Donaueschingen è una piccola, tranquilla città nella Foresta nera, con 15.000 abitanti. Non succede quasi niente. Sì, c’è un’annuale fiera di cavalli, i turisti di passaggio vi si fermano per vedere le sorgenti del Danubio e visitare il parco della Residenza dei principi di Fürstenberg. Ma il vero evento, che sconvolge gli equilibri di quella comunità, sono i Musiktage, che trasformano Donaueschingen, per tre giorni l’anno, nel punto di incontro di tutti gli appassionati della musica contemporanea.
Gente competente, informata, dai gusti difficili, che viene da ogni parte del mondo, musicisti, compositori giovani e anziani, editori, discografici, un pubblico numeroso e molto reattivo, pronto ad applaudire e a fischiare, restio al bon ton di circostanza. Insomma i Donaueschinger Muiktage stanno alla musica come dOCUMENTA di Kassel all’arte. Si tratta del resto del più antico festival di musica contemporanea, che ha le sue radici nella Gesellschaft für Musikfreunde creata nel 1913 dal principe Max Egon von Fürstenberg per favorire «esecuzioni di musica da camera per l’incremento della musica contemporanea». Dopo aver raggiunto una grande fama sotto la direzione di Paul Hindemith, la rassegna ha conosciuto un lungo periodo di crisi durante gli anni del nazismo e della guerra, ma è poi rinata trovando una collaborazione con l’Orchestra della Radio della Südwestrundfunk (SWR), tenendo a battesimo alcuni capolavori del XX secolo come Polyphonie X di Boulez, Metastaseis di Xenakis, Anaklasis di Penderecki, Atmosphères di Ligeti. Da allora si è dotata anche di nuovi spazi, ha rinnovato il suo auditorium, la Donauhalle, sfruttando le strutture organizzative della SWR, presente con grande dispiegamento di mezzi, che permette le dirette radiofoniche e la registrazione di tutti i concerti (una documentazione completa su cd è stata per anni affidata alla Col legno, dal 2006 se ne occupa la Neos).
Digitale e analogico
Quest’anno la rassegna aveva come tema il rapporto tra strumenti e elettronica nella nuova musica, le ibridazioni tra uomo e macchina, tra virtuale e reale. Rifletteva sul carattere ambiguo che assumono nel tempo categorie come il digitale e l’analogico, impropriamente considerate degli opposti; sulla tecnologia considerata non in antitesi col mondo della musica dal vivo, con le sue componenti corporee, gestuali, teatrali, ma come un’estensione di quel mondo; su una nuova generazione di compositori che integrano la scrittura musicale con materiali sonori e elettronici autoprodotti, con elementi tratti dalla rete, da youtube, dai videogiochi. Ne era uno straordinario esempio Generation Kill di Stefan Prins, lavoro audio-video interattivo, forse un po’ ingenuo e naïf, ma emblematico dell’approccio con la musica dei “nativi digitali”, eseguito nel concerto del grintoso Nadar Ensemble. L’enfant terrible della musica belga chiamava in causa quattro musicisti (che suonava strumenti modificati in modo da ottenere effetti molto rumoristici) collocati dietro quattro schermi semitrasparenti. Di fronte a loro (dall’altra parte degli schermi) stavano quattro performer, come giocatori concentrati su un videogame, che pilotavano con i loro gamepad le esecuzioni di quattro interpreti virtuali, proiettati sugli stessi schermi. Si creava così una continua osmosi tra musica reale e virtuale, una polifonia complessa (non improvvisata) dagli esiti deliranti, minacciosi, che aveva il suo culmine nella proiezione di immagini di un bombardamento visto dai mirini digitali degli aerei da guerra, esempio di una tecnologia digitale fuori controllo. Nello stesso concerto si sono ascoltati il contemplativo Der “Weg der Verzweiflung” (Hegel) ist der chromatische del tedesco Johannes Kreidler, lavoro microtonale e spazializzato (i sette strumentisti erano disposti intorno alla sala), fatto di fasce e soffi; Selbsthenker II di Klaus Schedl, costruito come una progressiva stratificazione di suoni acidi e distorti a partire da una cupa turbolenza elettronica nel grave; l’applauditissimo, iconoclasta Mimshak dell’israeliano Yoav Pasovsky, che intrecciava video di concerti, suoni radiofonici, annunci registrati, frammenti di musica pop, con i suoni e i gesti strumentali (la pianista usava anche il martello dentro la cordiera del pianoforte) e con un sofisticato apparato elettronico (che trasmetteva segnali digitali attraverso i corpi degli strumenti).
Otto e mezzo norvegese
Anche l’ensemble norvegese asamisimasa (col suo nome palindromo ispirato a Otto e mezzo di Fellini) si muoveva sulle frontiere del mutimediale, ma anche del concettuale, con un gusto insieme radicale, caustico, un po’ folle, tipico di tanta musica nordica. Il pubblico rideva di gusto durante l’esecuzione di Musik del norvegese Trond Reinholdtsen, che lo stesso compositore accompagnava con descrizioni sulla forma del pezzo, sui suoi Leitmotive, sulle proporzioni ritmiche, mostrando su un monitor le corde vocali del soprano, invitando tutti gli strumentisti a intonare un coretto di ringraziamento al direttore artistico Armin Köhler, per averli invitati al festival, mostrandosi alla fine del pezzo nel backstage insieme a dei pupazzi animati. Appena un po’ più sobri gli altri pezzi: The ugly Horse di Klaus Lang, dalle armonie statiche, piene di distorsioni (che sfruttavano le strane risonanze del pianoforte preparato, e le percussioni suonate con l’archetto); Crowd of Ears: the lament of V. Pollard, pezzo nel quale Eliav Brand rifletteva sulla condizione dell’individuo nella società di oggi, attraverso una trama di materiali volutamente grezzi, e con una parte vocale (affidata all’ottimo soprano Silje Aker Johnsen – quasi una nuova Barbara Hannighan) fatta di fonemi e versi gutturali che si trasformavano in frasi dolenti, come di un recitativo antico, e poi in singhiozzi e in risate; il virtuosistico after Carroll (Jabberwocky) di Georg Katzer, dove la voce (parlata e cantata) si intrecciava con un ordito strumentale scoppiettante, che faceva molto cartoon.
Pianoforte con bicchieri
A Donaueschingen quest’anno è stato invitato anche l’israeliano Ensemble Nikel, una band molto giovanilista, con un’insolita formazione di sassofono, chitarra elettrica, percussione e pianoforte, e con un repertorio di pezzi che era uno sfoggio di energia e di gestualità: in witness, dell’americano Mark Barden, gli interpreti armeggiavano dentro la cordiera del pianoforte, con bicchieri, cartoni, pizzicando le corde, strisciano le mani anche sull’esterno dello strumento, cercando effetti acidi e cinetici; il pianoforte era l’oggetto privilegiato di insolite esplorazioni sonore anche in kobushi burui della svedese Malin Bång, pezzo estremo, fatto di rumori, di soffi, di fischi, dove diventavano elementi musicali anche lo spostamento dello sgabello del pianoforte e il motore di una macchina da cucire; materiali aggressivi e molto violenti si alternavano, in SAD SONGS di Clemens Gadenstätter, con una materia pulviscolare; e invece erano continue valanghe di suoni (molto amplificati) quelle di Skip a Beat di Michael Wertmüller, ma costruite su progressioni tematiche e modulazioni molto classiche e con una scrittura virtuosistica che metteva a dura prova gli interpreti. Molto interessante, sul fronte del rapporto uomo-macchina, anche il concerto dell’Ensemble ascolta diretto da Johannes Kalitzke. In programma ketamin/schwarz del serbo Marko Nikodijevic, pezzo di atmosfera, dalla scrittura delicata fatta trame ventose e sospese, pervase di echi, motivi mediorientaleggianti, richiami di natura, che sfruttava tecnologie deliberatamente di retroguardia e una sofisticata spazializzazione. Eduardo Moguillansky nel suo PANORAMA / PHANTOM / PRÄPARAT ridisegnava invece il rapporto tra interprete e strumento, modificando l’impiego degli strumenti tradizionali (il violoncellista suonava ad esempio con un archetto elettrificato, che aveva un nastro magnetico al posto dei crini) e dando vita a un mondo sonoro che appariva quasi puramente elettroacustico. L’elettronica imitava invece i suoni di natura in Forest Construction di Øyvind Torvund, che giocava sulle ambiguità tra suoni registrati e live, in una vera e propria polverizzazione dei gesti musicali, un divisionismo timbrico spinto all’estremo, sempre più frammentato. Più tradizionale, ma raffinatissimo, il nuovo pezzo di Beat Furrer, linea d’orizzonte, che metteva in gioco un materiale molto moderno, ricercato anche nella parte non idiomatica della chitarra elettrica (che veniva suonata sulle ginocchia, come fosse una “chitarra da gamba”), intrecciato in un ordito puntillistico e carico di tensione.
Facebook e l’incredibile Hulk in partitura
Momenti clou del festival erano, come sempre, i due concerti orchestrali nella grande Baar-Sporthalle, dove l’ottima Orchestra del SWR di Baden-Baden e Freiburg si è cimentata con sei nuove partiture ricche di ibridazioni stilistiche. Anche eccessiva, e un po’ pretenziosa quella immaginata da Helmut Oehring nel suo schienen wie Wellen die in lange Auge, lavoro eseguito nel concerto inaugurale, diretto da Rupert Huber: il compositore berlinese partiva da un messaggio lasciato su facebook da un giovane siriano per creare un vasto racconto in musica, molto caotico, che metteva insieme il coro e un suonatore di oud, la chitarra elettrica e i virtuosismi vocali di David Moss. Molto belli invece gli altri due pezzi eseguiti nello stesso concerto. Una dimensione quasi romantica si coglieva nell’autobiografico My My Country del ceco Martin Smolka, che alludeva esplicitamente ai poemi sinfonici del ciclo La mia patria del connazionale Bedřich Smetana. Partitura assai sviluppata, alternava una materia densa, come un cluster minimal e espressionista allo stesso tempo, e con zone sospese e delicate, innestando qu e là tracce della memoria: semplici melodie che si ripetevano distorte, o il ticchettio di una macchina da scrivere che emergeva sugli accordi sfumanti del finale. Durchbrochene Arbeit di Arnulf Herrmann appariva invece dominato dall’idea della frantumazione della texture orchestrale, e da un’urgenza espressiva e un po’ teatrale: un grande corale di tutta l’orchestra, che diventava una muraglia di suono, sempre molto lavorata al suo interno, si frammenta poi in unità sempre più piccole, trasformandosi in una sofisticata trama ritmica, punteggiata da fragili elementi melodici, da zone perucssive e pizzicate, da delicate inflessioni jazzy. Notevoli, per la grande fantasia e il virtuosismo della scrittura orchestrale, anche i tre lavori eseguiti nel concerto finale, affidato alla bacchetta di François-Xavier Roth. Hukl di Bernhard Gander si ispirava ai fumetti dell’Incredible Hulk (ma il compositore austriaco ci ha abituato a questi riferimenti nelle sue musiche, in passato ispirate anche a Spiderman o a Playboy) dando vita a una trama quasi minimalista, fatta di complessi incastri ritmici, di netti contrasti dinamici, di stacchi deliranti delle percussioni, di figure grottesche e vivaci temini fusi in una texture molto densa ma di grande chiarezza formale. Una materia orchestrale elsatica, volatile, sempre movimentata caratterizzava invece Blut di Aureliano Cattaneo (allievo di Gérard Grisey e di Mauricio Sotelo), che sfruttava anche un trio di solisti, formato da pianoforte (con alcune zone preparate, che creavano l’effetto di un gamelan), sassofono e percussioni. Le trame orchestrali erano armonicamente trasparenti, ma pronte a raddensarsi, a diventare incandescenti, a generare violenti gesti sinfonici, in un percorsa narrativo, di grande forza emotiva. Una materia densa e mobilissima caratterizzava anche il nuovo lavoro di Franck Bedrossian, Itself, che ha chiuso la rassegna (e ha anche ottenuto il premio dell’orchestra): una materia palpitante, capace di evocare cataclismi e forze della natura, a tratti granulare, petrosa, legnosa, o piena di scampanii e di risonanze metalliche.