Basta guardarsi intorno. Profetico fu il film di Marco Bellocchio, pur mosso da uno spirito diverso, rispetto a quello che è, o sarebbe mia intenzione qui ripercorrere e proporre; uno spirito che preludeva al ’68, o lo interpretava, e che ha interessato gran parte dell’intelligencija italiana di quella ormai remota, ma mai dimenticata epoca, passando, con riferimento proprio alla Cina, attraverso esponenti dell’arte e della cultura, quali un Antonioni o un Cassola, un Norberto Bobbio, un Goffredo Parise ed altri, che costò l’autoesilio a Parigi di Maria Antonietta Maciocchi, poi la sua espulsione dal PCI e la deriva radicale. Eppure, nello stesso tempo, è oltremodo lontana.
Credo che la Cina sia una galassia intensamente frastagliata, inesplorata, composta da stelle, pianeti e satelliti oscuri o luminosi, asteroidi, vaghi corpi celesti, nebulose, di cui nessuno sa nulla di preciso, almeno qui da noi, in Occidente, in modo particolare in Italia. Guardiamo questo Universo sconosciuto come da un telescopio; e anche chi si reca sul posto non riesce a capire gran che, ma più precisamente, non riesce a penetrare lo spirito dell’ambiente in cui si trova, ad interpretare il non detto, il sottofondo, l’essenza della situazione, neanche se è un medico senza frontiere o un missionario, brava gente, in genere, e in genere guardata con diffidenza, o un inviato del National Geographic, a parte i reportage più o meno stereotipati su bellezze naturali e architettoniche e usi e costumi più o meno enfatizzati come esotici o eccentrici, e neppure un Diliberto che parla e scrive in mandarino, mixandolo anche col latino nelle lezioni di Diritto Romano, in molte Università Cinesi.
Al ritorno da un simile viaggio, il turista, l’operatore, il giornalista di turno, si trova nelle stesse condizioni di un astronauta che rimette piede sulla Terra dopo una missione. A parte i compiti che gli erano stati assegnati e che ha svolto, o che ha autonomamente scelto di svolgere, che cosa può dire, in realtà e in sincerità, di conoscere dello Spazio? Ben poco o nulla. Ma anche se restasse da quelle parti? Hong Kong, Shangai, Pechino, Taiwan, le campagne, i villaggi e colline terrazzate che si estendono a perdita d’occhio… non ne saprebbe di più. Non esito a dire, infatti, che gli stessi abitanti della galassia non si riconoscono tra di loro, nelle abitudini, nella mentalità, nelle tradizioni, nei loro reali desideri, timori, incubi, o sogni, se non superficialmente, da una latitudine ad un’altra. Tutto questo perché siamo di fronte ad una galassia immensa, sconfinata, insondabile, psicologicamente, prima che geograficamente.
E così si ha la strana sensazione, la percezione di una contraddizione intrinseca, per cui non puoi parlare dei Cinesi a ragion veduta, anche se sei stato 5 anni lì, tranne dire qualcosa più che altro con l’inconfessato scopo di stupire amici e ascoltatori, assumendo quella vaga aria snob, e, nello stesso tempo, puoi parlarne con cognizione di causa, anche senza aver viaggiato, almeno non in Cina, ma essendo rimasto nelle vicinanze di casa, se hai una visione d’insieme, cautela e umiltà, un po’ di spirito di osservazione e senso critico ed è capitata occasione di poter fare qualche osservazione o commento. Occorrono forse troppe cose? Certo! Ma se vuoi parlare della Luna, senza mai essere stato sulla Luna, non puoi uscirtene con il cannocchiale comprato alla fiera degli oh bej.
Ora non vorrei idealizzare troppo il fenomeno, anche se parlare di idealizzazione, a proposito della Cina, per noi della mia generazione che eravamo giovani quando Mao Tse Tung attraversava a nuoto il Fiume Giallo, Ho Chi Minh si chiamava Saigon e neppure un sentiero era, ma un uomo in carne ed ossa, era giovane Yāser Arafāt, non solo Al-Fatah, spopolava il musical “Hair”, ed Ernesto “Che” Guevara non era sulle Tshirt dei teenagers ma nel mirino della CIA, per noi che ci trovavamo dalla parte della pendenza dolce della barricata ideologica (a dire il vero dalla stessa parte dove erano personaggi come Gaetano Pecorella, Giuliano Ferrara ed altri, ma poi… i tempi cambiano, gli anni passano…), e non dalla parte di quelli che la ignoravano, quando non la prendevano a granate, sassate e manganellate vere oltre che ideologiche, è come parlare di una grotta dove sono alloggiati un bue e un asinello a Betlemme, per un buon cristiano.
In realtà, in questo Mondo tentatore e traditore, non è solo della Cina che si dovrebbe parlare in questi termini. L’India, l’Arabia, l’Australia, il Sud America suscitano identiche riflessioni da angolazioni diverse. La stessa Europa è così; anzi qui le differenze sono rimarcate da nette linee di separazione, e schematizzate da millenni di Storia e attuali diffidenze, oltre che incomprensioni. Lo sanno bene, probabilmente gli immigrati extracomunitari, clandestini o regolari che siano, i quali devono adattarsi, che so, alla pruriginosità dei francesi, al perfezionismo dei tedeschi, magari alle vecchie rogne tra Nord e Sud dell’Italia, forse alle rivalità tra Bergamo alta e Bergamo bassa e così via.
La prova del 9, la cartina di tornasole di tutto questo, ci viene offerta su un piatto d’argento, a proposito di un’altra realtà piccola e immensa, limitata e illimitata contemporaneamente, Napoli, dal grande cineasta John Turturro nel suo incredibile film “Passione”, che andrebbe rivisto, secondo me, almeno 4 volte.
Lui non conosce, non può conoscere Napoli anche se la ama e ha capito molte cose di essa, ma ugualmente sarebbe se l’odiasse. La sua frase iniziale, volutamente in inglese, è una ammissione, una resa: “ci sono posti in cui vai una volta sola e ti basta… e poi c’è Napoli”. Le popolane, le vecchie, i giovani, i passanti, nel filmato, tranne sporadiche mezze parole o mezze canzoni, non dicono nulla; che cosa avrebbero da dire? Che cosa non direbbero mai? Boh! Che cosa vediamo? Posillipo? Il panorama più famoso del Mondo? Il Maschio Angioino? Nulla di tutto questo; ci sono massicce mura imbrattate, risalenti forse ai tempi in cui Ulisse lasciò morire Parthenope. Che cosa avrebbero da raccontare quelle mura se potessero parlare? Ci sono piazze da fantascienza, dove si canta e si balla, dischi volanti di un altro Pianeta. La città viene proiettata come un pixel verso il cielo di notte, su una tela trasparente diffusiva che la trasforma in un inafferrabile, sconfinato firmamento di oggi; o viene estrapolata come una diapositiva da uno scanner contenente una convulsa e degradata memoria di migliaia di anni. Viene da chiedersi a questo punto, ma le città degli Stati Uniti d’America, che sono 9 milioni di km quadrati più grandi dell’Italia, sono davvero tutte più o meno uguali, come ci sembra di vedere nei film, o è una nostra falsata impressione?
Il geniale Giuva’ fa concludere la pellicola da Pino Daniele con la canzone “Napule è”, che ci comunica, attraverso la viva voce di un napoletano verace, che cos’è Napoli, eppure non ci dice tutto, non ci racconta tutta Napoli, non può; altrettanto può dirsi di Saviano, o di altri, Francesco Durante per esempio, o i figli del Bronx minore menzionati nel suo “I napoletani”, Gaetano Di Vaio e Peppe Lanzetta, che hanno riscattato luoghi che solo nei loro sogni, o nei loro incubi hanno visto o possono vedere un Tarantino, un Coppola, o avrebbe potuto vedere un Kubrick, quali Poggioreale, Piscinola, Scampia, o gli artefici professionali e dilettanti di quell’irripetibile opera che fu “Mery per sempre”, ecc. Anche se, grazie ad autori di tale calibro, grandi fette, grandi spicchi dell’essere Napoli, possiamo avere sotto gli occhi. Ma che cosa Napoli non è? Che cos’altro è? A Napoli accade anche che un giovane muore ammazzato mentre va ad incontrare degli amici, per trascorrere un po’ di tempo libero, solo perché somiglia, forse, vagamente ad un boss della camorra.
E qui ci fermiamo. Di più non si può per la realtà di Napoli; figuriamoci per una realtà come la frammentata e vasta Cina.
Cercherò di addentrarmi in questo enigma, di raccontare qualcosa in proposito, la prossima volta. (fine prima parte)