Le preoccupazioni degli operatori economici mondiali (governi, mercati ed istituzioni internazionali) sono al momento focalizzate sulle prospettive di breve periodo, anche perché gli scenari rimangono tutt’altro che rassicuranti.
Le notizie provenienti dai mercati, con borse molto altalenanti per tutta la settimana e spread in ripresa di alcune economie, tra cui la nostra, giustificano l’attenzione globale verso il futuro prossimo. Nonostante i risultati fortemente negativi degli ultimi anni, rimane comunque sempre viva la speranza che la notte finirà e che le economie occidentali torneranno produrre quel benessere al quale ormai ci siamo abituati. Gli scenari di lungo periodo, tuttavia, non sembrano così promettenti, almeno sotto il profilo dei conti pubblici ed in particolare del debito: questi fattori, come ci insegna la storia recente, sono destinati ad incidere in misura crescente sulle nostre vite, poiché indirizzeranno le scelte politiche (sul lavoro, sulla spesa pubblica, sullo sviluppo).
Le anticipazioni di questa settimana del Global Financial Stability Report, il documento prodotto dal Fondo Monetario Internazionale riguardante le prospettive di stabilità finanziaria, mettono in luce problematiche latenti e mai seriamente affrontate in merito al rapporto tra longevità e sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo. In sostanza si analizza l’impatto dell’invecchiamento medio della popolazione, in grado di generare un tendenziale aumento della spesa principalmente pensionistica e sanitaria, che occupa già un ruolo di primo piano nei bilanci nazionali. Secondo le previsioni, un aumento della vita media superiore di tre anni a quanto stimato in precedenza per il 2050, comporterebbe un aumento dei costi del 50% in rapporto al PIL. Nel caso in cui il problema non venga affrontato seriamente dai governi, i rischi connessi a tale processo “potrebbero avere un ampio effetto negativo su settori pubblici e privati già indeboliti, rendendoli più vulnerabili ad altri shock e potenzialmente minando la stabilità finanziaria”. Secondo il FMI, dunque, “serve una combinazione di aumento dell’età pensionabile di pari passo con l’aumento dell’aspettativa di vita, più alti contributi pensionistici e una riduzione dei benefit da pagare”.
Il tema è senza dubbio destinato ad ottenere una visibilità crescente: la Commissione Europea ha istituito da alcuni anni un gruppo specifico di lavoro (Working Group on Ageing Populations and Sustainability, AWG), per l’elaborazione di indicatori che tengano conto dell’evoluzione demografica. L’Europa si pone dunque all’avanguardia rispetto ad altri paesi, anche perché l’età media è cresciuta molto più in fretta nel vecchio continente. Sotto il profilo teorico, l’impostazione della metodologia internazionale si basa sull’assunto che il debito pubblico vada prima o poi ripagato nel lungo periodo. Questo concetto implica la formazione di un cosiddetto “vincolo intertemporale”: se ci indebitiamo oggi dovremmo aspettarci un aumento delle tasse (o una riduzione delle spese) domani, nell’ottica di un percorso di stabilità dei conti pubblici. Pertanto, gli indicatori elaborati dalla Commissione, denominati S1 e S2, misurano l’aggiustamento fiscale necessario al raggiungimento degli obiettivi preposti: risulta evidentemente cruciale la scelta del periodo considerato, ovvero il termine entro quando il debito deve assumere un certo livello.
Le soluzioni relative alla problematica dell’invecchiamento possono essere diverse, in relazione alle linee guida di politica economica che si intendono perseguire. L’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita rappresenta senza dubbio un primo passo, anche se risulta inefficace senza interventi complementari sul mercato del lavoro. Se, infatti, l’ammontare totale di posti disponibili rimane costante, ad un aumento dell’età lavorativa corrisponderà un incremento della disoccupazione giovanile, per cui lo Stato dovrà affrontare una spesa superiore in termini di sussidi alla disoccupazione. In altre parole nulla cambierebbe sotto il profilo dei conti pubblici, nel momento in cui l’economia non riesca ad impiegare un numero crescente di giovani. Un altro strumento da impiegare è l’adeguamento dei contributi pensionistici, per cui ognuno dovrebbe essere in grado di coprire la propria retribuzione post-lavorativa. Un incremento eccessivo potrebbe tuttavia causare delle distorsioni sul piano economico: i contributi funzionano come le tasse, ovvero come soldi non possono essere impiegati nei consumi, generando una potenziale depressione del PIL.
Per quanto riguarda l’Italia, la spesa pensionistica sfiora il 14% del PIL, mentre quella sanitaria ammonta al 7,6%. Complessivamente, dunque, oltre un quinto della spesa pubblica è legata a fattori age-related, ovvero collegati in modo diretto all’invecchiamento della popolazione. Il sistema contributivo italiano consente al momento una copertura quasi totale delle pensioni, dato che le entrate di questo tipo sono pari al 13,7% del PIL. Rimangono tuttavia fuori dal meccanismo, oltre alla spesa per la sanità, altri trasferimenti pubblici non direttamente connessi con la spesa pensionistica, ma che tendono comunque a variare sulla base dell’evoluzione demografica: si tratta principalmente dei sussidi al reddito e di beni non monetari (agevolazioni, riduzioni, esenzioni). Il nostro paese presenta poi uno dei tassi di natalità più bassi d’Europa, per cui la popolazione tende ad invecchiare più velocemente. Un ammortizzatore in tal senso è rappresentato dall’immigrazione, che abbassa l’età media e contribuisce in modo significativo alle entrate fiscali.
Un argomento strettamente correlato al problema dell’invecchiamento ed al relativo peggioramento tendenziale dei conti pubblici, come sottolineato nel rapporto del FMI, è la perdita di asset sicuri a livello globale. Nel lungo periodo, in sostanza, anche i debiti considerati “infallibili” quali quelli di Germania ed USA potrebbero incrinarsi, per cui aumenterebbe il rischio complessivo di fallimento con una perdita di fiducia verso le economie più avanzate. Lo scenario negativo scaturisce dall’assenza generalizzata di misure volte a correggere eventuali squilibri che potrebbero presentarsi in futuro, in quanto l’orizzonte temporale è troppo avanzato. I governi sembrano aver fatto propria la famosa espressione di Keynes, secondo cui “il lungo termine è un riferimento fuorviante per le questioni presenti: nel lungo termine saremo tutti morti”. L’economista, tuttavia, parlava di un approccio scientifico per cui una corretta impostazione di breve periodo avrebbe avuto effetti positivi anche in futuro, mentre le dinamiche governative si fondano su aspettative differenti, in primis sui risultati elettorali. L’orizzonte del politico, infatti, è per sua natura collegato al termine della legislatura, quando sarà valutato sulla base di quanto fatto durante il periodo appena trascorso, non per interventi che daranno benefici tra diversi anni.