L’ultimo rapporto dell’Eurostat (l’istituto europeo di statistica), relativo al secondo trimestre del 2012, pone l’accento sul rapporto debito/Pil, considerato un fondamentale indicatore di rischio default. Il primo grafico riportato nel documento mostra impietosamente la posizione dell’Italia, che si colloca al secondo posto con un rapporto del 126,1%, seguendo la sola Grecia con un valore del 150.3%.

La notizia, segnalata con il solito allarmismo dai principali media, potrebbe tuttavia risultare fuorviante, portando alla conclusione che gli enormi sacrifici di bilancio degli ultimi anni non siano serviti praticamente a nulla. Occorre dunque approfondire la lettura dei documenti, cosa che quasi mai accade, per capire che la situazione italiana è certamente pericolosa, ma piuttosto stabile ed in linea con l’andamento dei paesi più virtuosi.

Senza entrare nel merito dell’utilità delle austere politiche di bilancio imposte da Bruxelles e soprattutto da Berlino, che non hanno certamente favorito la ripresa economica in termini di Pil ed occupazione, è bene contrastare il clima catastrofista che un debito così elevato riesce a suscitare. Maneggiare i numeri è un’attività che si presta particolarmente a valutazioni soggettive, specie quando si tratta di economia pubblica e bilanci dello Stato: il risultato dipende dalle variabili prese in considerazione, alle quali talvolta si attribuisce un significato quasi “totemico” privo di un fondamento razionale, come suggeriva già diversi anni fa il celebre economista europeo De Grauwe. Questo è il caso, ad esempio, dei rapporti debito/Pil e deficit/Pil, per i quali è stata elaborata una soglia limite (rispettivamente 60% e 3%) in grado di garantire la stabilità di lungo periodo.

In realtà non esiste alcuna giustificazione economica a questi vincoli così stringenti: rimane tuttavia il fatto che un elevato e crescente indebitamento pubblico causa notevoli problemi di sostenibilità, fortemente accentuati dalla partecipazione ad una unione monetaria quale quella europea, che di fatto impedisce di usufruire di diversi meccanismi di aggiustamento. Ai fini di una valutazione esaustiva della stabilità di un’economia, andrebbero prese in seria considerazione ulteriori variabili, che spesso finiscono per essere ignorate in quanto inciderebbero negativamente sui conti dei paesi “forti”. Si tratta di alcuni indicatori fondamentali, quali ad esempio il rapporto tra ricchezza privata e Pil, per cui l’Italia tra i paesi europei è seconda solo al Belgio.

Allo stesso modo bisognerebbe indagare non solo sull’indebitamento pubblico, ma anche su quello privato: le famiglie italiane sono notevolmente meno esposte verso gli istituti di credito rispetto alle altre economie occidentali. Questo accade per via di un duplice meccanismo, per cui da un lato le banche italiane ripongono meno “fiducia” nella capacità di rimborsare il debito, mentre dall’altro i cittadini tendono ad evitare, quando possibile, il ricorso a mutui e prestiti.

 Un altro aspetto riguarda proprio la capitalizzazione bancaria: nonostante il periodo particolarmente difficile, gli istituti italiani sono relativamente stabili, avendo investito mediamente di meno in titoli e derivati particolarmente volatili e pericolosi. Le banche nostrane sono tuttavia piene di titoli di stato, specie italiani, che fino a poco tempo fa erano considerati a bassissimo rischio: solamente la crisi debitoria europea e lo spread alle stelle hanno determinato il clima di paura per investimenti che tre anni fa erano considerati ampiamente sicuri.

La mancata adozione di nuovi indicatori economici riflette, oltre alla già citata volontà politica di salvaguardare alcune economie piuttosto che altre, una precisa linea economica, per cui tutto ciò che ha a che fare con il privato non può essere messo sotto controllo dallo Stato. Le leggi del mercato, che in qualche modo si autogoverna alla ricerca del punto di equilibrio, dovrebbero essere sufficienti a garantire la stabilità dell’intero sistema. La storia, recente ma anche passata, dimostra che questo meccanismo a volte si inceppa, riversando pesanti conseguenze sui bilanci pubblici, che a quel punto sono costretti ad entrare in sofferenza e subire la mano pesante di investitori ed agenzie di rating.

Il caso principe riguarda gli Stati Uniti, dove una spregiudicata condotta di diversi istituti, sia in termini di prestiti al consumo che di utilizzo di complessi strumenti derivati, ha portato ai tragici eventi del 2008. L’Irlanda, travolta dalla crisi americana, quadruplicò il proprio rapporto debito/Pil in un anno per salvare le proprie banche: impossibile non vedere la relazione tra un mercato impazzito e la stabilità dei conti pubblici. In Spagna è avvenuto qualcosa di simile, anche se stavolta ad impazzire è stato un altro mercato, precisamente quello immobiliare. In questo contesto, la speculazione edilizia è andata ben oltre la soglia di sostenibilità, continuando a costruire case ben consapevoli che la domanda era in calo e che i prezzi sarebbero crollati.

La catena di eventi è comunque la stessa: le banche, che hanno finanziato la bolla immobiliare, entrano in crisi perché il valore reale di quei beni è nettamente inferiore alle attese, mentre tocca allo Stato andare a Bruxelles a chiedere prestiti per salvarle.  

Tornando all’Italia, è possibile constatare come il paese non soffra particolarmente di problematiche simili, ma piuttosto soffre la crisi di domanda globale, il calo delle esportazioni e la mancanza di visione della maggior parte delle aziende, incapaci di rinnovarsi sia sul piano tecnologico che in termini di capitale umano. Inoltre, guardando oltre il primo grafico del rapporto trimestrale Eurostat, si evince che il debito italiano sta crescendo ad un ritmo inferiore rispetto a molti paesi europei, che tuttavia godono di un tasso d’interesse estremamente più vantaggioso. Rispetto al primo trimestre del 2012, il rapporto debito/Pil è cresciuto all’incirca del 2,3%, contro il 13,4% della Grecia, in linea con quello francese (1,9%) e con la media dell’Eurozona (1.8%).

I dati relativi al confronto del debito rispetto allo stesso trimestre del 2011 sono ancora più sorprendenti: il rapporto è cresciuto in un anno del 4,4%, valore inferiore al corrispettivo francese (5,0%) ed a molti altri paesi tra cui Spagna, Finlandia, Irlanda e Belgio. Per capire l’eccezionalità del risultato, occorre ricordare che l’Italia paga da un paio d’anni tassi d’interesse esorbitanti sui nuovi titoli emessi e che il Pil è praticamente fermo da quasi tre anni, inficiando pesantemente la riduzione del rapporto.

Alla luce dei fatti si può dunque affermare che l’Italia, durante questa crisi, ha saputo controllare egregiamente i propri conti pubblici, ma il prezzo pagato, attraverso l’adozione di politiche restrittive, è stato tuttavia altissimo. La disoccupazione, specie quella giovanile, sta toccando livelli preoccupanti, la situazione sociale è in discesa continua e l’economia stenta a riprendersi. Questo è senza dubbio il punto centrale della questione: occorrono urgentemente interventi seri sulla crescita, quali sgravi fiscali sulle assunzioni, riduzione del cuneo fiscale ed incentivi all’innovazione. Con un debito così elevato, che pesa come una spada di Damocle sulla nostra stabilità, solamente il Pil, dunque il fattore al denominatore del rapporto, può consentire una riduzione sostanziale del rischio paese. I soli tagli alla spesa, anche se necessari, non ci salveranno di certo.

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