Si potrebbe dire che il cohousing esista fin dall’età della pietra, da quando i primi uomini si riunivano nelle caverne per ripararsi dalle avversità fino alle comuni come quella di Parigi e ai contemporanei condomini, passando per i feudi medioevali: infatti il concetto principale del “coabitare” (traduzione letterale di “cohousing”) è quello del condividere spazi, risorse e tempo.

Oggi ci sono diversi movimenti in tutto il Mondo che, analogamente ai movimenti ecologisti-economisti della “decrescita”, costituiscono volontariamente unità abitative con l’intento di trarne benefici nella vita quotidiana, ma anche economici e ambientali: il cohousing non esiste nella legislazione italiana, a differenza di altre realtà giuridiche e culturali dell’occidente in cui è parte integrante del “welfare state” (cioè delle politiche statali che garantiscono benessere alla cittadinanza intervenendo sul mercato), e quindi per adesso sarebbe aperto solo al campo dei privati… Ma diverse associazioni vogliono o sono riuscite a ottenere il coinvolgimento del pubblico (oltre a battersi perché il nostro ordinamento contempli le politiche di “coabitazione”), come la “E-cohousing” capitolina che ha lanciato una proposta dalle colonne del quotidiano di Confindustria, che sottolinea come la semplicità rivoluzionaria della “coabitazione” possa essere una soluzione per i giovani che devono comprare una prima casa e che si ritroverebbero con case alimentate da fonti rinnovabili, ecocompatibili e “tasche-compatibili” con un risparmio del 15% sulle bollette, oltre che un’occasione per i costruttori e per il rilancio del settore: cominciare a fermare la cementificazione incontrollata e selvaggia recuperando e “destinando” al cohousing il patrimonio militare da dismettere.
vimercateE a Vimercate, in provincia di Monza, un bando comunale ha dato vita, insieme all’investimento dei privati, al primo progetto in Italia promosso da un ente locale di edilizia in cohusing (in foto).

LA DEFINIZIONE DELLE RETE ITALIANA DI COHOUSING: E L’EDILIZIA POPOLARE?
La Rete Italiana di Cohousing riunisce diverse associazioni italiane che credono nel “coabitare”, e fornisce una definizione precisa di Cohusing dal suo “manifesto”, parlando di unità abitative private ma senza escludere la partecipazione delle amministrazioni pubbliche:
“Il cohousing è una modalità residenziale costituita da unità abitative private e spazi e servizi comuni ed è caratterizzata da una progettazione e gestione partecipate, condivise, consapevoli, solidali e sostenibili, lungo tutto il percorso. Gli spazi e i servizi comuni ove possibile sono aperti al territorio”.

Un’altra definizione di cohousing è quella che dà a Goleminformazione l’architetto Giovanni Bucco, che fa parte della rete nazionale di cohousing e dell’associazione romana Ecoabitare, e che partecipa a diversi progetti e ricerche accademiche per l’università “La Sapienza” sulla coabitazione e sulle linee guida da seguire per realizzare concretamente edilizia in cohousing (tra cui uno dedicato proprio al cohousing e al cosiddetto “secondo” welfare per i giovani, ossia l’interazione tra associazionismo, imprenditoria, enti locali, fondazioni e altri enti).
Il cohusing – spiega l’architetto Bucco – non è una forma edilizia del fabbricato ma prima di tutto una filosofia di vita. Quindi parte dalla volontà delle persone di condividere spazio e tempo. Sulla base di questa idea si plasma un progetto che dà forma e spazio alla voglia di condividere le varie tipologie di abitazione”.
A differenza di altri Bucco sembra intendere il cohousing in un’accezione ampia che non esclude nemmeno l’edilizia popolare, anche se ci tiene a ricordare che in questo e in altri contesti viene meno uno degli elementi fondamentali di quel movimento di pensiero “eco-abitativo” chiamato “cohousing”: la volontarietà, la scelta di investire oltre che tempo anche denaro. E’ proprio la volontarietà che distingue il “cohusing” da altre esperienze, spiega ancora Bucco: “la differenza fondamentale tra un’esperienza di condivisione e coabitazione come la comune, è che la condivisione è volontaria e non obbligatoria, per cui ci può essere un periodo e un’attività in cui si partecipa o meno, ma ognuno mantiene comunque la propria privacy e i propri spazi come nelle abitazioni tradizionali”. Potenzialmente, dunque, può aggiungere qualcosa al nostro quotidiano più che sottrarlo.

Quindi è sbagliato pensare al cohousing come a un edificio, rimarca ancora l’esponente delle rete nazionale dedicata alla coabitazione: “è una modalità dell’abitare e può prendere forma in un palazzo o in un quartiere, e in Danimarca –dove il cohousing è nato e dove si contano circa 700 comuità di cohousers, ndr – ci sono esempi di quartieri interi” improntanti al cohousing. Infatti “il cohousing nasce dalla volontà di mettere a disposizione di più persone uno o più ambienti, e una rete di cohousing non è altro che un insieme di più di edifici che mettono a disposizione di tutti la somma degli spazi comuni, e questa è una soluzione spendibile per qualunque tipo di orizzonte.
Un esempio concreto può essere questo: ci sono trenta appartamenti, soprattutto quelli moderni che magari non hanno un soggiorno per ospitare gli amici (e anche se ne hanno uno abbastanza grosso si rivela uno spreco, pensiamo all’Imu che conterebbe i metri quadri sprecati per trenta appartamenti), e quindi basta un soggiorno veramente grande da usare a rotazione e, perché no, magari per socializzare e festeggiare con gli altri.
Ma il soggiorno è un esempio classico, uno spazio grande: pensiamo a quante volte ci servono degli utensili che magari utilizziamo una sola volta all’anno, in occasione di qualche lavoro casalingo: non sarebbe più comodo condividere anche gli oggetti, o gli hobby?
”.

Ma un esempio di cohousers che si riuniscono per interessi e progetti in comune, potrebbe essere anche un nucleo di persone anziane che devono fare spesso fisioterapia e non hanno la possibilità di spostarsi, o magari uno studentato e, perché no, perfino un condominio che non deve essere costruito ex-novo ma con uno spazio comune da recuperare, magari uno spazio che si può mettere in comune con altre persone dello stesso quartiere, che a loro volta metteranno a disposizione altro… “Insomma – sottolinea Bucco – anche in tempo di crisi, ci si potrebbe ricollegare al movimento della decrescita –spiega l’architetto- e l’idea è quella di condividere”. E c’è anche un ovvio motivo se nella letteratura dei testi di urbanistica e architettura il nucleo “ideale” è costituito da circa 30 cohousers: è opportuno non esagerare con i… numero per evitare eccessi di conflitto, che rimane il problema di base della condivisione della vita di tutti i giorni.

Ma è possibile concepire anche nuclei per l’edilizia popolare? “ –secondo il giovane architetto- ma bisogna cambiare la mentalità delle persone: anche un condominio classico è un cohouing, in un certo senso, però se butti le cicche delle sigarette per le scale non è piacevole trovarle per terra. Il cohousing è una consapevolezza: il solo rispetto delle buone maniere con il vicinato è una forma di convivenza, anche se lo spazio è piccolo deve essere rispettato e quindi il cohousing si può concepire anche per l’edilizia dedicata ai più disagiati, se può creare benefici invece dell’edilizia-ghetto. In periodo di crisi economica va invertita la tendenza: non possiamo avere tutto tutti” e a volte gli spazi e le possibilità di aggregazione sociale non si vogliono creare perché “per non avere problemi gestionali”.

Forse il cohousing, così come la teoria della decrescita, sono rivoluzionari per la loro semplicità: è rischioso provare a condividere non solo gli spazi, ma la propria vita, le proprie esperienze. Forse i governi e le legislazioni potrebbero incentivare forme di edilizia più rispettose dell’ambiente, economiche, ma che rappresentino anche importanti sfide sociali, magari all’insaputa di qualche costruttore, inclusi quelli che dicono di essere “eco-compatibili”.

Qui si può leggere il manifesto della Rete Nazionale di Cohousing
http://www.cohousingitalia.it/article8825.html

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