La crisi bancaria in Spagna, tamponata attraverso la concessione di aiuti finanziari per 100 miliardi di euro da parte dell’Europa, ha aperto pericolosi canali di contagio che rischiano seriamente di investire il nostro paese. Le profezie nefaste degli analisti si stanno man mano avverando: in molti sostenevano, infatti, che dopo Madrid il vento della speculazione sarebbe soffiato su Roma, anche se per il momento la situazione resta in bilico.

La peculiarità di tali previsioni, che si basano inevitabilmente su solide basi economiche, risiede anche nella capacità di autorealizzarsi. In altre parole accade che qualora i mercati si convincano della probabilità di un determinato scenario, questo finisce per avverarsi proprio a causa dei comportamenti degli operatori finanziari, che alimentano il processo. Nel caso specifico del nostro paese, succede che gli investitori iniziano a vendere titoli di stato e a chiedere tassi d’interesse più elevati, “spaventati” dai cosiddetti “outlook” negativi emessi da agenzie di rating ed istituzioni internazionali. Tale comportamento innesca un circolo perverso per cui aumentano le spese per interessi, la posizione di bilancio peggiora e la crescita si deprime ulteriormente.

Il sentimento dominante degli ultimi giorni è dunque la paura per la situazione economica italiana. Le parole del ministro delle finanze austriaco Maria Fekter, in merito all’eventualità di una concessione di aiuti all’Italia oltre che alla Spagna, hanno suscitato il disappunto di Monti: “Considero del tutto inappropriato che un ministro di uno Stato Membro dell’UE commenti la situazione di un altro Stato Membro“, ha dichiarato il premier. La questione va certamente oltre il semplice scambio di battute tra politici, anche perché in ballo c’è uno dei pilastri della linea portata avanti con forza dal nostro governo. Monti, infatti, sta facendo di tutto per evitare la richiesta d’aiuti all’Europa per il nostro paese, ben consapevole che tale mossa, nonostante gli innegabili effetti positivi di breve periodo, ricaccerebbe l’Italia nel limbo dei paesi periferici dal quale sta faticosamente cercando di uscire. Il merito di questo governo è proprio quello di aver ricostruito una certa credibilità presso le istituzioni europee, dopo anni di latitanza assoluta. Al momento Monti può sedersi al tavolo dei grandi e decidere in merito alle questioni più delicate, proprio perché nel bilancio complessivo della crisi l’Italia è un “prestatore netto”: nel momento in cui dovesse trasformarsi in debitore, il paese dovrebbe sottostare alle politiche di austerity imposte da Berlino, che evidentemente non stanno funzionando. Il gioco delle posizioni sembra dunque essere guidato da questo paradosso europeo, per cui i capi di governo, volenti o nolenti, promuovono in altri paesi politiche restrittive ritenute “efficaci”, ma che nessuno adotterebbe nel proprio cortile. Le parole del premier a tal proposito sono estremamente chiarificatrici: “Tra i primi obiettivi verso l’Ue abbiamo voluto mostrare con azioni nel nostro Paese di non aver bisogno della protezione paralizzante di altri, e posso rivelare che abbiamo ricevuto consigli paterni e qualche volta anche materni da parte di chi ci diceva di chiedere l’appoggio del Fondo salva stati o del Fmi.”

Al di fuori delle guerre diplomatiche e delle scelte di campo sul futuro dell’Europa, occorre capire quale sia effettivamente lo stato di salute del nostro paese. Lo scenario principale rimane senza dubbio inquietante, vista la recessione in corso (le ultime stime riportano il PIL a -1,4% per il 2012), la disoccupazione crescente, specie quella giovanile che si aggira intorno al 35%, e la debolezza delle nostre imprese strangolate dalla mancanza di credito. La questione bancaria, finora sussurrata per non destare preoccupazioni nei mercati, sta infatti assumendo tratti estremamente pericolosi. Negli ultimi anni gli istituti principali del nostro paese hanno potuto contare su un assetto relativamente stabile, specie se paragonato alle banche anglosassoni, ma la situazione sta evolvendo rapidamente, lasciando presagire l’aggravarsi della crisi di liquidità. A pesare in modo decisivo sono stati sostanzialmente due fattori: da un lato le tensioni sui titoli di debito ed i declassamenti vari, che hanno aumentato in modo esponenziale l’esposizione al rischio, dall’altro alcune scelte d’investimento scellerate, come di dimostra il caso Monte Paschi, che acquistò Antonveneta per l’esorbitante cifra di 9 miliardi (sul caso sta attualmente indagando la magistratura). Quando le banche sono in crisi, a farne le spese è l’intero sistema produttivo nazionale. Le imprese hanno infatti continuo bisogno di liquidità per poter mantenere i livelli di produzione, specie in un periodo di fragilità come quello attuale. Gli istituti bancari hanno invece preferito puntare sulla finanza, sugli strumenti derivati ad alto rendimento, per cui si trovano ora con debiti enormi verso strutture internazionali come Goldman Sachs o Jp Morgan e non concedono più alcun credito se non dietro garanzie eccessive che al momento pochissime aziende possono fornire. Lo stimolo alla crescita, obiettivo dichiarato dell’attuale linea politica del governo, passa dunque anche dalla risoluzione di tali problematiche. Bisogna inoltre ricordare che gli istituti italiani hanno beneficiato di un’enorme quantità di soldi presi in prestito dalla BCE di Draghi, senza i quali le condizioni sarebbero certamente peggiori.

Sul fronte delle prospettive, i piani di Monti per la crescita sono attualmente in discussione sul tavolo del Consiglio dei Ministri. Il governo vorrebbe investire circa 30 miliardi di euro in tale operazione, finanziati sostanzialmente attraverso ulteriori tagli ai ministeri, la cui entità dipende dall’esito della spending review in corso. Il decreto sviluppo dovrebbe puntare essenzialmente sui settori tradizionali della nostra economia, tramite gli incentivi fiscali in edilizia, soprattutto sulle ristrutturazioni, la riqualificazione infrastrutturale delle città ed incentivi diretti alle imprese. Questo punto è particolarmente controverso, in quanto soggetto ai regolamenti europei in materia di aiuti di stato. Ulteriori misure saranno prese in materia di sviluppo sostenibile, di efficienza energetica e sulla giustizia, con l’introduzione di un tetto massimo di 6 anni per i processi.

Il conflitto tra politiche di austerità e l’introduzione di investimenti pubblici come stimolo all’economia è evidente. Le misure in cantiere non sarebbero più possibili se l’Italia dovesse finire sotto il giogo del Fondo Monetario e dell’Europa, accettando aiuti che facilmente si trasformano in cappi al collo: la missione del premier è di scongiurare questo pericolo, nonostante le pressioni che circondano il nostro paese.

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