Al Mezzogiorno i consumi non crescono da quattro anni, lavora ufficialmente meno di una giovane donna su quattro e si è a rischio segregazione occupazionale. Questa la fotografia dell’economia del Mezzogiorno nel Rapporto Svimez 2012.

Pil e Mezzogiorno – In base a valutazioni Svimez nel 2011 il Pil è aumentato nel Mezzogiorno dello 0,1% distante dallo 0,6% del Centro Nord.
Non va meglio nel medio periodo: negli ultimi dieci anni, dal 2001 al 2011, il Mezzogiorno è rimasto inchiodato allo 0% rispetto al + 0,4% del Centro Nord a testimonianza del perdurante divario di sviluppo tra le due aree. Marche e Lazio sono state le regioni a crescere di più negli ultimi dieci anni, rispettivamente del +0,6% e del +1,1% mentre fanalini di coda sono state Piemonte (0% medio annuo) e Umbria (0,1%).
In altri termini, in cinque anni, dal 2007 al 2012, il Pil del Mezzogiorno è crollato del 10% tornando ai livelli di quindici anni fa, nel 1997.
A livello regionale, l’area che nel 2011 ha trainato il paese è stata il Nord-Est (+1%) seguita dal Nord Ovest (+0,6%). Il centro è stato fermo come il Sud a +0,1%.
Più in particolare, la forbice oscilla tra il boom della Basilicata (+2%) e la flessione del Molise (-1,1%), che accusa particolarmente la crisi tessile e dell’abbigliamento.
Dopo la Basilicata, che si conquista la palma nazionale di regione virtuosa nella crescita, all’interno del Mezzogiorno, la crescita più alta spetta all’Abruzzo (+1,8%), che consolida e conferma l’incremento dell’anno precedente (+1,7%). Segni positivi anche in Sardegna (+0,9%) e Puglia (+0,55). In calo invece la Calabria (-0,7%), la Campania (-0,6%) e la Sicilia (-0,2%).

Il crollo dei consumi. Nella crisi, i consumi anche alimentari delle famiglie meridionali sono stati duramente colpiti, arrivando a ridursi nel 2001 del 4,5%, a fronte di una sostanziale stazionarietà nelle regioni Centro Nord.
Da quattro anni i consumi nel Mezzogiorno non crescono. Il loro livello risulta inferiore in termini reali di oltre 3 miliardi di euro rispetto al valore del 2000.
Il calo reale dei redditi delle famiglie, unito alla flessione dei consumi pubblici e alla perdurante incertezza sulle prospettive del mercato del lavoro, rischia di pregiudicare fortemente anche le prospettive di ripresa della domanda interna nel 2013.
PIL per abitante e divari storici – In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2011 ha confermato lo stesso livello del 57,/% del valore del Centro Nord del 2010. In un decennio il recupero del gap è stato soltanto di un punto e mezzo percentuale, dal 56,1% al 57,7%. Continuando così ci vorrebbero 400 anni per recuperare lo svantaggio che separa il Sud dal Nord.
In valori assoluti, a livello nazionale, il Pil è stato di 25.944 euro, risultante dalla media tra i 30.262 euro del Centro Nord e i 17.645 del Mezzogiorno.
Nel 2011 la regione più ricca è stata la Valle d’Aosta, con 32.602 euro, seguita dalla Lombardia con 32.538, Trentino Alto Adige (32.288), Emilia Romagna (31.524) e Lazio (30.884).
Nel Mezzogiorno la regione con il Pil pro capite più elevato è stata l’Abruzzo (21.980), seguono la Sardegna (20.080), il Molise (19.748), la Basilicata (18.639), la Sicilia (17.671), la Puglia (17.102) e la Calabria (16.603).
La regione più povera è la Campania con 16.448 euro.
Il divario tra la regione più ricca e la più povera nel 2011 è stato di oltre 16 mila euro, vale a dire che un Valdostano nel 2011 ha prodotto oltre 16 mila euro in più di un campano.

 

Il deserto industriale del Sud

Il rischio reale è la scomparsa di interi comparti dell’industria italiana nel Sud. Negli ultimi quattro anni, dal 2007 al 2011, l’industria al Sud ha perso 147 mila unità (-15,5%), il triplo del Centro Nord (-5,5). Scendono al Sud anche gli investimenti fissi lordi, -4,9% nel 2011 mentre nel resto del Paese di -1,3%.
Lo scenario è quindi quello di una profonda e continua de-industrializzazione, perché le imprese al Sud non riescono a mettere in pratica strategie di internazionalizzazione e delocalizzazione di fasi produttive tali da accrescere la competitività del sistema. Situazione ancora più difficile in presenza di un costo del lavoro al Sud decisamente più alto dei competitors europei e asiatici.
In relazione alla competitività del Sud in Europa, secondo una simulazione Svimez contenuta nel Rapporto, un lavoratore rumeno conviene rispetto al meridionale perché essendo meno produttivo costa decisamente molto meno.
Un lavoratore meridionale nel 2008, insomma, è costato circa 34.334 euro al Sud, quanto quasi due polacchi, sette rumeni e quasi dieci bulgari, mentre il divario di produttività vede il lavoratore del Sud soltanto da 2 a 4 volte più produttivo del collega europeo.

Emergenza giovani e donne: una segregazione occupazionale
Dopo un biennio di stagnazione nel 2011 gli occupati in Italia sono stati circa 22 milioni, 95 mila unità in più rispetto al 2010. Ma la vera emergenza colpisce giovani e donne.
In tre anni, dal 2008 al 2011, gli under 34 che hanno perso il lavoro al Sud sono stati 329 mila.
Nel 2011 il tasso di occupazione in età 15-64 è stato del 44% nel Mezzogiorno e del 64% nel Centro-Nord. A livello regionale il tasso più alto si registra in Abruzzo (56,8%), il più basso in Campania, dove continua a lavorare meno del 40% della popolazione in età da lavoro.
In valori assoluti, crescono gli occupati in Abruzzo, Puglia, Sardegna, Calabria e Basilicata; in calo invece in Molise, Sicilia e Campania.
Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione giovanile per la classe 25-34 anni è giunto nel 2011 ad appena il 47,6%, pari cioè a meno di un giovane su due, a fronte del 75% del Centro Nord, cioè 3 impiegati su 4.
Situazione drammatica per le giovani donne meridionali, ferme nel 2011 al 24% pari a meno di una su quattro in età lavorativa, che spinge le stesse di fatto ad una segregazione occupazionale rispetto sia ai maschi che alle altre donne italiane.

Il tasso di disoccupazione reale al Sud è del 25%

Nel 2010 il tasso di disoccupazione registrato ufficialmente è stato del 13,6% al Sud e del 6,3% al Centro Nord, a testimonianza del permanente squilibrio strutturale del nostro mercato del lavoro. Del Centro Nord la perdita di posti di lavoro tende a trasformarsi quasi interamente in ricerca di nuovi posti di lavoro; nel Mezzogiorno solo in minima parte diventa effettivamente ricerca per una nuova occupazione.
Rispetto all’anno precedente, i disoccupati sono aumentati al Sud (+2% pari a 19.600 unità) con crescita addirittura del 18% in Molise, dell’ 11,5% in Campania.
Scendono invece al Centro Nord di 14.200 unità pari all’1,2%. In testa alla non invidiabile classifica la Campania con un tasso di disoccupazione del 15,5% seguita dalla Sicilia con il 14,4% e dalla Sardegna con il 13,5%.
Il tasso di disoccupazione ufficiale rileva però una realtà in parte alterata. La zona grigia del mercato del lavoro continua ad ampliarsi per effetto in particolare dei disoccupati impliciti, di coloro cioè che non hanno effettuato azioni di ricerca nei sei mesi precedenti l’indagine.
Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo al Centro Nord supera la soglia del 10% e al Sud raddoppierebbe, passando nel 2011 al 25,6%.

Lavoro Nero: irregolari quasi tre milioni
Nel 2011 secondo stime Svimez gli irregolari in Italia arrivano a 2 milioni 900 mila unità, di cui 1 milione e 200 mila al Sud. Se il Centro Nord il lavoro nero interessa prevalentemente secondi lavori e stranieri non regolarizzati, al Sud invece vede protagonisti irregolari residenti.

A livello di settore al Sud è irregolare un lavoratore su 4 in agricoltura, il 22% nelle costruzioni, il 14% nell’industria.
A livello regionale in valori assoluti si stimano 296 mila lavoratori in nero in Sicilia, 253 mila in Campania, 227 mila in Puglia, 185 mila in Calabria, 131 mila in Sardegna, 62 mila in Abruzzo, 46 mila in Basilicata e 23 mila in Molise.

Continua a tenere l’occupazione agricola

Nel sud cresce la domanda di lavoro in agricoltura (+2,7%) a fronte di un calo del 6% nel Centro Nord. Se Sardegna e Sicilia aumentano gli occupati nel settore di oltre l’(%, la Campania perde il 6,7%.
In calo l’industria, che segna al Sud -2,3%. Se l’industria in senso stretto è in ripresa (+0,6%), sono le costruzioni a crollare del -6,2%.
La dinamica dell’occupazione industriale è abbastanza negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Campania (17.600 posti di lavoro in meno) e Sicilia (10.000 in meno). Fa eccezione l’Abruzzo, che vede invece una crescita di 11.000 posti di lavoro nel settore.

Tengono invece i servizi, +0,8%, ben più contenuto che nell’altra ripartizione. In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2011 ben 32 mila unità nel settore industriale. Gli occupati in Agricoltura sono cresciuti invece di 10.900 unità a fronte della perdita di 27 mila unità al Centro Nord.

 

Oltre un milione 350 mila emigranti in dieci anni

Negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud circa 2,5 milioni di persone, oltre un meridionale su dieci residente al Sud nel 2010. Nel 2010 sono partiti dal Mezzogiorno in direzione Centro Nord circa 109 mila abitanti. Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania, con una partenza su tre (34.100); 23.900 provengono dalla Sicilia, 19.400 dalla Puglia e 14.400 dalla Calabria.
In direzione opposta, da Nord a Sud circa 67 mila persone, che rientrano nei luoghi d’origine, soprattutto Campania, Sicilia e Puglia.
La regione più attrattiva per il Mezzogiorno resta la Lombardia, che ha accolto nel 2010 in media quasi un migrante su quattro, seguita dall’Emilia Romagna. In Abruzzo, Molise e Campania, la prima regione di destinazione resta il Lazio.
In dieci anni, dal 2000 al 2010, oltre un milione e 350 mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. A livello locale, le perdite più forti si sono registrate a Napoli (-115 mila), Palermo (-20 mila), Bari (-16 mila) e Catania (-11 mila).
Ad attrarre soprattutto Roma (+73 mila), Milano (+57 mila), Bologna (+24 mila), quindi Parma, Modena, Reggio Emilia e Bergamo.

 

Nel 2011 seimila emigranti precari in più
Nel 2011 i pendolari di lungo raggio da Sud a Nord sono stati quasi 140 mila, seimila in più rispetto al 2010. Interessante notare che a questo aumento del 4,3% corrisponde una crescita del 40 % dell’occupazione meridionale. In altre parole, mantenendo la residenza a Sud ma lavorando al Centro Nord, questi occupati falsano la realtà del alvoro nell’area.
Dei 140 mila pendolari meridionali, oltre 130 mila sono andati a lavorare al Centro Nord, i restanti sono partiti per l’estero. Anche qui a fare i pendolari con l’estero sono i settentrionali, circa l’89% dei pendolari totali nel 2011.
I pendolari di lunga distanza sono prevalentemente maschi, giovani, single o figli che vivono ancora in famiglia, dipendenti a termine e collaboratori, soprattutto impiegati full time nel settore industriale. In totale, nel 2011, dei 140 mila pendolari meridionali, 39 mila erano laureati.

Nel lavoro donne segregate tra part time coatto e inattivismo

Non è esagerato oggi parlare di vera e propria segregazione occupazionale delle donne, che nel Mezzogiorno scontano una precarietà lavorativa maggiore sia nel confronto con i maschi del Sud sia con le donne del resto del Paese.
Se da un lato la quota di donne meridionali occupate con un contratto a tempo parziale (27,3%) è inferiore di quasi 3 punti rispetto a quella del Centro Nord (29,9%), dall’altro l’aspetto più allarmante è che il 67,6% di queste lavora part-time perché non ha trovato un lavoro a tempo pieno.
Il dato forse più rilevante è testimoniato dall’inattività che riguarda ormai due donne meridionali su tre. Mentre nel corso degli ultimi dieci anni il Centro Nord ha colmato in parte la distanza del suo tasso di attività femminile dalla media europea (recuperando due punti percentuali), nel Sud il divario è aumentato di 4 punti percentuali.
L’inattività femminile cresce al Sud perché da un lato le donne scoraggiate pensano di non trovare un’occupazione e non si mettono quindi neppure a cercarla; dall’atro perché i canali d’intermediazione formali sono carenti e inefficienti.
Secondo quasi l’82% delle donne inattive del Mezzogiorno non si cerca lavoro non per l’assenza, l’inadeguatezza o il costo eccessivo dei servizi di cura, bensì per la prospettiva di un’occupazione con una retribuzione bassa e discontinua.

 

Le misure per la crescita: il mix di innovazione e industria, ambientale e sociale, culturale e digitale.

Secondo la Svimez serve un progetto per il Paese nel campo dell’infrastrutturazione, dell’offerta di servizi adeguati a cittadini e imprese, della politica per l’innovazione e la ricerca in grado di ridurre le differenze nelle opportunità.
La Svimez propone una modifica delle regole europee che consenta di escludere la spesa per investimenti dal Patto di stabilità, come ha chiesto peraltro lo stesso Presidente del Consiglio Mario Monti a sostegno della cosiddetta Golden Rule.
Si tratta di una politica che permetterebbe nel medio periodo di rendere il processo di risanamento compatibile con l’esigenza di non aggravare la recessione in corso.
Secondo Svimez occorrono politiche industriali immediate per attivare processi di internazionalizzazione e innovazione, consolidando e rafforzando l’industria manifatturiera, ma anche favorendo la penetrazione in settori “nuovi” specie per i giovani ad elevata formazione. Puntare sulla crescita dimensionale e sull’innovazione tecnologica; Incentivare le produzioni sostenibili (a partire dalla mobilità); investire sulle reti digitali; riqualificare le aree urbane; volgere all’efficienza energetica l’edilizia e sviluppare in modo diffuso le energie rinnovabili; mettere in campo una vasta opera di difesa e valorizzazione dell’ambiente e del territorio; sviluppare filiere agro-alimentari di qualità nella prospettiva dell’integrazione mediterranea; avviare una moderna industria culturale non solo turistica; favorire i servizi avanzati e l’impresa sociale.

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