Lo scorso 2 ottobre è stato presentato il cosiddetto “Rapporto Liikanen”, esito finale del lavoro svolto dal Gruppo di esperti per la riforma della struttura del settore bancario nella UE. La “questione bancaria” europea entra così nel vivo della discussione, sulla scia delle decisioni prese durante il fondamentale Consiglio Europeo di fine giugno. In quella sede, infatti, era emersa formalmente la volontà di costituire una nuova entità sovranazionale per la supervisione bancaria, compito da affidare alla Banca Centrale Europea.

La necessità di tale riforma rientra nel quadro delle misure per la stabilità della zona Euro, al pari dunque degli strumenti di tipo finanziario messi a punto in questi mesi, quali il fondo salva-Stati e lo scudo anti-spread della BCE. Non si è infatti sopita la polemica sulla causa prima della crisi debitoria, ovvero i fallimenti bancari che nel 2008 hanno sconvolto i mercati internazionali: l’unione bancaria dovrebbe servire proprio per scongiurare il replicarsi di quella situazione. Il rapporto focalizza con dovizia di particolari la serie di eventi che ha portato alla situazione odierna. I salvataggi delle banche, in crisi di liquidità a causa dell’eccessivo accumulo di strumenti derivati ridotti al rango di “spazzatura”, sono costati alle casse pubbliche, dunque ai contribuenti europei, circa 4.500 miliardi di euro (pari al 36,7% del Pil complessivo) tra aiuti diretti e forme di garanzia. L’emorragia di un tale ammontare di risorse ha indebolito fortemente la posizione fiscale di molti Stati Membri, generando nel 2009 deficit pubblici ben oltre la soglia di sostenibilità.

Le banche, inoltre, hanno utilizzato i fondi ricevuti per ricapitalizzare il patrimonio, invece di aumentare il credito a famiglie ed imprese, peggiorando in tal modo la stretta creditizia che ha depresso l’economia reale abbattendo il Pil. Scarsa crescita e conti pubblici dissestati hanno conseguentemente determinato la crisi di fiducia nei mercati, spaventati dal “rischio Europea” piuttosto che dal fallimento dei singoli Stati. Si giunge così allo stato attuale, in cui l’Europa è chiamata prendere decisioni cruciali per la propria sopravvivenza. Il gruppo di lavoro, oltre all’ampia analisi dello scenario bancario all’interno dell’UE, ha elaborato una proposta di riforma del sistema, attraverso cinque misure.

La principale novità riguarda la separazione dell’attività di “trading”, ovvero gli investimenti in titoli e strumenti derivati, da quella creditizia tradizionale, attraverso cui gli istituti finanziano soggetti esterni. L’obiettivo è di evitare che le operazioni spregiudicate sul mercato finanziario siano effettuate avendo come garanzia i depositi dei risparmiatori. Pur rimanendo all’interno dello stesso gruppo bancario, le due attività dovrebbero avere una contabilità separata: in questo modo i depositi di imprese e cittadini dovrebbero essere al sicuro da eventuali crack nel settore finanziario. Il modello di banca europea rimarrebbe comunque invariato, in quanto gli istituti continuerebbero ad offrire servizi finanziari. Altrettanto importanti sono la seconda e terza misura, strettamente connesse con la prima: il documento prescrive la “predisposizione ed il mantenimento di piani di recupero efficaci e realistici” in caso di un’eventuale crisi di liquidità, che includano una precisa gerarchia degli investitori ed un capitale a disposizione per i rimborsi. In altre parole, si vuole mettere a punto un sistema per cui una banca può chiudere i battenti senza creare devastanti ripercussioni sull’economia nazionale ed europea. Al momento, infatti, gli istituti godono di una sorta di garanzia occulta da parte dei governi, costretti ad intervenire finanziariamente ogni volta che si profila un fallimento. Gli ultimi due punti riguardano il miglioramento in termini di valutazione del rischio e gli aggiustamenti nella governance interna. Sotto il primo aspetto, si richiede maggiore attenzione verso i modelli di rischio interni alle banche, che ne determinano il capitale richiesto come copertura, spesso frutto di complesse quanto fantasiose operazioni contabile. Sulla gestione, il documento arriva chiedere un “limite ai compensi dei manager e dello staff”, oltre ad una maggiore trasparenza e nuovi poteri sanzionatori. La proposta è certamente interessante e consentirebbe di limitare la dipendenza della finanza pubblica dalla situazione bancaria, che troppo spesso condiziona le scelte di politica economica.

Rimangono tuttavia diverse perplessità sulla messa in pratica delle misure prospettate, in particolare sulla prima ed a cascata sulle altre. La separazione delle attività, infatti, rischia di non sortire alcun effetto nei confronti dei mercati: facendo parte dello stesso gruppo bancario, i creditori del ramo finanziario, in caso di crack, conteranno sempre sulle risorse provenienti dai depositi. D’altro canto, qualora gli istituti non godessero di tale garanzia, diventerebbe quasi impossibile investire somme ingenti nel mercato finanziario. In pratica, non è possibile assicurare la completa separazione delle attività, almeno non allo stato attuale della legislazione. Le altre misure sembrano più accessibili, specie per quanto riguarda la trasparenza delle gerarchie dei creditori ed i piani di recupero, che consentirebbero una valutazione più razionale (più veritiera) del rischio, permettendo agli investitori di formulare scelte appropriate. L’intero impianto necessita tuttavia di un “controllore” istituzionale unico per tutti i paesi ed estremamente credibile: per questo motivo sembra scontato l’affidamento alla BCE di Draghi.

Senza un organismo capace di infliggere sanzioni e indirizzi, infatti, la riforma bancaria rischia di trasformarsi in una babele di interessi privati senza alcuna efficacia. Il rapporto sottolinea inoltre l’importanza di un ritorno all’attività bancaria tradizionale. Le restrizioni al credito stanno strangolando l’economia reale in diversi paesi: gli imprenditori hanno dovuto subire la chiusura di gran parte delle linee di credito, perdendo quel flusso finanziario che consente non solo di effettuare nuovi investimenti, ma anche di mantenere i livelli di produzione durante un periodo recessivo. Senza un ripristino della fiducia tra banca ed impresa, sarà sempre più difficile attivare i processi di sviluppo, capaci di aumentare l’occupazione e di spingere il Pil verso l’alto.

Nel nostro paese tale problema si presenta in una forma particolarmente acuta, essendo il panorama produttivo composto da piccole e medie imprese, che a fronte di un prestito non riescono a presentare adeguate garanzie patrimoniali. Le grandi aziende, infatti, non soffrono tale malessere, godendo di un potere contrattuale molto più elevato nei confronti degli istituti di credito. Una riforma radicale del sistema bancario, da implementarsi necessariamente a livello comunitario, costituirebbe dunque la condizione necessaria per un rilancio degli investimenti, ma non sarebbe sufficiente a riportare la fiducia delle banche verso l’economia reale, per cui servirà molto più tempo.

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