L’arte del comporre non è solo dei musicisti. Raccogliere e ricercare sono culture antiche. L’amor di sintesi descrive un’epoca, uno stile, un personaggio. La sensibilità suscita e rinverdisce parole perdute e atmosfere non sempre riproducibili.
Solo la mano leggera di Marzio Breda, “quirinalista” al Corriere della Sera poteva produrre un ritratto d’autore autentico con i materiali primigeni di Alberto Cavallari, mitico direttore del Corriere della Sera.
Raccogliere cinquanta anni di pubblicistica dal multiforme ingegno non era facile, ma Breda ha seguito con il fiuto del cronista le orme del Maestro. Nel Dopoguerra in un’austera stanza disadorna di via Solferino Dino Buzzati accoglie il giovane allievo piacentino concittadino del giurista illuminista, Giandomenico Romagnosi, impartendo lezioni memorabili.”Disciplina professionale, fedeltà alle regole della cronaca, rispetto della notizia, castità di scrittura, capacità di cogliere dettagli da elevare a metafora di una storia”. Sono i fondamentali di un mestiere nobile esercitato con “l’austerità di una grisaglia” che richiama il rigore degli antichi frequentatori dell’agorà. Come Albert Camus di passaggio in Italia che intreccia con Buzzati un dialogo che colpisce profondamente Cavallari al punto da forgiare nel suo profondo uno spirito critico ed eretico “nel secolo delle catene ideologiche”. Il titolo di questa antologia di scritti si ispira alla celebre opera camusiana con un aggettivo che rievoca un titolo da melodramma (La Forza del Destino di Giuseppe Verdi) derivato dall’orgoglio emiliano.
“La forza di Sisifo” della casa editrice torinese Aragno è stato pubblicato sul finire del 2011. Marzio Breda ha applicato un metodo archivistico molto rigoroso, scegliendo una sequenza di testi non cronologica, ma per argomento quasi volesse far conoscere gli aspetti multiformi di una scrittura definita da Indro Montanelli efficace in funzione della sua sobrietà, della sua rinunzia ad ogni eloquenza, rarità di un novello Tacito. Forse uno dei suoi pezzi più bello è quello del 1979, all’epoca corrispondente a Parigi. Lo scritto è dedicato agli italiani in esilio dimenticati nelle “ urne dei forti” con una richiesta all’allora presidente Pertini di portare non solo le spoglie “dei prischi eroi” ma le idee, che divenissero canto in un Paese senza memoria dei Gobetti, dei Turati, dei Rosselli. La formazione culturale del giovane cronista affonda nelle radici laiche di tutto il movimento dell’epopea resistenziale di Giustizia e Libertà. Scoperto da Elio Vittorini, Cavallari esordisce a 18 anni facendo la gavetta a “L’Italia libera”. organo del Partito d’Azione. Nel 1950 entra a Epoca. Nel 1954 lo assume il Corriere di cui diventa inviato speciale. Nel 1965 Cavallari è il primo giornalista che intervista un Papa. Lo stile ricorda il pathos narrativo di Thomas S. Eliot. “Paolo VI si è fermato , portando le mani sopra la scrivania , guardandole per un attimo, come sconcertato dalla loro fragilità. Ma poi le ha nascoste subito, quasi per un improvviso pudore, ed è passato, con il realismo che dicevo, alle frasi più illuminanti del suo personaggio di papa moderno, incapace di illusioni”.
Dopo il 1969 egli ha diretto prima il “Gazzettino” di Venezia e poi la redazione romana
dell’Europeo. Alberto Cavallari ha guidato il Corriere dal 1981 al 1984. Come un eroe di Conrad il direttore compie “la più spaventosa delle traversate con il mare sempre in tempesta e con il vento contrario, ogni giorno rischiando il naufragio”. Il giornale sull’orlo della bancarotta, infestato da una banda di corrotti, rinasce in pochi anni. Così Cavallari descrive il percorso di quegli anni: ”Ho cominciato a dirigerlo dopo che la P2 aveva macchiato la sua bandiera, quando l’onda del discredito minacciava tutti”. I lettori hanno consentito il miracolo ma il direttore è isolato dalla prepotenza di una fazione politica. Gli ultimi anni di Cavallari segnano ancora di più la sua personalità di uomo scomodo, inviso ai potenti, confinato nell’immaginario deserto dei Tartari. Egli riflette sull’idea di giornalismo e delle nuove tecologie di comunicazione nelle lezioni, tenute alla Sorbona di
Parigi. Chiamato da Eugenio Scalfari, scrive per “Repubblica”. Una sorta di nemesi storica, vissuta anni prima da Alfredo Frassati altro grande del giornalismo italiano, direttore della Stampa . Il cardinale Achille Silvestrini nell’omelia ai funerali del luglio del 1998 lo definisce “partigiano della verità”. Ma la definizione più calzante è dello stesso Cavallari che ironicamente si prende in giro: “Visse, scrisse, viaggiò, cioè inutilmente fuggì”. Una parabola attuale dell’utopia di chi riparte nella speranza che il tempo torni ad essere galantuomo.
Alberto Cavallari, La forza di Sisifo, a cura di Marzio Breda, Aragno editore, pagine 258, euro 15