Gli effetti recessivi dell’austerità imposta dai vertici dell’economia europea iniziano a destare preoccupazioni anche nelle alte sfere, per cui la parola “crescita” sta gradualmente prendendo il posto dell’ormai celebre “rigore”.
Probabilmente ci si inizia a rendere conto che la nuova fase recessiva è più dura del previsto: dopo l’Italia, la Grecia, la Spagna, anche il Regno Unito è finito nel baratro della recessione, come attestano i dati del primo trimestre del 2012. Sotto il profilo tecnico, infatti, è anche plausibile che le misure restrittive di molti governi diano frutti nel medio periodo, quando i conti saranno in ordine ed i rischi di default finalmente scongiurati, tuttavia i mercati non sembrano in grado di gestire attese così lunghe. Mancando le prospettive di crescita, alla base di ogni politica di stabilizzazione in materia di finanza pubblica, le borse persistono dunque in un’altalena quotidiana e gli spread dei paesi a rischio rimangono ben sopra la soglia della sostenibilità.
D’altra parte i mercati, o quantomeno l’ampia frazione speculativa di questi, hanno costantemente bisogno di un appiglio per tenere sulle spine le contrattazioni, in modo da elevare il livello di profitto proprio grazie alle condizioni di incertezza. Il meccanismo perverso che avvolge il vecchio continente si è manifestato ancora una volta questa settimana, in seguito ai risultati elettorali francesi. La vittoria di un socialista, peraltro al primo turno, è stata accolta lunedì mattina con un crollo della fiducia verso la tenuta dell’Europa, per il semplice fatto che Hollande aveva più volte espresso le sue perplessità verso le politiche comunitarie di gestione della crisi economica in atto.
La semplicità con cui i mass media propagano una notizia del genere, che getta quantomeno un’ombra inquietante sui rapporti di forza all’interno delle nostre democrazie, rischia di oscurarne la reale portata. Agendo in tal modo, i mercati dimostrano un potenziale potere di influenza sui confronti elettorali, attraverso la “promozione” o la “bocciatura” dei programmi proposti. Le politiche implementate a livello nazionale, infatti, sono state da sempre sotto la stretta osservazione degli analisti finanziari, anche se negli anni passati le valutazioni venivano fornite ex-post, per esempio in merito alle leggi di bilancio. Nell’ultimo periodo, invece, si sta affermando la tendenza a giudicare i candidati prima che questi possano realmente esprimere, attraverso l’azione di governo, quali siano le reali linee guida di politica economica. Lo stesso Monti è stato chiamato al governo sulla base di tali principi, in quanto rappresentante di una corrente di pensiero ritenuta affine a quella dominante, mentre qualcosa di simile è accaduto in Grecia ed in Spagna. I risultati di questo meccanismo non sono poi molto soddisfacenti, visto che non hanno garantito un’uscita rapida ed efficace dall’impasse, nonostante l’adozione massiccia di misure di austerity e la generale tendenza ad “assecondare” le richieste dei mercati.
Il voto francese dimostra dunque una ribellione a questa tendenza: la rinuncia al “voto utile” in termini di politiche europee riflette una sfiducia dei cittadini verso le indicazioni economiche, rimarcando la necessità di uno stimolo alla crescita in tempi brevi. Sul piano istituzionale i responsabili del mondo economico hanno iniziato ad affrontare il problema, dovendo prepararsi ad una eventuale collaborazione con Hollande. La Francia è uno dei pilastri dell’unione monetaria, per cui sarà necessario trovare un nuovo compromesso europeo in grado di garantire l’appoggio ad una politica comune. In questo contesto, diventano comprensibili le dichiarazioni in serie di questa settimana, partendo dal governatore della BCE Draghi, favorevole al perseguimento di un “modello sociale europeo sostenibile” del quale condivide in pieno “i valori dell’inclusione e della solidarietà”. Anche il cancelliere tedesco Angela Merkel, costretta ad un cambiamento strategico dalla prospettiva di una caduta dell’alleato storico Sarkozy, ha sostenuto le parole di Draghi, sottolineando ovviamente l’aspetto del rigore nei conti pubblici.
La posizione divergente di Hollande in materia di governance europea riguarda soprattutto il “Fiscal Compact”, l’accordo intergovernativo sul controllo delle finanze pubbliche siglato lo scorso marzo, senza l’appoggio del Regno Unito. Le regole, che impongono restrizioni sul deficit rendendo sostanzialmente obbligatorio il pareggio di bilancio, sono state criticate dal candidato socialista per la loro portata recessiva che potrebbe influire sui meccanismi di welfare, a causa dei tagli di volta in volta necessari. L’accordo dovrebbe entrare in vigore nel 2013, a condizione che sia ratificato da almeno 12 Stati membri, anche se Hollande ha dichiarato che in Francia, nel caso in cui dovesse essere lui il nuovo presidente, il testo così com’è non verrebbe approvato. Sarà dunque inevitabile un dialogo tra le parti, poiché la mancata ratifica francese farebbe senza dubbio saltare l’intero processo: a questo punto meglio un testo più “espansivo” che un completo fallimento, anche se rimarrebbe da gestire un’eventuale reazione dei mercati. Le proposte messe sul piatto potrebbero mettere in seria difficoltà i promotori dell’accordo, specialmente i tedeschi: durante la campagna elettorale il candidato all’Eliseo ha parlato dei Project Bond, i titoli europei a rischio condiviso, che dovrebbero servire per finanziare investimenti nel vecchio continente, attraverso un potenziamento dei fondi alla BEI, la banca Europea degli Investimenti. Si è detto inoltre favorevole all’introduzione di una tassa europea sulle transazioni finanziarie, fortemente osteggiata dal Regno Unito e dai paesi del nord. Da un ultimo, Hollande vorrebbe promuovere una revisione del meccanismo di allocazione dei fondi strutturali, in particolare per quanto riguarda i finanziamenti rimasti inutilizzati.
In un’ottica di medio periodo, l’eventuale presenza di un esponente socialista tra i principali governanti europei potrebbe riequilibrare, almeno parzialmente, la tendenza neo-liberista emersa con particolare vigore in seguito alla crisi del 2008. L’Europa dell’ultimo decennio si è gradualmente allontanata dal modello di “welfare state” caratteristico di molti Stati Membri, assumendo un approccio sempre più simile allo schema privatistico anglosassone, ritenuto maggiormente orientato verso la crescita. Tali convinzioni, che affondano le radici in un periodo ben più distante, iniziano ormai a scricchiolare: i benefici auspicati non sono arrivati, dato che il PIL ristagna e la disoccupazione aumenta, mentre i cittadini europei non sembrano voler abbandonare il sistema di “stato sociale” che ha indubbiamente portato a standard di vita elevati e soprattutto altamente diffusi, a differenza del modello americano. In tale contesto si pongono i mercati, la cui influenza sulla scena politica è espressione della visione del mondo che in molti ormai sembrano rifiutare: farlo attraverso il voto rimane ancora, per fortuna, un diritto dei cittadini europei.