Come spesso avviene, i grandi drammi collettivi diventano anche grandi rivelatori dello smarrimento nazionale. E’ stato così per il triste episodio di Melissa già dimenticato. A oggi, pare che sia stata la mafia, ma forse no. Di sicuro, tutti i media hanno pubblicato con cura il volto e le mosse dell’assassino, dandogli tutto l’agio e modo di sparire.

Non è pertanto da meno il terremoto, e più che questo, visto che l’immediato responsabile è ancora da rintracciare, ci si è avventati sulla parata militare del 2 giugno tanto per scovare il “governo ladro”, le cui immense colpe stanno però tutte da altra parte.

Il “no” alla parata è partito dalla Rete, entità astratta e ingestibile (solo apparentemente in realtà) , eletta a tutti gli effetti corpo sociale, oracolo e vaticinatore, creatore di consensi e dissensi. Corrisponde a quello che qualche anno fa era “la gente dice”, “gli italiani vogliono” , la “ gente è stufa”.

La Rete si è dunque espressa, istericamente e mediaticamente, sull’opportunità della parata, a pochi giorni prima dell’evento. Non valutando che i soldi erano stati abbondantemente già stanziati, avviate da minimo due mesi le esercitazioni e quindi praticamente allestita buona parte della manifestazione, twitter, facebook, blogger si sono lanciati nella campagna di indignazione. Cartelli e petizioni con “io firmo contro la parata” e “ vergogna” si sono moltiplicati in misura esponenziale.

Solo quando la Rete si esprime la politica inizia a fare dichiarazioni e riflessioni, salvo affrettarsi a chiamarla “l’ antipolitica” quando le considerazioni proprio non vanno giù. Ma stavolta si poteva.

Si schierano subito per il “no” Nichi Vendola e anche Cecilia Strada. Poi i sindacati. Di Pietro ha ipotizzato che dedicare la parata ai terremotati (come è stato detto che verrà fatto) è un’ipocrisia bella e buona, ma invece i fondi andrebbero destinati a quella terra. E neppure lui che è stato ministro si vuole immaginare che le spese sono state già fatte.

“Si faccia prevalere lo spirito dell’unità nazionale, proprio della festa del 2 giugno” è la linea del Pd che, si sa, pensa sempre all’unità. “Lo Stato non si scioglie ma si rafforza, nel dolore” commenta Andrea Riccardi, ministro per l’Integrazione e cooperazione internazionale. E fa eco la tecnica Anna Maria Cancellieri: “In queste vicende ci vuole molta serenità e sobrietà. Ci sono dei valori di un Paese che vanno salvaguardati e questo non significa mancare di rispetto alle vittime, significa che il Paese c’è ed è accanto a loro”.

Ma in testa alle reazioni per il “no”, manco a dirlo la Lega, che è vicina ai terremotati, non al punto di devolvere loro i finanziamenti pubblici rubati, ma da sollevare la protesta dura e pura contro la parata questo sì.

Sicuramente tra le più esilaranti, vince la reazione della Destra di Storace, quella che vorrebbe celebrare più che altro la Repubblica di Salò insieme al console Vattani: anziché “un’inutile parata” sfodera l’oscena retorica da ventennio e sollecita a “volgere lo sguardo commosso alla nazione”. Che non si sa come deve concretizzarsi questo sguardo commosso. Ma anche il sindaco Alemanno, non è meno comico, e affida a Twitter il suo pensiero: “Ho visto le immagini scioccanti del terremoto. Spero che la parata del 2 giugno sia annullata per destinare quei soldi ai terremotati”. Ognuno insomma fa i sui aggiustini a seconda della posizione di comodo. Alcuni per far vedere che sono costruttivi fanno perfino delle proposte come Gianfranco Paglia, capogruppo di Futuro e Libertà:

“la parata del 2 Giugno sia aperta dai sindaci delle zone terremotate dell’Emilia Romagna e dell’Abruzzo come segno tangibile di solidarietà e unità nazionale nel momento dell’emergenza”.
Per cui i sindaci, impegnati come non mai nei piccoli comuni colpiti, giustamente, fascia a tracolla, verrebbero a Roma a mostrare l’unità nazionale.

Il PDL per paura di perdere l’ultima manciata di voti non si pronuncia gran che se non attraverso   Osvaldo Napoli che fa un po’ un riassunto di frasi comode: “La festa della Repubblica deve semmai diventare megafono della capacità di reazione del Paese contro le calamità e le tragedie. Se si vuole, si può immaginare una parata all’insegna della sobrietà”.

C’è poi chi rispolvera Forlani che nel ’76 l’annullò dopo il terremoto del Friuli.

I cattolici si spaccano. Famiglia Cristiana appoggia pax Christi e la sua petizione mandata al Presidente della Repubblica.

Anche Dario Fo fa dice la sua e organizza una petizione sul Fatto:

“Speravo che il Presidente della Repubblica avesse il coraggio giusto per uscire dagli schemi del rito da ripetere a tutti i costi. Andare contro questa parata avrebbe dimostrato la voglia di uscire dall’ovvietà e da quella continua sequela di sfilate, bambini che applaudono e tribune d’onore riempite da personaggi che sembrano usciti dai musei. Mi dispiace perché ho avuto ed ho ancora fiducia in Giorgio Napolitano, anche se dobbiamo constatare che al momento ancora non c’è stata la giusta sterzata”.

Nessuno osserva che i soldi, a pochissimi giorni dall’evento, sono stati già tutti spesi e che annullarlo vorrebbe dire spendere due volte.

Di ben altra natura invece è la richiesta esplicita dei Vigili del Fuoco che intendono adoperarsi per quelle zone e lo fanno attraverso un comunicato in cui chiedono:

che i lavoratori del Corpo nazionale non vengano mandati ad esibirsi in una sfilata, ma a prestare la loro opera di soccorso tecnico urgente alla popolazione delle zone terremotate”.

Ma ormai l’isteria è partita e nessuno potrebbe più distinguere.

In assoluto però la dichiarazione che genera maggiore smarrimento è quella che viene da Quirinale.
“Si farà una parata sobria”. Che è la contraddizione stessa di parata appunto che presuppone di mostrare simboli con grandissimo sfarzo. Se anche Marco Travaglio ha sottolineato quanto fosse ridicola la scelta di “sobrietà” in linea col governo sobrio del loden, anche lui, figlio della rete, si dimentica di dire che sarebbe stato effettivamente tardi per rinunciare.
E anziché rilanciare verso nuovi contenuti da dare a questo apparato retorico che ripete la sua inutilità ogni due giugno, e non solo in occasione di eventi luttuosi, si abbandona a considerare che nei giardini del Quirinale, nella sera dell’1 giugno ci sarà forse qualche incensurato. Osservazione sicuramente condivisibile ma, come ogni intervento di Travaglio, monca.

Il fronte del “sì” è qua e là articolato timidamente. Di sicuro il più convincente è stato l’editoriale di Stefano Menichini su Europa:
“ […] I riti e i simboli servono per esprimere e rafforzare i valori e i principi nei quali ci riconosciamo. Sono la forma e il linguaggio col quale parlano le istituzioni, l’arredamento della casa comune. I riti e simboli sono il mezzo attraverso il quale anche nei campi di concentramento, nel massimo della abiezione umana, un informe aggregato di straccioni può riscoprire la sua perdurante umanità”.

Queste osservazioni sono tanto condivisibili quanto risuonano tragiche. Di quali simboli possiamo parlare? Se il patrimonio artistico e culturale nazionale per non parlare di quello educativo è distrutto, se viene ostacolata la diffusione del sapere e quindi il presupposto dello stare insieme e dell’individuazione dell’altro (che è anche il senso del “simbolo”), se cioè quasi ogni strumento di reciprocità e di riconoscimento che ci parli di storia e di appartenenza vengono programmaticamente cancellati e impoveriti, ogni parata sarà vuota sempre e nessuno di quei simboli avrà la forza di “bucare” la Rete, idra senza testa, inseguita invano dalla politica.

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