Nei corridoi della direzione Affari Economici e Finanziari capita anche di ascoltare tedeschi completamente favorevoli all’adozione degli Eurobond e spagnoli e italiani fervidi sostenitori di politiche di bilancio rigide. Su tutto, però, pesa l’incertezza sul futuro politico del nostro Paese: torneremo alla solita politicuccia di provincia fatta di devastanti e vecchi compromessi?
Per uno che ha studiato l’economia delle unioni monetarie, un periodo di lavoro nelle istituzioni europee rappresenta l’occasione per osservare da vicino un esperimento visto solo sulla carta. L’esperienza vissuta a Bruxelles tra marzo e luglio scorsi presso la Commissione Europea, nell’ormai tristemente famosa DG Affari Economici e Finanziari (ECFIN), mi ha permesso di sviluppare una nuova concezione dell’Europa, abbattendo alcuni stereotipi e creandone di nuovi.
Senza dubbio ho potuto assistere all’evolversi di questa crisi economica, ma soprattutto politica, da un punto di vista privilegiato, avendo avuto inoltre la fortuna di poter discutere ed interagire con chi si sta preoccupando per uscirne.
Con questo non intendo dire che la Commissione sia il luogo perfetto dove tutti remano nella stessa direzione, ma sono convinto che esistano al suo interno le competenze economiche per poter risolvere molte delle criticità che affliggono il vecchio continente.
Molti nell’opinione pubblica ignorano come la Commissione sia composta da una parte “tecnica”, per utilizzare un gergo a noi familiare, rappresentata dalle direzioni generali, e dalla componente politica incardinata nella struttura commissariale, per cui ogni Stato Membro partecipa con un proprio esponente.
Il meccanismo decisionale, come probabilmente è giusto che sia, è completamente gestito dalla parte politica: le DG eseguono ricerche e formulano proposte, i Commissari le approvano, ma sarà poi il Consiglio, composto da tutti i ministri nazionali competenti per la specifica materia oggetto del provvedimento, a prendere la decisione finale.
Visti dall’esterno, i risultati di questo processo si ritengono generalmente determinati da un’unica grande entità astratta, anzi da un’intera città: Bruxelles.
Trovandomi sul posto, peraltro in un momento particolarmente complesso sul fronte economico, ho avuto modo di verificare come la realtà di chi lavora in Commissione sia molto più sfaccettata di quanto i media non vogliano far credere.
Le differenze tra diverse culture economiche, in primis tra la Germania ed i paesi del sud Europa, con cui giornalisti ed opinionisti giocano fino ad assumere posizioni velatamente razziali, non sono così evidenti all’interno delle direzioni generali, dei dipartimenti, delle singole unità di lavoro.
Nelle istituzioni, il processo di integrazione è inevitabilmente andato ben oltre la percezione che si ha nei singoli Stati Membri, grazie a 50 anni di lavoro fianco a fianco.
Capita così di ascoltare alcuni tedeschi completamente favorevoli all’adozione degli Eurobond, sui quali la Merkel non vuole cedere di un passo, oppure spagnoli ed italiani convinti della necessità di adottare politiche di bilancio molto più rigide di quelle attuali.
Al di là delle posizioni ufficiali dei governi, delle esternazioni di grandi accademici e dei titoli sui principali quotidiani, è interessante per un italiano vedere da vicino quali siano le opinioni degli “eurocrati” rispetto al nostro paese.
Negli ultimi anni abbiamo senz’altro sperimentato quanto importanti siano in Europa concetti come la presentabilità e l’affidabilità di uno Stato nel suo complesso, in particolare del governo da cui è guidato. Le aspettative alla partenza sotto tale aspetto erano tutt’altro che rosee, basate sull’erronea convinzione che in ECFIN si stesse consumando una guerra interna e parallela agli scontri politici in atto tra capi di governo. Ho trovato invece una situazione molto differente, dove il clima di collaborazione sovrasta senz’altro le pulsioni nazionaliste, ma soprattutto ho notato il grande rispetto di cui godono ancora oggi i rappresentanti del nostro paese.
In ECFIN, come nelle altre DG, gli italiani sono tra i più numerosi e ricoprono spesso ruoli di grande responsabilità: lo stesso Direttore Generale, Marco Buti, è un italiano.
I nostri connazionali sono senza dubbio tra i più preparati in materia economica, hanno alle spalle grande esperienza e sono formati nelle migliori università italiane, europee e talvolta americane.
L’autorevolezza del personale italiano non deriva dunque da un semplice codice di comportamento interno alle istituzioni, molto formale ma soprattutto molto diplomatico, ma si è andata formando nel corso dei decenni grazie alla competenza dei nostri tecnici.
Per gli italiani in Commissione non deve esser stato semplice passare attraverso questi anni di crisi, essendo venuto a mancare un requisito essenziale quale la reputazione del proprio governo.
Un anno fa il rischio di capitolazione economica era se possibile ancora più imminente: chiedere aiuto finanziario all’Europa, come accaduto per la Grecia, vuol dire ammettere implicitamente di non saper fare il proprio lavoro.
A mio modesto parere ritengo che sia un merito dei tecnici italiani, i “burocrati” che non fanno interviste televisive e di cui nessuno al di fuori dell’ambiente ristretto conosce i nomi, il fatto di aver resistito per così lungo tempo alle pressioni politiche esterne, attraverso l’impiego di competenza ed esperienza diplomatica.
L’avvento del governo Monti è stato poi una manna dal cielo sotto tale aspetto: il professore è un “eurocrate” a tutto tondo, ex commissario europeo, rispettato da nostri connazionali e magari anche di più dai tecnici stranieri.
Ricordo l’attenzione ed il coinvolgimento con cui tutti hanno ascoltato per quasi due ore, durante il Bruxelles Economic Forum, la lezione di Monti, peraltro in ricordo di un altro italiano molto rispettato in Europa, Tommaso Padoa-Schioppa. La mia opinione è che avere un governo forte ed autorevole alle spalle mette il personale tutto nella condizione di svolgere meglio il proprio lavoro, specie quando l’incarico prevede il coordinamento di centinaia di persone.
Nonostante la presenza di benefici sul piano della rappresentanza istituzionale, un governo tecnico non può che essere per sua natura temporaneo: l’autorevolezza in campo internazionale non può certo essere pagata con un deficit democratico, per cui il nostro paese dovrà tornare a scegliere i propri rappresentanti. Rimane inoltre intatto il sacrosanto diritto ad essere in disaccordo con i singoli interventi promossi dal governo Monti, in quanto ognuno deve essere libero di giudicarne l’operato, senza per questo subire attacchi da qualunque organismo esterno.
Visto dal cuore delle politiche europee, il nostro paese appare tuttavia politicamente smarrito, specie se paragonato ai grandi Stati che guidano l’Europa: la Francia, ad esempio, ha saputo produrre democraticamente una posizione alternativa a quella tedesca, senza perdere la reputazione internazionale e dando nuovo slancio al dibattito economico.
In Italia manca una prospettiva simile e lo sanno tutti gli addetti ai lavori, che temono il ritorno a compromessi obsoleti, completamente inidonei per giocare un ruolo di primo piano in Europa.