Bere da una coppa offerta da Venere, ascoltando versi declamati da Bacco standosene comodamente sdraiati tra statue di zucchero e fiori di frutta, tra candelabri, addobbi festosi, ceramiche colorate, sotto un cielo costellato di stelle riflesse da migliaia di specchi, abbagliati dallo scintillio dei cristalli e degli argenti ricolmi di delizie di ogni sorta. Un inebriante gioco di sapori, odori, colori, suoni, questo era il banchetto nell’età del Rinascimento.
Villa d’Este a Tivoli ospita in questi giorni la mostra “Magnificenza a Tavola. Le arti del banchetto rinascimentale”, dedicata all’arte del convivio nel Cinquecento. La scelta della location non è casuale. Villa d’Este è uno dei monumenti più importanti del Rinascimento italiano, ed è proprio nel Rinascimento che l’arte del convito conosce il suo splendore. A quel periodo risalgono infatti i primi trattati italiani di gastronomia e di dietetica, strumenti fondamentali per quanti intendessero raggiungere la perfezione nell’arte della tavola. La mostra intende rievocare i fasti dell’epoca attraverso l’esposizione di scritti, vasi pregiati, ceramiche, raffinate posate, attrezzi da cucina, tessuti, dipinti provenienti dai maggiori musei italiani. Curata da Marina Cogotti, direttore di Villa d’Este, e da June di Schino, docente universitaria di storia dell’alimentazione, la mostra promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo, resterà aperta al pubblico fino al 4 novembre.
Il principe della tavola
Il banchetto era un avvenimento finalizzato ad esaltare il potere del principe, attraverso la ricchezza, la magnificenza, lo sfarzo. Era uno strumento utile e diretto per esprimere la sua egemonia intellettuale, politica e culturale. Aristotele nell’Etica Nicomachea scriveva “…a chi ha tale mezzi o per opera sua o per dei suoi antenati e di chi è congiunto di lui, e a chi è nobile o di buona fama e a simili persone conviene la magnificenza infatti queste situazioni hanno grandezza e dignità”. La corte mirava quindi a vivere secondo quell’ideale di perfezione e bellezza che solo il mondo classico aveva raggiunto. Roma, capitale dell’impero romano, diventò capitale del convito rinascimentale. AI simboli della tavola era affidata la custodia dell’idea della grandezza del principe.
Il luogo del convito era uno spazio esclusivo a cui solo l’élite aristocratica poteva accedere. Era uno scintillio di gemme, cristalli e oro. Il banchetto voleva essere la trasposizione del convito degli dèi, archetipo di antichi splendori che si voleva far rivivere. Ed è così che si mangiava tra statue di divinità scolpite nello zucchero, o si veniva serviti da individui vestiti da Bacco, Venere, Arianna. Si veniva in questo modo introdotti in una dimensione atemporale, in un’atmosfera mitica che sembrava più reale del reale. Un Eden principesco. Prima o durante il convito era consuetudine rappresentare uno spettacolo teatrale. Ogni singolo evento o momento del convito era studiato, prevedeva una laboriosa preparazione e necessitava di alta professionalità.
Leonardo Da Vinci sovrintendeva alle mense di Ludovico il Moro, Tiziano scelse la tipologia del vasellame per gli Estensi, Benvenuto Cellini cesellò creazioni uniche per la tavola dei principi. Esistevano anche artisti a cui spettava il compito di creare opere d’arte con il cibo, tanto che cervi, pavoni, lepri, cinghiali “parevano vivi ed invece erano cotti”. Spesso i convitati erano stupiti da improvvisi colpi di scena, come quello dei tovaglioli piegati in maniera tale da nascondere un uccellino pronto ad uscire saltellando sulla tavola quando il tessuto ricamato veniva aperto. Il tovagliolo aveva un forte valore simbolico, in quanto adoperarlo e poi riporlo significava aprire e chiudere il convito. Inoltre il suo candore rappresentava il candore del principe.
La carne e lo spirito
La corte era permeata dall’ideologia del potere: servire il principe era un onore, farlo alla perfezione era un dovere. Per questo i massimi sovrintendenti al convito erano di nobile lignaggio. Si dovevano scegliere con cura i convitati, far sì che il banchetto si svolgesse nella massima esibizione di splendore e squisitezza. Andava evitata ogni forma di confusione, ogni parola o atteggiamento potesse provocare turbamento o tristezza. Il convito era un momento di massimo gioia per allietare i sensi e lo spirito.
Gli impiegati alla tavola era numerosi. Al servizio del cardinale Ippolito d’Este, nel 1556, stavano 275 famigliari di cui 140 erano impiegati in mestieri connessi alla cucina e alla tavola. Queste cifre rendono l’idea dell’importanza data al convito. Il più importante di questi “impiegati alla tavola” era il maestro di casa, che sovrintendeva al funzionamento dell’intera struttura, dalla scelta dei fornitori, alla stipula dei contratti, al pagamento. Lo spenditore era invece responsabile degli acquisti e delle uscite della casa; il dispensiero era l’addetto alla conservazione della dispensa; infine il credenziere si occupava delle pietanze fredde, del mantenimento del vasellame di pregio e della piegatura dei tovaglioli. Poi c’erano gli “offiziali della bocca”, tra questi lo scalco era il più importante in quanto sovrintendeva alla mensa e alla cucina. Doveva conoscere i gusti del principe per poterlo accontentare, controllare la preparazione dei piatti e il modo di servire a tavola. A lui era affidata la salute del signore. Era lo scalco a presentare i piatti, che venivano portati a tavola rigorosamente coperti. Altra figura importante era quella del trinciante, in quanto il taglio della carne e degli alimenti a Roma era una tecnica rinomata. Era richiesto che il trinciante fosse di corporatura proporzionata, senza difetti fisici e con temperamento ardito. Il taglio veniva eseguito con gesti teatrali attraverso numerosi coltelli e forcine, catalizzando l’attenzione dei commensali. Ogni cibo andava tagliato secondo regole precise. Mediocre era il trinciante che eseguiva il taglio nel piatto. I migliori potevano invece godere dell’onore di tagliare una porzione per sé dal piatto del signore. Il coppiere doveva invece avere mani bianche e delicate. Doveva mostrare il vino con allegria, galanteria e discrezione. Era colui che versava l’acqua sulle mani dei convitati e che poneva e toglieva il tovagliolo. Indossava lunghi drappi, calze scarlatte e scarpe di velluto nero. Vi erano inoltre il bottigliere, addetto a tutte le bevande, e il canovaio, responsabile della cantina.
Vatel e l’ars magirica dei cuochi
Ma il vero deus ex machina del convito era il cuoco. Con “ars magirica” nobilitava il cibo creando nuove pietanze. Era lui il responsabile della presentazione dei piatti: più bravo era il cuoco, più spettacolare era la presentazione. Dirigeva il funzionamento della cucina e di tutto il personale. Nel decidere il menu doveva tener conto del rango dei convitati, della stagione, delle ricorrenze religiose, dei cibi disponibili. Era un lavoro molto impegnativo in quanto gli era richiesto di lavorare dall’alba alla mezzanotte ma soprattutto gli si richiedeva una grande dose di inventiva nell’escogitare sempre nuovi modi di presentare le pietanze. La tensione intorno al cuoco era sempre altissima, tanto che il Francois Vatel, al servizio del principe de Condé, si tolse la vita prima di una importante cena per Luigi XIV.
I ricchi signori gareggiavano tra loro nell’organizzare conviti sempre più sfarzosi. Due erano le parole chiave: qualità e quantità. Famoso è il banchetto organizzato nel 1536 da Carlo V a Roma, durante il quale furono servite 760 vivande. Si trattò solo di mera esibizione della grandiosità del principe.