Non poteva che esser dedicato a John Cage, quest’anno, il festival Musica di Strasburgo, una delle rassegne di musica contemporanea più importanti in Europa. Ma nell’ampio spettro della programmazione c’era posto anche per altri compositori americani, come Charles Ives e John Adams, per l’opera di Oscar Bianchi Thanks to my Eyes, per un concerto monografico dedicato a Hans Zender, per alcune interessanti prime mondiali (di Yann Robin, Marc Monnet), per spettacoli diversi, tutti di grande appeal sul pubblico, come l’istallazione interattiva Monade di Laurence Marthouret e Patrick Marcland, che coniugava suono, immagine e danza, e la proiezione del pluripremiato film The Artist di Michel Hazanavicius, con la musica suonata dal vivo dall’orchestra filarmonica di Strasburgo diretta da Gregory Hooper, e con il compositore Ludovic Bource al pianoforte.
Il festival è stato inaugurato da una splendida esecuzione, in forma di concerto di Moses und Aron, opera incompiuta e testamento spirituale di Schönberg. La qualità dell’orchestra e del coro, e la bravura dei due protagonisti suppliva ampiamente alla mancanza dell’apparato scenico: Mosè, l’uomo che pensa ma non ha la parola, e quindi non canta ma usa lo Sprechgesang, il parlato-cantato, era interpretato dal baritono Franz Grundheber, con la voce possente, la fierezza, la forza spirituale, ma anche la stessa umanità che tante volte aveva dato alla figura di Wozzeck; Aronne, che ha invece il dono dell’eloquenza, e che per questo si esprime attraverso un melodizzare cantabile e disteso, anche belcantistico, era affidato a un altro specialista come il tenore Andreas Conrad, apprezzato per la sua voce timbrata, sempre a fuoco, anche imperiosa nel dialogo teologico con Mosè. Dietro di loro si ergeva, come una muraglia (di suono), l’ottimo coro dell’EuropaChorAkademie, mentre sul podio dell’orchestra sinfonica del Sudwestfunk di Baden-Baden e Friburgo, Sylvain Cambreling disvelava tutta la forza coloristica e ritmica di questa partitura, la sua potenza evocatrice, la leggerezza danzante. In un’esecuzione piena di lampi, con uno spiccato gusto per lo scintillio della materia sonora (con i fiati sempre in evidenza) e per le progressioni dinamiche che tenevano sempre altissima la temperatura drammatica.

 

cage_1Italiani d’esportazione
Il festival Musica è anche un luogo di scoperte (e di conferme) di giovani compositori. Un futuro radioso si prospetta per esempio a Francesco Filidei, allievo di Sciarrino, Bussotti, Marco Stroppa, valente organista, presente a Strasburgo con Ballata n.2, pezzo per ensemble, esempio del suo linguaggio delicato e meccanico, con venature ironiche e oniriche, con le sue trame fatte di soffi, sbuffi, sibili, bolle di suono, un temino appena accennato dal violino, richiami di uccelli, e versi di animali vari. Un ordito surreale che si rapprendeva in una pulsazione accordale massiccia per poi evaporare in lunghe soffuse. Esempio di finezza di scrittura e intelligenza musicale esaltata dall’esecuzione dell’Ensemble Ictus, diretto da Georges-Elie Octors, e in netto contrasto con il gusto un po’ greve degli altri due pezzi eseguiti nello stesso concerto: il monotono e ridondante Little Smile di Wolfgang Mitterer, pezzo un po’ rockettaro ma senza forma né direzione, e l’assordante, urlato Carbone di Raphaël Cendo, per strumenti amplificati, con un trio concertante formato da chitarra, tromba e flauto contrabbasso, e una materia molto densa, sempre al limite della saturazione. Filidei è stato molto applaudito anche per Filastrocca, delizioso lavoro per pianoforte preparato eseguito in un recital intitolato «Cage héritage» di Wilhem Latchoumia, trentottenne pianista lionese, di origini martinicane, allievo di Yvonne Loriod e Pierre-Laurent Aimard, e oggi uno dei più affermati pianisti nel repertorio contemporaneo. Filastrocca si basava su strutture periodiche, giochi di incroci fra le mani, simmetrie rotte, strutture semplici ma di grande effetto. Quasi più cageano di Cage. Da segnalare, nello stesso concerto, anche un bel lavoro di Michael Jarrell, …mais les images restent…, movimentato e virtuosistico, dagli echi skrjabiniani, e due piccoli capolavori per pianoforte preparato: cage in my car di Gérard Pesson, composizione eseguita con mezziguanti, ricca di sorprese e scarti improvvisi; e Pendulum VIII: «TKS I» dello statunitense Alex Mincek, pagina dalla scrittura frammentata e veloce, piena di colori, di cluster, di cadenze improvvise, di gesti proiettati anche oltre la tastiera.

 

cage_3Il cinquantenne esordiente
Tra i lavori per ensemble, una piacevole scoperta è stato quello del giovane Aurélien Dumont, Berceuse et des poussières, per trio d’archi, pianoforte e nastro, che dimostrava grande inventiva e la capacità di dare senso alla combinazione di materiali assai diversi: disegni periodici, violente, brevi sventagliate, giochi meccanici del pianoforte, colpi di chiave del clarinetto, fasce armoniche distorte degli archi, varie manipolazioni di un tema tratto dal primo movimento del Concerto n.3 per pianoforte di Beethoven, e l’elettronica innestata ex abrupto come un carillon. L’effetto era magico, come se i suoni degli strumenti venissero da lontano o da sott’acqua. Ottima l’esecuzione del Kammerensemble Neue Musik di Berlino, che ha anche seguito L’usage de la parole, pezzo storico di Franck Bedrossian, per clarinetto, violoncello e pianoforte, caratterizzato da tessiture spinte all’estremo, multifonici del clarinetto, chiazze dai colori diversi che si alternavano con estrema mobilità; e il commovente Hendeka per trio d’archi e pianoforte composto dal compianto Christophe Bertrand (compositore francese suicidatosi nel 2010 non ancora trentenne), pagina dalle trame soffuse, ma densamente contrappuntistiche, innervate di effetti d’eco, progressioni, fitte imitazioni.
cage_4Uno degli appuntamenti più attesi del festival era Limbus Limbo di Stefano Gervasoni, prima opera del cinquantenne compositore bergamasco, nata per celebrare il cinquantesimo anniversario delle Percussions de Strasbourg, e messa in scena al Théâtre National. L’idea del committente, Jean-Paul Bernard, era quella di celebrare la ricorrenza con uno spettacolo festoso, leggero, pieno di humour, ispirato al mondo dell’operetta. Così è nata una storia ambientata nel Limbo, dove Carl (personaggio ispirato al medico e naturalista svedese Carl von Linné, inventore della classificazione delle specie) e Bruno (ispirato alla figura di Giordano Bruno) si dedicano alle loro solite occupazioni. All’improvviso irrompe Tina (There Is No Alternative), miliardaria bionda e sexy, che arriva nel limbo dopo aver corrotto una guardia per non andare all’inferno dove era destinata. Il suo arrivo crea un certo scompiglio in quel tranquillo microcosmo, ne nasce un flirt con Bruno, e una lunga serie di discussioni con Carl. Finché una voce fuori campo legge il documento (del 20 aprile 2007) attraverso il quale la Chiesa abolisce il Limbo: si chiude, tutti all’inferno. «C’è uno sfondo morale in quest’opera – spiega il compositore. Il riferimento all’operetta era per me piuttosto all'”operetta morale”, pensando a Leopardi. Ho immaginato questa storia come una metafora dei nostri tempi, al di là degli aspetti scherzosi e divertenti. Nei nostri primi incontri con il librettista Patrick Hahn e con la regista Ingrid von Wantoch Rekowski, dicevo che la situazione in cui viviamo è un po’ “limbica”, si sopravvive senza sapere bene dove andare, è come se avessimo abbandonato tutte le certezze, le verità, se vivessimo tutti in attesa di qualcosa di decisivo, magari una bomba atomica, o un provvedimento della Banca centrale europea… Così Hahn ha inventato questa storia con uno sfondo teologico, ma con personaggi esemplari della nostra epoca. Una persona amorale, Tina, che è una specie di Berlusconi al femminile; un uomo di scienza come poteva essere Linneo, ma con delle preoccupazioni religiose al limite della fobia (ha scritto un libro intitolato Nemesis Divina); e un uomo di chiesa come Giordano Bruno, ma con preoccupazioni cosmologiche e scientifiche che andavano contro i dogmi. Due personaggi esemplari e uno non esemplare, ma che comunque è il modello di comportamento di tanta gente. In questo contesto, la domanda centrale era: cosa succede quando una condizione di sostanziale benessere, che ti permette di non decidere, di non assumerti responsabilità, viene abolita per decreto?».

 

cage_7Le lettere di Marilyn
Il libretto era un coacervo di testi, di citazioni (da Giordano Bruno a frammenti di lettere di Marilyn Monroe), di lingue diverse mescolate insieme (latino, italiano, francese, inglese, tedesco, svedese), con una struttura fatta di elisioni, ripetizioni, riformulazioni proprie del linguaggio parlato. Non proprio un capolavoro. Ma su questo testo Gervasoni ha costruito una partitura raffinata, ricca di fantasia, di humour, di riferimenti simbolici, sfruttando con grande sensibilità musicale anche il live electronics, che serviva per dare «apprenza sensibile al limbo» con effetti di fasce e di gocciolamenti. Il cast era composto da tre cantanti (bravissimi, tutti e tre membri dell’ensemble inglese EXAUDI: il controtenore Christopher Field nei panni di Carl, il baritono Gareth John in quelli di Bruno, il soprano Juliet Fraser in quelli provocanti di Tina) e tre attori (Corinne Frimas,
Luc Schillinger, Charles Zevaco). L’organico strumentale prevedeva un vasto set di percussioni, affidato a sei percussionisti, e tre strumenti aggiunti: il cimbalom di Luigi Gaggero, il corno (compreso quello delle Alpi, che compariva anche in scena nel finale) affidato a Olivier Darbellay, e una vasta gamma di flauti dolci e Paetzold suonati da un autentico virtuoso come Antonio Politano. Nelle sette scene di questa «Apéro bouffe», interpuntate da un Praeambulum (Toccata interrupta), un Intermezzo (Danza delle Furie) e una Danza Macabra, Gervasoni ha dimostrato di saper accettare la sfida del canto, sfuggendo facili cliché e noiosi declamati, e senza rifugiarsi pavidamente – come fanno molti suoi colleghi – nel parlato. Ha creato una scrittura vocale fatta di frammenti, di pattern melodici ripetuti, moltiplicati, sovrapposti in strutture ritmicamente complesse, spesso spazializzate in sontuosi effetti d’eco. Con vere e proprie arie (un ruolo centrale aveva in questo senso Tina, a partire dalla sua aria d’entrata «Sorry, sorry…»), momenti polifonici che evocavano antichi discanti, numerosi pezzi d’insieme in stile madrigalistico, che trovavano culmine nello straordinario sestetto a cappella (Moderato. Severo, ma non troppo) della sesta scena, dove tutti i personaggi univano le loro voci (cantate e parlate) nella questione fondamentale dell’esistenza: «c’è una vita prima della morte?».

 

cageLe tentazioni del comico
Gervasoni ha creato un fine intarsio musicale sfruttando le percussioni come immagine di una strumentazione infernale, e ricorrendo a numerose citazioni e sapienti distorsioni, con effetti grotteschi e molto graffianti: «Non sono mai stato un compositore intellettuale – spiega Gervasoni – , ma credo che la musica abbia a che fare col pensiero in una maniera molto profonda. Non mi piacciono gli intellettualismi nella musica quando sono una postura, un atteggiamento che il compositore si dà per apparire impegnato. Quella del comico è invece una tentazione notevole, per me significa saper giocare con le intenzioni espressive, creare un mondo un po’ schizofrenico, impuro, dove devi essere in grado di tenere insieme contraddizioni forti. Questo non accade in un’opera “seria”, ad esempio nel Prometeo di Nono, un emblema dell’opera contemporanea, dove la serietà trionfa, ma anche l’uniformità dello stile. La scoperta che ho fatto è che l’opera buffa ti costringe ad avere un atteggiamento quasi neoclassico, a fare riferimento a topoi dell’opera, del teatro, a usare dei cliché. E subentra la necessità della distorsione, il bisogno di trasformare ad esempio il patetico in qualcosa di caricaturale, di lavorare a 360 gradi sulla citazione, creando dei falsi veri e dei veri falsi». Questo approccio ha trovato uno spazio privilegiato nella quinta scena di Limbus Limbo, ambientata nel giardino dell’Eden, dove Tina racconta a Bruno gli intrighi del mondo di oggi. Qui Gervasoni ha iniziato con un Valzer lento (amoroso e pastorale) che accompagna il duetto di Tina e Bruno su una trama molto atmosferica delle percussioni, tra campanacci e cimbalom, la grancassa che scandisce il tempo, e un sottofondo elettronico un po’ techno. Poi si è divertito a inserire una finta canzone in stile Adrew Lloyd Webber, ma con un profilo melodico e un’armonizzazione un po’ espressionisti, dominati da intervalli di quarta e di settima; e a riadattare un rondeau di Offenbach (dall’operetta La Grande-Duchesse de Gérolstein), modificandone le parole in «Ah! Que j’aime les presidents», sottoponendolo a continui slittamenti tonali (soprattutto transizioni di terza, come se Offenbach avesse applicato dei procedimenti wagneriani o beethoveniani: «questo gioco permette di ricontestualizzare delle musiche, di creare degli assurdi. Il risultato dà una sensazione di ebrezza, di disorientamento, che ha a che fare col tema della vertigine del potere»), punteggiandolo con una seconda voce (di Bruno) che canta in latino. Ha introdotto nella scena finale, dopo l’annuncio dell’abolizione del limbo, una danza sfrenata, ispirata al Limbo (inteso come danza acrobatica, originaria di Trinidad), che accompagna la processione di tutti i personaggi verso l’inferno, insieme a una imporvvisa irruzione di rumori («È la realtà dei nostri giorni che si svela pienamente in tutta la sua tragica crudezza»). Gervasoni ha lavorato, per la parte elettronica, insieme a Carmine Cella, geniale matematico e compositore che ha inventato un algoritmo in grado di generare delle “anamorfosi” di pezzi del passato (facendo ad esempio slittare i tempi d’entrata e di uscita delle note, travisando gli intervalli): ha preso così alcune celebri pagine operistiche, legate in qualche modo al mondo dell’aldilà, e le ha progressivamente trasformate in uno stile contemporaneo, attraverso una sorta di morphing musicale – ed ecco la Danza delle furie dall’Orfeo ed Euridice di Gluck trasformarsi in un pezzo alla Stockhausen, in stile Kontra-Punkte, e l’aria del Genio del Freddo dal King Arthur di Purcell diventare una Danza macabra (Molto ritmico, gelato) in stile Feldman, molto rarefatta. Peccato che soprattutto (ma non solo) in queste pagine così raffinate, l’esecuzione dei tanto celebrati percussionisti di Strasburgo si parsa assai sgangherata, denotando un approccio superficiale e un evidente calo di qualità, che è poi il modo peggiore di celebrare il proprio cinquantenario.

 

Un’opera buffa, ma non troppa
Peccato anche che l’allestimento di Ingrid von Wantoch Rekowski, regista franco-tedesca, fondatrice della compagnia Lucilia Caesar, abbia travisato il proposito drammaturgico dell’opera, puntando su uno spettacolo dal gusto un po’ troppo kitsch, e pieno di incongruenze, all’insegna di un malinteso recupero del teatro barocco. Intanto si perdevano tutti i riferimenti al banchetto che doveva svolgersi nella scena finale – per questo il termine opera buffa era stato ironicamente tradotto in «apèro» (anagramma di opéra, significa aperitivo) – «bouffe» (che significa pasto). Non male l’idea di uno spazio scenico (di Laurence Bruley) costruito intorno a una pista rotonda, un po’ circo un po’ cerchio dantesco, intorno al quale scorreva una piccola parete (da un lato era una lavagna piena di disegni, dall’altro una parete vellutata), e una porta illuminata di infinite lampadine nella quale faceva la sua prima, spettacolare comparsa Tina, con occhiali scuri, valigia e guanti rosa. Questo spazio, illuminato da luci al neon, era delimitato da una serie di pannelli trasparenti, che lasciavano solo intravedere i percussionisti, mentre gli altri strumentisti erano collocati su pedane rialzate. Ma il resto era solo un confuso, continuo via vai di personaggi, con costumi tipo fetish-religioso (quello dell’attrice sembrava l’abito talare di Anita Eckberg), o incappucciati, con ali o lunghe code usate come fruste. Così andavano a farsi benedire la trama, il contenuto filosofico, il gioco ironico, e anche le sfumature psicologiche di vari personaggi. L’opera verrà ripresa tra novembre e dicembre in Francia (a Vernon, in Normandia, all’Opéra Comique e a Reims) e poi anche a Salisburgo (marzo), Grenoble (ad aprile), a Herrenhausen (a luglio), a Marsiglia (a luglio). Gervasoni è un compositore italiano, ma ovviamente neanche una tappa in Italia!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *