Come negli anni settanta, dopo la crisi petrolifera ed il crollo del sistema di cambi fissi, o come negli anni ’90 con l’avvio dell’unione monetaria, stanno emergendo con vigore crescente le posizioni dei singoli Stati Membri. Il filo rosso che lega gli eventi decisivi per l’UE è proprio la radicalizzazione dello scontro, per cui le dichiarazioni dei policy-maker diventano sempre più ferme nell’intento di difendere interessi e convinzioni nazionali.
Accade poi che un manipolo di persone, che hanno la facoltà effettiva di agire concretamente, prendano una decisione: per alcuni sono degli illuminati, per altri sono semplicemente irrazionali o sognatori.
Tornando ai nostri giorni, i cittadini europei si aspettano dall’attuale establishment una soluzione alla crisi in atto, ed anche in tempi brevi, essendo passato ormai troppo tempo dal lontano 2008. C’è dunque attesa per il consiglio di fine mese: i leader europei sanno che l’ennesima non-decisione potrebbe compromettere definitivamente la loro credibilità, unico valore che in questo momento conta, sia sul piano politico che economico. Le fazioni sembrano tuttavia ancora distanti dal trovare un accordo, con la Germania che sembra essere sempre più isolata, impegnata negli ultimi mesi a difendere ostinatamente uno status quo dal quale è pressoché l’unica a trarre vantaggio. Il rigore finanziario imposto da Berlino non sta funzionando: gli spread continuano a tenere tutti sulle spine, le banche navigano in acque pericolose e le spinte centrifughe dei paesi periferici sono in costante aumento.
Un nuovo impulso al processo è arrivato questa settimana dagli Stati Uniti. Il presidente Obama è intervenuto in modo diretto, chiamando prima Monti e poi la Merkel, chiedendo lumi sulle prossime mosse europee. Le richieste sono sostanzialmente due: stimolo alla crescita ed aiuti alle banche. Le parole di Obama sono state approfondite dal governatore della FED Bernanke, secondo cui “le preoccupazioni sul debito sovrano e sullo stato di salute di numerose banche in diversi stati dell’area euro continuano a creare disordini nei mercati finanziari globali.” Le dichiarazioni arrivano nei giorni della probabile richiesta di aiuti finanziari all’Europa da parte della Spagna, le cui banche sono ormai in sofferenza, come dimostra il caso Bankia: si teme dunque un ritorno al 2008, che potrebbe essere innescato da fallimenti a catena. Il governatore ha poi aggiunto che “la crisi in Europa ha danneggiato l’economia degli Stati Uniti comprimendo le nostre esportazioni, influenzando negativamente la fiducia delle imprese e dei consumatori e mettendo sotto pressione i mercati e le istituzioni finanziarie”. Per gli europei non è semplice digerire queste “lezioni americane”, per cui non è più possibile distinguere con chiarezza i rapporti di causa-effetto. Gli USA addossano a Bruxelles la responsabilità di una mancata reazione efficace alla crisi, la quale è però stata innescata da un sistema finanziario esplosivo per anni sostenuto da Washington.
Prescindendo dall’opportunità di un’intromissione “straniera” negli affari del vecchio continente, è evidente che in Europa esiste un vuoto di potere sempre più pericoloso. La mancanza di una vera unione politica si avverte proprio in questi frangenti, quando altri sono chiamati ad un ruolo necessario di supplenza. Draghi, governatore della BCE, sta svolgendo in parte questo ruolo: un banca centrale dovrebbe occuparsi esclusivamente di politica monetaria, essendo sovrana in materia di emissione di biglietti e scelta del tasso d’interesse. In altre parole, Francoforte dovrebbe agire controbilanciando le scelte di politica economica, mentre al momento ne sta prendendo inevitabilmente parte, mettendo a rischio la credibilità dell’unica istituzione europea ancora forte sotto tale aspetto.
Il punto tuttavia è capire quali poteri abbia effettivamente la BCE, contro la quale spesso ci si scaglia. Da un anno a questa parte l’istituto sta garantendo liquidità illimitata alle banche: senza queste operazioni molte di esse sarebbero già fallite, visti gli squilibri nei portafogli generati dalla perdita di valore dei titoli di debito sovrano. Il problema sostanziale è che Francoforte non può “indirizzare” questi soldi, che spesso le banche utilizzano per acquistare nuovi titoli o per accantonarli in vista di ulteriori perdite, invece di reinvestire nel settore privato attraverso un allargamento del credito ad imprese e famiglie. Inoltre non è possibile intervenire direttamente sui portafogli, impedendo agli istituti di puntare verso investimenti ad alto rischio, caratterizzati da rendite elevate ma da altrettanto elevata incertezza. Non è poi fattibile, data l’attuale impostazione di governance, mettere in pratica un piano di salvataggio simile a quello americano del 2008, quando il governo federale (e non la banca centrale) prese in mano le redini del gioco, prestando alle banche somme ingenti e obbligandole al contempo ad effettuare una serie di ristrutturazioni. In pratica, non esiste in Europa un’autorità che garantisca una gestione ordinata e corretta dei soldi elargiti alle banche, che dovrebbero essere messi a disposizione da un’entità politica e non dalla BCE, altrimenti non può esserci nessun controllo.
Nonostante le imperfezioni strutturali del progetto europeo, è necessario sottolineare le condizioni di favore di cui godono gli Stati Uniti, che hanno consentito pesanti interventi governativi senza una ricaduta proporzionale sulla stabilità delle finanze pubbliche. A partire dal 2008 gli USA hanno maturato deficit annuali enormi, talvolta oltre il 9% del PIL, con l’obiettivo di ricapitalizzare le banche e di accelerare la ripresa economica partendo dalle fasce più svantaggiate, ad esempio con i sussidi di disoccupazione ed l’estensione della copertura sanitaria voluta da Obama. A fronte di tale incremento della spesa pubblica, nessuna agenzia di rating ha declassato il paese ed i tassi d’interesse sui titoli di debito non sono aumentati eccessivamente. Un simile esercizio in Europa sarebbe stato severamente punito dai mercati, dimostrando ancora una volta l’irrazionalità dei meccanismi di valutazione, condizionati dalla commistione tra controllo e ricerca del profitto.
In quest’ottica diventano più chiari i motivi per cui gli “eurocrati” accettano contro voglia l’intromissione di Washington nelle politiche nostrane. Questo non toglie che l’Europa debba decidere in fretta: nella sola giornata di oggi le parole di Bernanke ed il declassamento della Spagna da parte dell’agenzia Fitch hanno generato il caos sui mercati. L’apertura della Merkel sugli Eurobond rappresenta senza dubbio un’accelerazione “forzata” del processo, ma in cambio Berlino chiede “un’unione fiscale e politica” che garantisca un controllo più incisivo sui conti pubblici. Se l’Europa non risolve i propri conflitti, facendo un passo avanti verso l’integrazione, non potrà che subire continue pressioni e lezioni dall’esterno.