I suicidi per disperazione e povertà di questi giorni sono il drammatico segnale di una crisi profonda e strutturale che attraversa Napoli, come tutto il Mezzogiorno. Una crisi violenta che non solo estremizza le situazioni di deprivazione economica ma allarga a dismisura l’area della vulnerabilità sociale, di chi vive l’ansia quotidiana derivante dal rischio di scivolare verso il basso.

Inoltre la crisi ha agito sottotraccia sulle reti di auto-aiuto, sulle forme di economia informale, sui legami sociali destrutturando quella coesione e quelle forme di “sopravvivenza solidale” che, se pur fortemente precarie, permettevano ad ampi settori della popolazione di Napoli di raggiungere la fine del mese.

Una polverizzazione delle reti e delle relazioni che sta pericolosamente innescando meccanismi corporativi e di competizione al ribasso, anche sulle attività più umili e sommerse. Un clima che una città come la nostra, ancora caratterizzata dall’inadeguatezza del sistema di welfare rispetto alla complessità della questione sociale, non si può permettere senza correre il serio rischio di veder scoppiare conflitti e tensioni sociali difficilmente controllabili. Rabbia, disperazione, incattivimento verso l’altro differente stanno cambiando la faccia di questa città che aveva fatto dell’incontro e della convivenza tra diversità una dei suoi punti di forza.

Va poi sottolineato che il quadro appena descritto agisce in negativo sulle caratteristiche che assume il lavoro. Un lavoro che già oggi è spesso sommerso e poco tutelato ma che in questa situazione va configurandosi come una sorta di “dono” e che come tale deve essere accettato ringraziando, senza incertezze, qualunque siano le condizioni di paga, di orario, di sicurezza e fatica.

Un quadro che colpisce soprattutto i più giovani. Una recente indagine denuncia come a Napoli il livello di disoccupazione/inoccupazione dei giovani tra i 16 e i 22 anni sia pari al 47%. Un dato, già di per se devastante, che viene ulteriormente aggravato dal fatto che l’84% di tale quota è completamente inattiva, cioè né cerca lavoro, né investe nella formazione. Una situazione di totale scoraggiamento, mancanza di fiducia nel futuro e nella possibilità di emanciparsi, che riguarda soprattutto le ragazze (il 60% della percentuale di inattivi). Giovani e giovanissime donne, obbligate ad immaginarsi in un ruolo tutto interno alla famiglia, spesso servile e non valorizzato, oppure ad individuare nel matrimonio l’unica prospettiva di cambiamento (da questo punto di vista la dicono lunga i dati sull’aumento tra i giovani napoletani di malattie da trasmissione sessuale o alle sempre più frequenti situazioni di mamme giovanissime o minori, spesso a bassissima scolarità, che vivono situazioni di multidimensionalità di disagio).

Vi è poi un aspetto che riguarda la percezione che le persone hanno rispetto al tema della povertà. Infatti la stessa è così diffusa, così strutturalmente intorno a noi, da configurarsi quasi come un fatto fisiologico ai nostri tempi e per questo da accettare quasi inevitabilmente. Una sensazione che produce indifferenza e abitudine: un po’ perché è meglio girare la testa dall’altra parte per non vedere quello che si potrebbe diventare; un po’ perché se ho l’impressione di scivolare in basso uso le mani per aggrapparmi e non cadere piuttosto che usarne una per tirare su chi è già scivolato; un po’ perché, in questi anni, una politica incapace e strumentale, ha costruito una cultura in cui il problema non è la povertà ma sono i poveri.

Di fronte a tutto questo è evidente come i temi della povertà, dell’inclusione e della coesione sociale, delle politiche attive del lavoro e dell’investimento sulla scuola pubblica, devono tornare ad essere priorità della politica e dell’agire amministrativo.

Le tensioni sociali che si stanno allargando a dismisura non sono il frutto di regie occulte o di chissà quali cospirazioni di professionisti del dissenso. Sono il frutto di situazioni sempre più insostenibili dal punto di vista economico, sociale e umano. Maturano e crescono nella percezione per molti uomini e donne di essere stati rapinati di futuro e possibilità di emancipazione. Nella frustrazione che tanti e tante provano nel dover spesso rinunciare alla propria dignità per poter lavorare.

Né d’altra parte, pur nella giusta condanna di ogni forma di violenza, si può, per altro per l’ennesima volta, cadere nella trappola di criminalizzare la protesta e il dissenso.

Va invece superata con urgenza la schizofrenia di chi parla di “crescita” e “legalità” e contemporaneamente taglia i servizi sociali; riduce gli spazi di socialità e gli investimenti sulla cultura; rende impotente la scuola di fronte alla complessità di cui sono portatori i bambini, i giovani e le loro famiglie.

Nè si può continuare a pensare, a meno che non si sia in cattiva fede, che tali situazioni si risolvano con un po’ di repressione, istituzionalizzando o allontanando i più deboli e marginali o con un po’ “carità” istituzionale.

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