Quando venne introdotta la possibilità di richiedere gli accertamenti sui redditi dell’altro coniuge mediante l’ausilio della Polizia Tributaria inizialmente con il 9° comma dell’art. 5 della legge 898/70 (in caso di contestazioni il Tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso anche della Polizia Tributaria) innumerevoli furono le richieste in tal senso al Tribunale.

Esteso tale potere anche nell’ambito della separazione dei coniugi ex art. 155 c.c. comma 6, la norma è stata poi ritenuta applicata anche rapporti di convivenza, con la legge n. 54/06.
D’altra parte gli accertamenti tramite la Polizia Tributaria (o la minaccia di richiederli) risultano talvolta particolarmente efficaci e risolutori.
Frequentemente il coniuge che tende a nascondere il proprio reddito (in genere le denunce dei redditi dopo anni di opulenza cadono improvvisamente e disastrosamente in prossimità dell’udienza presidenziale), pur di evitare tali accertamenti è disposto a fare concessioni e a largheggiare sull’assegno di mantenimento.
Questa situazione deriva non tanto, come era nello spirito della legge, dalla possibilità che la Polizia Tributaria riesca a rintracciare o a scoprire redditi nascosti, patrimoni non visibili, abitudini, tenori di vita et similia, bensì dal fatto che, ove tali accertamenti vengano eseguiti, il coniuge tenuto al pagamento nei confronti della prole o dell’altro coniuge, si possa vedere non solo obbligato ad un maggior contributo, ma anche assoggettato a sanzioni fiscali che automaticamente verrebbero applicate dagli Uffici finanziari a seguito degli accertamenti effettuati dagli organi di Polizia Tributaria.

LA RILUTTANZA DELLA GUARDIA DI FINANZA

Dall’esperienza comune di qualunque operatore di diritto familiare, emerge chiaramente come i soggetti che svolgano attività commerciale, professionale, artigianale e simili, facilmente riescano a dissimulare il proprio reddito, talché spesso viene richiesto dall’interessata (in genere la donna), un accertamento meticoloso della Polizia Tributaria.
Va tuttavia detto che gli organi preposti già oberati di incarichi ben più seri, non sono in grado di assolvere anche a tali compiti.
A chi scrive è capitato di dover andare a sollecitare la Guardia di Finanza che non ottemperava all’ordine del Magistrato e solo dopo molte insistenze ci si è accordati mediante un accesso sul posto, non servendosi dell’auto di servizio, ma banalmente della metropolitana e accompagnamento dell’avvocato.
Ancora più simpaticamente va ricordato, sempre nell’ambito dell’esperienza professionale, un recentissimo provvedimento del Tribunale dei Minorenni di Napoli che non solo ordinava alla Guardia di Finanza di eseguire i dovuti accertamenti, ma in modo molto singolare minacciava la stessa Guardia di Finanza che se si fossero limitati (come evidentemente capita spesso per evitare fastidi) soltanto a trasmettere le denunzie dei redditi e non si fossero attivati fattivamente con interventi più mirati ed accurati, il Giudice avrebbe provveduto alle necessarie sanzioni.
Il fatto che la minaccia del Giudice fosse contenuta nello stesso atto del processo e nella della ordinanza ammissiva, ben rende la situazione.

L’INTERVENTO VA VALUTATO DAL GIUDICE E NON COSTITUISCE UN DIRITTO

La Corte di Cassazione con la recentissima sentenza del 4 ottobre 2012 n. 16923 è tornata sul punto in una singolare fattispecie nella quale l’intervento della Guardia di Finanza non veniva richiesto soltanto dalla donna, bensì anche dall’interessato.
Si trattava, nel caso specifico, di un rapporto di convivenza more uxorio con prole, finito come il 50% circa in Italia, avanti al Tribunale dei Minorenni per pronunciare circa l’affidamento, il collocamento, l’esercizio della potestà sul minore e la determinazione della partecipazione al mantenimento.
Il Tribunale dei Minorenni di Catania nel pronunciare l’affidamento condiviso del figlio naturale, stabiliva a carico del padre un assegno mensile di mille euro considerando che il soggetto aveva sempre avuto un reddito elevato, salvo (come al solito) che in prossimità dell’udienza di comparizione dei coniugi avanti al Tribunale.
Circostanza nella quale la dichiarazione dei redditi era scesa notevolmente .
Il Tribunale rilevato che il padre svolgeva un’attività imprenditoriale con una propria azienda, escludeva la credibilità del peggioramento delle condizioni economiche, ritenendo evidentemente inveritiera la dichiarazione dei redditi immediatamente successiva alla cessazione della convivenza ed osservava che i relativi dati contrastavano con la perdurante disponibilità di beni di rilevante valore, incluse autovetture di pregio e simili.

L’ADESIONE ALLA RICHIESTA DI INTERVENTO ALLA GUARDIA DI FINANZA

In modo singolare, alla richiesta della madre di un accertamento della Guardia di Finanza, aderiva pienamente l’interessato.
Ciò nonostante la Corte di Appello riteneva di non procedere in tal senso essendosi comunque raggiunta la prova della disponibilità patrimoniale e delle potenzialità del reddito dell’obbligato.
Il padre oberato dal pagamento del mantenimento si rivolgeva quindi alla Corte Suprema rilevando che illegittimamente i giudici di primo e di secondo grado non avevano creduto all’asserito deterioramento delle sue condizioni economiche ed illegittimamente ma avevano concesso l’accertamento tramite la Polizia tributaria.
Sul punto la Cassazione ha tuttavia ritenuto che la richiesta, pur congiunta, di indagini sui redditi dei genitori prevista dall’art. 155 c.c. comma 6, (modificato si ripete, dalla legge 8 febbraio 2006 n. 54, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli dei genitori non coniugati ai sensi dell’art. 4 comma 2 della legge) ai fini del riconoscimento e della determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, non era sufficiente ad ottenere il provvedimento di incarico alla Guardia di Finanza.
Ciò in quanto non esiste un diritto automatico di ottenere gli accertamenti mediante la Polizia Tributaria, dovendosi considerare tale provvedimento meramente discrezionale e rimesso al giudice del merito.

L’INESISTENZA DI UN DIRITTO DALLA PARTE E POSSIBILITA’ DELL’INDAGINE ANCHE DI UFFICIO

Il Collegio della Corte Suprema sul punto chiariva infatti che gli accertamenti mediante la Polizia Tributaria, che possono essere disposti anche d’ufficio e quindi anche in assenza delle richieste delle parti, non costituiscono un diritto, né dell’uno né dell’altro genitore, in quanto vanno ricompresi nel potere discrezionale del magistrato.
Neanche nell’ipotesi in cui gli accertamenti fossero stati richiesti da entrambi i genitori d’accordo tra loro su questo solo punto, egualmente il Tribunale e poi la Corte di appello non avevano alcun obbligo di aderire. Legittimamente quindi i Magistrati precedenti avevano rifiutato di provvedere sotto tale profilo, rigettando la richiesta, allorché era stata ritenuta aliunde raggiunta la prova delle disponibilità patrimoniali e delle potenzialità economiche del soggetto obbligato.
In sostanza il diniego delle indagini è riconducibile ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa, ritenuti sufficienti gli elementi istruttori acquisiti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *