnifica vista del mare sullo sfondo, al tramonto, e interpolata con i commenti del compositore.

Il Trio Le CercleCerha
In molte culture gli strumenti a percussione sono considerati come un prolungamento del corpo. E la dimensione corporale, fisica, teatrale ad essi connessa è diventata oggetto di ricerca e di sperimentazione per molti compositori. Il Trio Le Cercle, fondato a Parigi nel 1974 da Willy Coquillat, Jean-Pierre Drouet e Gaston Sylvestre, è stato uno dei pionieri di questa corrente, offrendo ai compositori l’opportunità di cimentarsi con una nuova figura di percussionista-performer. Sono tutti pezzi originariamente dedicati al Trio Le Cercle quelli raccolti da Aiyun Huang nel dvd Save Percussion Theater, che si ammira per la qualità delle esecuzioni, ma anche delle riprese video, che colgono bene il senso teatrale della perfomance, anche ricorrendo alla suddivisione dello schermo in più parti. La percussionista taiwanese, cresciuta musicalmente in Canada, esegue il celebre Corporel (1985) di Vinko Globokar dove è il corpo stesso a diventare strumento a percussione; Le Corps à Corps (1979) di Georges Aperghis, dove la voce parlata si fonde col suono di un tamburo arabo (zarb), in piccoli pattern che creano raddensamenti dalla forza primitiva e incantatoria; Temazcal (1984) di Javier Alvarez, per maracas e nastro magentico (il titolo deriva da un tipo di sauna cerimoniale dei popoli indigeni preispanici dell’America centrale), dove il gesto della percussionista, armata solo di maracas, si trasforma in danza, e l’elettronica in uno sfondo ambientale, pieno di inquietudini. Molto teatrali anche Variations sur un texte de Victor Hugo (1991) di Drouet, con i quattro percussionisti (insieme alla Huang, anche Shawn Mativetsky, Fernando Rocha, Sandra Joseph) che suonano tamburi, e contemporaneamente cantano, emettono strani suoni gutturali, agiscono su diversi oggetti; Les guetteurs de sons (1981) ancora di Aperghis (qui insieme alla Huang si esibiscono Diego Espinosa e Sandra Joseph) che prevede dei movimenti delle braccia svincolati dal gesto strumentale; e ovviamente i lavori iconoclasti di Mauricio Kagel, come L’art bruit (1995) che mette in gioco molteplici oggetti sonori, compresi giocattoli e un giradischi, e come Dressur (1977) che si basa su gesti inutili, privi di senso, che richiedono ancora una grande quantità di oggetti di scena, compresi degli zoccoli di legno, ma con un rigore formale che si ispira al controllo sui cavalli nella pratica del dressage (interpreti Ben Duinker, Eric Derr, Parker Bert).

 

Takemitsu_bd_euroartsL’affresco sinfonico di Toru Takemitsu
Un tratto decisamente più esotico, evocativo di rituali orientali, si coglie in From me flows what you call time, grande affresco sinfonico di Toru Takemitsu, registrato da Yutaka Sado sul podio dei Berliner Philharmoniker, insieme con la Quinta Sinfonia di Shostakovich (blu-ray disc Opus arte 2058744). Questo concerto per percussioni e orchestra (commissionato nel 1990 dalla Carnegie Hall per la Boston Symphony Orchestra e il suo direttore Seiji Ozawa) chiama in causa l’intera sezione delle percussioni dei Berliner Philharmoniker (Raphael Haeger, Simon Rössler, Franz Schindlbeck, Jan Schlichte, Wieland Welzel), cinque percussionisti che si esibiscono in sgargianti abiti colorati, allegorici, legati ciascuno a un diverso aspetto dei principi tibetani del “cavallo del vento”. La partitura prevede un ampio set di percussioni orientali (tra le quali l’Angklung giavanese, campane tibetane e pakistane) che contribuiscono a creare un’atmosfera solenne e rituale, e che sono collegate attraverso cinque lunghi nastri colorati (che rappresentano i cinque fenomeni della natura: blu per l’acqua, rosso per il fuoco, giallo per la terra, verde per il vento, bianco per il cielo) a una serie di campane, collocate in alto al centro del palco. Le percussioni, con il loro delicato tintinnabulum e il sottile gioco di risonanze, si trovano in uno strano rapporto con l’orchestra sinfonica, con la sua trama imperniata sul motivo pentatonico intonato dal fluato all’inizio del pezzo, con i periodici, ampi squarci lirici. Ma l’effetto è fascinoso, e un magnifico esempio di quella fusione tra elementi orientali e occidentali che è uno dei tratti che contraddistinguono la musica di Takemitsu. Un altro concerto per percussioni e orchestra da poco uscito su cd (Kairos 0013242KAI), ci presenta infine un’altra faccia della percussione contemporanea, quella più “composta”, formalizzata, sofisticata, che ricorre ancora a una grande varietà di strumenti e di timbri, ma per integrarli in una coerente drammaturgia orchestrale, senza tuttavia rinunciare a qualche elemento teatrale. Si tratta del Concerto per percussioni e orchestra di Friedrich Cerha, compositore austriaco nato nel 1926, noto per avere completato il terzo atto della Lulu di Berg, fondatore nel 1958 dell’ensemble Die Reihe a Vienna, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia nel 2006. Scritto nel 2008 per il percussionista Martin Grubinger, che lo interpreta anche in questo cd insieme ai Wiener Philharmoniker diretti da Peter Eötvös (completa il cd una bellissima esecuzione di Impulse per orchestra, diretto da Pierre Boulez), questo lavoro fa ricorso a strumenti precisamente intonati (compresi tom-toms, temple blocks, woodblocks, campanacci), con una scrittura ritmica complessa, che si rapprende in masse laviche di suono dominate dai tamburi, e con il solista che ha una diversa strumentazione in ciascuna delle tre sezioni del concerto, ed è chiamato a cambiare periodicamente postazione.

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