Nuova produzione di Peter Grimes al Teatro alla Scala. In questo allestimento, firmato da Richard Jones, non c’era niente di pittoresco, di marinaro, non c’era nemmeno il mare. Solo un’umanità violenta, nevrotica, gli abitanti di un piccolo Borgo di provincia, pronti a infierire su un capro espiatorio, il pescatore Peter Grimes, solo perché diverso da loro. Si coglievano semmai numerose citazioni e allusioni ai dipinti di Edward Hopper, anch’essi ritratti della solitudine dei singoli all’interno di spazi e contesti insieme quotidiani e metafisici.
Qui le scene (disegnate da Stewart Laing) sembravano più la periferia di una grande metropoli che un villaggio marino: la facciata di un grande palazzo moderno, grigio ma pronto a restituire bagliori dorati, un juke-box che si intravedeva dietro le vetrine, e poi vari ambienti mobili, poggiati su supporti provvisori, come grandi box, come dei container: dalla Sala civica dove si svolgeva il processo, alla taverna del Cinghiale, dalla chiesetta del secondo atto, che campeggiava in mezzo alla scena come una costruzione di lego (magnifico l’effetto della musica del coro e dell’organo che pareva uscire da quella piccola costruzione bianca, dove si immaginavano stipati tutti gli abitanti del villaggio), alla spoglia dimora di Grimes (con una bambinesca carta da parati, un materasso gettato a terra, una sedia, un televisore – e sulla facciata esterna una scritta con lo spray: «Murder!»). Un mondo chiuso, inscatolato, una squallida periferia senza aria, che rendeva benissimo la dimensione asfittica del borgo di provincia.
Gabbiani e salsedine
Non c’era il mare in questo allestimento, ma su tutte queste costruzioni stavano appollaiati dei gabbiani; i personaggi e il coro si rivolgevano verso la sala come se il mare fosse lì; e tutto appariva instabile e fluttuante, anche questi spazi ruotavano o ondeggiavano come barche in mezzo a una tempesta. Geniale anche l’idea di ricondurre l’ultima scena dell’opera all’ambientazione del Prologo, nella stessa Sala civica dove si svolgeva il processo, linda come una sala parrocchiale, addobbata di festoni, ma con un fantoccio impiccato, nella quale Grimes si ritrova da solo, a parlare tra sé, o con il fantoccio, come in una specie di processo interiore, mentre il coro da fuori urlava impietoso il suo nome. Poi, dopo l’uscita di Grimes, che prendeva il largo per affondare con la sua barca, quella sala veniva riordinata e si affollava come all’inizio, come se il villaggio avesse finalmente ristabilito il suo ordine morale. Tutto, nell’allestimento di Richard Jones, era in perenne movimento: soprattutto il coro, perno drammatico dell’azione, appariva come una collettività di persone represse che si compattavano in muraglie di suono, oppure sfogavano le proprie frustrazioni in una specie di danza continua (coreografie di Sarah Fahie), con gesti geometrici ritmati sulla musica, e calcolati al millimetro: la bellissima fuga alla fine del primo atto che diventava una specie di coreografia “a canone” di tutti i personaggi in scena; le polke e le danze campestri nel terzo atto si trasformavano in una ridda di gesti sfrenati, in una follia collettiva.
La tecnica perfetta di John Graham-Hall
Non c’era il mare in questo Peter Grimes, ma le morbide volute degli interludi marini erano rese con tale finezza di sfumature da Robin Ticciati, che la fossa orchestrale sembrava emanare odore di salsedine. Il giovane direttore inglese (che dal 2014 sarà il nuovo direttore musicale del Festival di Glyndebourne) riusciva a tenere sempre alta la tensione drammatica, anche nei passaggi più scarni della partitura, guidava l’orchestra con grandissima precisione ritmica, trovando un perfetto bilanciamento tra voci e strumenti, evidenziando bene i crescendo, i climax sonori, ma imprimendo anche grande intensità emotiva ai momenti più amari, come nel quartetto femminile del secondo atto (le due nipotine, Zietta e Ellen), meditazione sull’egoismo degli uomini, o nel monologo finale di Grimes. John Graham-Hall, nel title-rôle, ha dimostrato di meritare il premio Abbiati che gli è stato attribuito quest’anno dall’Associazione dei Critici Musicali: un Grimes lirico, molto espressivo, dotato di una tecnica perfetta, con una voce chiara ma capace sempre di “passare” anche quando dava le spalle al pubblico, anche nei pianissimo; un Grimes eccellente anche come attore, abile nel cogliere la complessa natura interiore di Grimes, insieme rude e stralunato, malinconico, desideroso di un riscatto sociale, vero paradigma del “diverso”, così simile a Wozzeck. Susan Gritton era una Ellen sensibile e appassionata, dalla voce molto timbrata, a suo agio nella difficile tessitura, di un po’ meno convincente sul piano della recitazione. Bravissimi anche il baritono Christopher Purves, che interpretava una Capitano Balstrode dal colore vocale vellutato, la pimpante Felicity Palmer nei panni della Zietta, Catherine Wyn-Rogers perfetta nel ruolo di Mrs Sedley, Ida Falk Winland e Simona Mihai, che davano vita a una coppia di nipotine gesticolanti, che si muovevano sempre in coppia, molto credibili nei loro atteggiamenti beffardi.
Peter Grimes
di Benjamin Britten
opera in un prologo e 3 atti
libretto di Montagu Slater dal poema The Borough di George Crabbe (1610)
Milano, Teatro alla Scala